Lettera sul dramma Demetrio e Polibio cantato nel teatro Carcano
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I
LETTERA
sul dramma «Demetrio e Polibio»
cantato nel teatro Carcano
Di Milano, il dí 27 luglio 1813.
Non ho fatto risposta prima d’ora alla tua dimanda intorno al merito dell’opera seria Demetrio e Polibio, perché il giudicio mio in fatto di musica, non potendo io derivarlo, come sai, da conoscenza alcuna dell’arte, sarebbe forse parso intempestivo anche a me medesimo, se per indurmi a proferirlo avessi stimato sufficiente il suffragio delle prime sensazioni del cuor mio. E però, non contentandomi io di quello, mi parve di dover aspettare che il voto del cuore, per la ripetizione continuata ed uniforme delle stesse sensazioni, pervenisse ad ottenere anche la fredda approvazione della mente.
Se primo adunque e forse unico istituto della musica gli è quello d’impadronirsi rapidamente dei cuori umani e di dirigerne e travolgerne ad arbitrio assoluto di lei gli affetti; se il terrore, se la pietá, se l’amore, se la téma e la gioia si sollevano a vicenda dentro di me e mi agitano fortemente, appunto quando il maestro intese di volere suscitare in me queste passioni; se manifestissimi segni mi convincono che la medesima commozione che io provo è sempre e con gli stessi mezzi destata né piú né meno viva nell’universalitá degli spettatori, a segno di togliermi affatto ogni dubbio che ella possa prodursi in me solamente, o per ignota e bizzarra disposizione di fibre, per una debolezza non comune di anima, o per certe troppo squisite attitudini a sentire, alle quali m’abbia disposto forse malamente una peculiare educazione; e se infine dal maggiore o minore conseguimento d’affetti è lecito far paragone fra una musica e l’altra, e il misurarne cosí la bontá positiva di ciascheduna non è logica strana; io sprezzerò con ardimento deliberato qualsivoglia anatema dei pedanti dell’arte musica, e quantunque non iniziato ne’ loro misteri, non grave il capo di crome e biscrome, giurerò solennemente a te, e teco, se ti aggrada, anche al pubblico intero, che il signor Rossini quando dettava quest’opera era quasi certamente ispirato da un genio buono.
Modellando il signor Rossini l’arte sua al vero gusto italiano, si sgabellò delle astruse metafisiche di molti degli oltramontani; e lasciando che a loro tenga luogo d’ogni altro senso l’orecchio, vide che in Italia v’erano anche de’ bisogni nel cuore, e questi studiò di appagare; vide che se la sola armonia bastava all’udito, ella non bastava però a conseguire quel fine a cui egli mirava, ed a lei saviamente accoppiò la cantilena; vide che la persuasione è operata dalla continuitá del pensiero e, certo egli di possedere profondamente la scienza musica, non si curò di farne uso vano e puerile, ma maneggiandola da padrone allungò i suoi pensieri in modo da schivare le tante e ricercate spezzature, delle quali pare che vadano innamorati i moderni eruditi dell’arte; vide che il suono degli strumenti, quando sia unito al canto, non può ragionevolmente affettare il primato, ma sí bene deve a quello sottostare pazientemente, e non si diede perciò a seppellire la dolcezza delle voci umane nella tempesta dei timpani e nello stridore delle corde e dei chiarini; vide egli insomma tutto quello di cui si erano accorti prima di lui e Pergolesi e Iomelli e Cimarosa e Paesiello e, rispettandone l’ombre senza seguirle servilmente, si aprí una via alla gloria. E se vago, com’egli è, dell’aver semplicitá, pur non ebbe il coraggio di inimicarsi del tutto i cacciatori dei ghirigori musicali, bisogna almeno confessare che nel placar di frastagli e ricami quella divinitá egli fu scarso assai ne’ suoi sagrifici. Fortunato giovinetto, e fortunati noi pure, se le meritate lodi, delle quali lo onorano i suoi paesani, varranno a mantenerlo ostinato nel suo proposito e ad irritare sempre piú nell’animo di lui quella sete di fama che io vorrei necessariamente insaziabile ed eterna nei grandi ingegni, ma che però con danno universale si spegne talvolta per colpa della facile contentabilitá giovanile.
Ora immáginati, amico mio, una musica quale noi la invocammo tante volte, allorché uscivamo di teatro inveleniti contro la crescente barbarie dei tempi nostri e stanchi di bestemmiarla. Que’ precetti, che allora venivano dettati da noi, non erano per comune nostra fortuna uditi da altra anima vivente che ne potesse redarguire la troppa presunzione; e come ignote a noi sono le regole dell’arte musica, e cosí rimanevano ignoti agli altri i delíri nostri intorno a lei. Ma io intanto scommetto che il signor Rossini pensò forse piú ordinatamente, ma non diversamente certo di quello che noi facessimo. E però ti so dire che i desidèri nostri sono oggimai per grazia di lui avverati pienamente.
Immáginati, dico, una tale musica, cantata con maestria inestricabile da due care voci femminili le piú simpatiche che tu possa desiderare, da un baritono destro nel mestiere suo quanto basti per poter secondare ottimamente ogni piú ardito professore e mantenere armoniosissimo ed esatto qualsivoglia concento a cui egli si frammetta, e da un tenore poi il quale ha tutte in pronto le piú recondite dottrine dell’arte e le vie tutte della seduzione e che, ad una rara e somma energia d’animo e ad una robustezza non comune di petto congiungendo un delicatissimo sentimento del bello, sa con fina disinvoltura riparare le onte che gli anni devono per natural legge aver recate alla sua voce. Le quali onte però se non isfuggono, come che lievi, all’udito del conoscitore, non offendono per nulla l’animo di lui. E tanto è il predominio del buon gusto sul brio ineducato de’ soliti cantori nostri, che ogni spettatore d’indole appena appena non triviale non si lascerebbe indurre cosí di leggieri a rinunziare, per le lusinghe della fresca voce d’un giovinotto, alle diverse lusinghe colle quali quest’uomo ne riduce alla memoria il bel metodo antico dei recitativi, e ne mostra com’egli intenda e senta sempre ciò ch’egli dice, e n’insegna l’utilitá del sillabare con esattezza le parole, e ne dispiega una acuta cognizione de’ recessi piú riposti del cuore umano e lo zelo costante con cui egli si propose di parlare a lui e d’intenerirlo, anziché farsi a correr dietro alla smania volgare di rendersi ammirato per dovizia di arzigogoli e trilli. Vieni ad udirlo, amico mio, e non appena avrai cominciato a gemere di non averlo potuto ascoltare nella sua gioventú, che giá vinto dal piacere presente dimenticherai affatto le ipotesi, ed una forza segreta ti scambierá sul labbro la prima esclamazione: «Quale sará stato egli mai!», nell’altra piú sentita: «Quale egli è mai costui!»
Non contento però il signor Mombelli di allettarne giá tanto colle sue belle maniere musicali, volle valersi anche d’un altro mezzo astutissimo onde trarre a sé la nostra riconoscenza, e seppe rifarci perfino del poco decadimento della sua voce. Avvedutosi egli di quanto la natura era stata in ciò liberale colle due sue figliuole, educò con vero amore paterno e con sí appassionato studio le floride voci di quelle gentili giovinette, che lo spirito del padre, versandosi tutto, per cosí dire, nelle anime novelle delle fanciulle, tornò a giovinezza e si adornò di ben altri vezzi e di ben altre ed infinite soavitá. Davvero mi bisognerebbe tutta l’abilitá dell’Albano per poter trovar modo onde darti ad intendere di quante ridenti idee m’abbiano inondata la memoria, di che dolcezza m’abbiano inebriato il cuore queste due vergini grazie. Ti ricordi, carissimo amico, quell’ultima lettera ch’io ti scriveva due mesi fa? Quella lettera riboccava di fantasie tutte negre, come l’anima mia era allora, piena zeppa di amarezze e travagliata dalla noia della vita, terribilissima delle umane sciagure. Oh se mi vedessi ora! Se vedessi come m’abbia guarito lo spirito questa magica operetta! Fa’ conto che in vita mia non mi sovviene d’aver mai tanto benedetta l’esistenza come a questi dí. Mi sono riconciliato con me medesimo e cogli uomini; ed ora l’universo mi sorride innanzi seminato tutto di rose. Ed ogni oggetto che mi si affaccia io lo credo partecipe della mia gioia; ed ogni suono mi par l’eco che ripeta colla divina cantilena:
Questo cor ti giura amore,
mia speranza, mio tesoro.
E come l’anima si commove tutta, io me la sento dalle sedi segrete rispondere:
Questo cor ti giura amore,
mia speranza, mio tesoro.
Mille volte ho desiderata la tua compagnia. Mille volte ho desiderato di dividere con te questo diletto di paradiso. Che importerebbe a noi del sogghigno di quelle mute fisonomie calcolatrici, su cui non isbalza mai una scintilla dell’anima?
Invidieremo forse noi a costoro il letargo che gli assidera, noi che piú che per la mente viviamo pel cuore? Che se voi, o freddi filosofi, mi togliete queste care illusioni, questa violenza di emozioni, io offro alla vostra scure anche il collo mio, e vi cedo tosto e di buon grado la vita, per la pace del sepolcro: ma s’ella precede la morte, io l’abborro.
Ma tu forse sospetterai che a tanto incantesimo contribuisca non poco l’aspetto della bellezza e delle tante attrattive della gioventú. Maligno animo! Io ti confesso candidamente che le due ragazze Mombelli ebbero entrambe propizia assai la venustá, e che la minore di esse, per quanto appare dalle scene, unendo ad un volto animatissimo e ad un par d’occhi leggiadri un sorriso tutto serenitá ed una certa ingenua lindura di modi, non riescirebbe vano soggetto di studio a quel pittore che colla contemplazione di vari modelli naturali volesse arricchirsi la mente d’immagini delicate ed arrischiarsi di ridurre a umane forme l’idea astratta dell’amabilitá. Tu però, in compenso della sinceritá mia, accetta per sacrosanto il giuramento che ti fo d’avere io scrupolosamente poste ad analisi le mie sensazioni, d’averne investigato l’origine, e d’aver trovato che questo piacevole entusiasmo che mi rapisce è generato dalla dolcezza tutta nuova della voce di lei che tiene assai del contralto e che, senza svagarsi, piomba diritto sui cuori altrui e se ne impadronisce; poi dal metodo semplice, ma affettuoso, ma pieno di veritá, con cui ella canta. I dotti nell’arte ravvisano forse piú vasta conoscenza di musica e piú agilitá di voce nella maggiore delle fanciulle. E le belle milanesi, che si piegano al parere dei dotti per mantenersi anch’esse riputazione di dottrina e che, placidamente leziose, infastidiscono il cantar piano, a lei dánno la palma. Ma il piú degli uomini, che non sono né belli né dotti, ammirano e lodano la signora Ester, e si lasciano vincere dal canto della signora Annetta. Se poi la musica sia fatta per dilettare i dotti soltanto o sí bene tutta l’umana razza, s’ella debba giudicarsi dagli effetti generali o da’ particolari, io non so, né vorrei dirlo ora se lo sapessi. Bensí mi è caro il vedermi confortato nell’opinione mia dall’applauso con cui è festeggiata sempre la signora Annetta dalle persone tutte che, venerando la ragione dell’intelletto, cedono pure alla prepotenza della ragione del cuore.
Non per questo vorrei però io scompagnate mai le due angeliche cantatrici; ché anzi, giovandosi elle a vicenda mirabilmente, l’una all’altra a vicenda porge tratto tratto occasione onde far in piú lucida guisa spiccare la propria maestria. Ed unite poi, perfettissimo accordo, ne risulta quella armoniosa voluttá che si spande sugli animi degli uditori, e a poco a poco li induce all’oblio intero delle cure moleste ed al sentimento carissimo della loro origine celeste.
Dio vi benedica entrambe, o creature gentili; e mandi sul capo vostro mille felicitá, e vi conservi, colla domestica virtú e colla bella onestá dei costumi vostri, il diritto di meritarvele sempre maggiori. Dio vi benedica entrambe; e le sorti sieno feconde di prosperitá verso dei parenti vostri, quantunque a loro sia giá invidiatissima delizia la compiacenza di avervi allevato tanto bene.
E tu, amico mio, sbrigati di far presto quello che devi fare costí; e corri per caritá a Milano prima che si chiudano nuovamente le porte del teatro Carcano. Io non ti dico che tu ci avrai di che pascerti gli occhi nello splendore delle decorazioni e nello sfarzo delle vesti; perché la veritá è che ve n’ha proprio una penuria men che decente, né tu sei ragazzotto da gongolare di sí fatte baie. Non ti dico che tu ci vedrai la recita di belli versi, sebbene il libretto non debba invero temere di venire al paragone con tanti del moderno teatro nostro. Ma se per lo stile esso tiene dietro rigorosamente ai vestigi di alcuni dolcissimi pseudo Metastasi della Scala, s’è posto però un tantino al disopra delle Signorie Loro, per certa chiarezza e semplicitá d’argomento, per certa ragionevolezza di condotta e per l’introduzione non infelice dei cosí detti «colpi di scena» e delle «situazioni teatrali». Aggiungasi che chi lo scrisse merita poi facilmente da te, che sei buon femminiero per la vita, un qualche compatimento. Oh guarda il furfantaccio come egli straluna gli occhi per la curiositá di saperne l’autore! Indovinalo tu: e se non te ne basta l’animo, strabilia e trasusa quanto piú vuoi; ma sappi che l’ha composto la signora Vincenza Mombelli, la madre istessa delle due fanciulle. E se i servi cortigiani di Nerone sagramentavano essere nobilissimi i versi di quel tiranno, tu, che ti vanti cortigiano e servo d’un’altra tirannia meno austera, smetti, per Dio, gli occhiali e non mi far tanto lo schizzinoso su questo libretto.
In compenso però di alcune poche mancanze, tu troverai dei piaceri piú veri e piú durevoli. E proverai siccome ella sia proprio una consolazione il vedere che i concittadini nostri ritengono pur tuttavia una gran dose di buon senso, e che eglino accorrono sempre in folla al teatro Carcano, quasi bramosi di espiare con ciò i lunghi traviamenti, pei quali diedero non ha guari tanta materia di scandalo in altro teatro. E sta’ certo poi che il canto della signora Annetta ti sanerá appieno quella piaguzza da cui devi sentirti lacerare il cuore nel separarti per alcun tempo da codesta tua innamorata. Poveretta! salutala per nome mio, ma non le dire che, se tu vieni a Milano, io tremo davvero per certo presagio a lei poco felice. Sta’ sano intanto ed amami.
Il tuo N. N.