Lettera sui fatti di Milano del 1898
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Milano, 3 giugno 1898
Carissimo Professore.
Mi dicono che Le sta a cuore di conoscere la verità vera circa i tumulti di Milano e so che il mio amico Ernesto De Angeli Le ha scritto a lungo sull'argomento, e che la sua lettera Le fu gradita. Perciò prendo a portarLe anch'io il mio contributo, che potrà forse essere ugualmente gradito, se non altro per la sua originalità.
Io mi trovo in questi giorni oggetto d'avversione cosi degli scalmanati radicali come degli scalmanati moderati. Mentre il giornale del Colajanni chiama il Corriere della Sera l'organo ufficiale della reazione, i moderati mi trattano da traditore, e pochi giorni dopo i tumulti mancò poco che non fossi cacciato via a furia dal principale club di Milano. La mia testimonianza Le potrà anche riuscire accetta, perché, sebbene fino al 1° giugno io sia stato a capo del Corriere, quello che Le dirò non vi si trova, né si trova in alcun giornale d'Italia.
I moti di Milano furono cosa molto meno spettacolosa di quello che s'è creduto qui e fuori. Li ha ingranditi la paura generale, li ha ingranditi non soltanto nella immaginazione, ma nella realtà. Hanno avuto paura gli operai, che abbandonarono alcuni stabilimenti alle prime intimazioni dei malintenzionati; ebbero paura gli industriali che chiusero gli stabilimenti - ed erano la maggioranza - ove gli operai avevano continuato a lavorare; ebbe paura la borghesia, che s'immaginò che il gran giorno della liquidazione fosse giunto; ebbero paura le autorità che non fidavano nella resistenza dell'esercito. La paura gettò sulla strada tutti gli operai di Milano, la paura fece ammazzare un centinaio di persone, e ferirne più o meno gravemente parecchie centinaja; la paura ha fatto credere in tutta Italia che la nostra città fosse a due dita da una catastrofe; la paura ha fatto sì che siamo fuor della legge, e che sia stata sospesa ogni libertà, ogni guarentigia costituzionale.
Per entrare nei particolari, comincerò dall'analizzare i vari fattori della rivolta. Il partito repubblicano è forte: in questi ultimi anni ha guadagnato terreno da una parte, ne ha perduto da un'altra. È forte, a causa principalmente delle molte relazioni della popolazione milanese con due repubbliche: la Svizzera e l'Argentina. La facilità del vivere nella Svizzera, la maggiore agiatezza, la libertà assoluta che vi si gode, la leggerezza delle imposte sono in troppo evidente contrasto con quanto si vede in Italia, perché le persone che non possono andare a fondo delle cose non ne restino impressionate. Il partito repubblicano fu indebolito di molto dallo sviluppo delle idee socialistiche, che hanno screditato la repubblica non meno della monarchia e volto le menti degli operai ad alte mete; ma fu ringagliardito dagli scandali bancari, dall'assoluzione di grossi colpevoli, dagli (scandali) [cancellato nel ms.] porcherie del Crispi, dalla piaga del parlamentarismo. Il milanese e il lombardo in genere è in Italia il popolo che più facilmente s'accende per le questioni di moralità nella vita pubblica; anzi in questa materia è propenso a malignazioni e sospetti eccessivi. Ogni lira che si spende dallo Stato inutilmente, è da ogni milanese considerata come toltagli di tasca: non c'è altro popolo che abbia più vivo il concetto del rapporto che passa fra le spese dello Stato e la fonte dell'entrate. Cavallotti, che era milanese e che conosceva i suoi concittadini, insistè in tutta la sua vita sulla «questione morale», usandone ed abusandone, a danno di furfanti ed anche di galantuomini. Si ricordi che l'agitazione della Regia, che turbò tanto l'Italia del 1868 fu di fabbricazione milanese.
I socialisti hanno fatto molta strada da una mezza dozzina d'anni. Il Pirelli, non più di tre anni fa, a me che mi lagnavo dei progressi del socialismo fra' miei operai, diceva con la soddisfazione di chi essendo sotto l'ombrello, vede piovere sugli altri, che gl'operai suoi erano refrattari al socialismo, perché contadini, ragazze, tutti rozzi e ignorantissimi. Fatto sta che ora è il più minacciato ed i suoi operai hanno dato il maggior contingente ai rivoltosi, mentre i miei operai, istruiti e disciplinati, sono stati tutti al loro posto. Il motivo è questo, che gli operai che hanno una certa cultura - salvo gli scalmanati che tutti i partiti hanno - capiscono che il socialismo non è maturo per una rivoluzione. Il loro programma è che bisogna organizzarsi, disciplinarsi, istruirsi, ed intanto contentarsi di piccole vittorie contro gli industriali, ottenendo miglioramenti di salari, diminuzione di ore di lavoro, definizione precisa dei loro diritti, tutela dei compagni nelle contestazioni coi principali, ecc. Avendo ottenuto notevoli vantaggi su questo terreno, forti della coscienza che la forza del numero è per loro, non hanno idee rivoluzionarie almeno immediate.
Le masse degli operai ignoranti ed analfabete sono state guadagnate anch'esse al socialismo; ma a costoro non si è detto altro - né altro erano capaci di capire - se non che i padroni sono i loro oppressori, che tutto ciò che i padroni possiedono è tolto agli operai, e che il giorno della spartizione è prossimo. Nello stabilimento Pirelli sono 1400 operaie, in gran parte ragazze di campagna, che vivono in città abbandonate a sé stesse, e che s'infiammavano la sera nei loro ritrovi con ogni sorta di fantasticherie comunistiche, e si preparavano alla gran giornata, imparando la strategia: andare pacificamente davanti ai combattenti, non mostrare paura dei fucili né della cavalleria, sedere sui binari delle ferrovie per non lasciar partire i treni, ecc.
C'è finalmente il contingente anarchico - che non credo molto grosso in Milano - ed il contingente della teppa, ossia i pregiudicati, i delinquenti nati, i giovanotti prepotenti sempre pronti a menar le mani ed a distruggere.
Repubblicani, socialisti, anarchici, tutta gente pronta a gridare ed a tumultuare. «Spargete il malcontento» : questa fu la parola d'ordine data dai capi socialisti al gran meeting di 15 mila persone tenuto all'Arena nel marzo scorso il giorno della commemorazione dello Statuto, meeting al quale assistei dal principio alla fine con molta mia istruzione. Ma che i socialisti volessero la rivoluzione ora, e che la cosa fosse stata preparata sia da loro, sia dai repubblicani è un sogno della paura.
I tumulti cominciarono allo stabilimento Pirelli, ossia appunto fra quegli operai più ignoranti e più guasti, di cui ho parlato. Furono provocati dalle notizie dei tumulti già avvenuti in altre città, e vi contribuì il richiamo de' soldati. I richiami di classi avvennero già al tempo de' disordini di Sicilia, poi della guerra d'Africa, e sempre suscitarono fermento e qualche volta disordini abbastanza gravi, perché la legge è veramente barbara, e prova l'indifferenza crudele della classe borghese circa i bisogni del popolo. Da un giorno all'altro, senza preavviso, si porta via dalla famiglia il suo capo, l'uomo che le dà da mangiare e la si lascia nella miseria spesso assoluta. Ho un giovane servitore che mantiene il padre e la madre vecchi ed infermi, fu richiamato al tempo di Crispi, e conoscendo le sue condizioni, gli dissi che penserei ai suoi genitori: ma gli industriali non ci sentono da quest'orecchio, e si figuri che impressione produce il richiamo di una classe in una città che ha centinaja di migliaia d'operai, che guadagnano abbastanza per mantenere una famiglia, e che perciò hanno moglie e figli, o padri e madri vecchi, o fratelli e sorelle piccoli.
Fatto sta che la mattina di sabato, 7, gli esaltati scesero per le strade per fare la rivoluzione, seguiti dalle ragazze e dai ragazzi, e quegli eran persuasi che il gran giorno della spartizione fosse venuto. Ma la grande maggioranza degli operai, socialisti o non socialisti, quelli che hanno l'età del giudizio, non era punto in queste idee, ed anzi tranquillamente al lavoro.
Dirimpetto alla casa mia c'è una casa in costruzione dove lavorano circa cinquanta operai. Il sabato mattina andarono quattro o cinque individui a gridare loro dalla strada di sospendere il lavoro. I muratori rispondevano dall'alto delle impalcature: «Andèe via, lazzaroni». Ma sopraggiunse l'ingegnere e dichiarò sospesi i lavori. Altrettanto avvenne in tutti gli stabilimenti industriali: in parecchi non ci fu nemmeno l'eccitazione dello sciopero. Furono i «principali» che spontaneamente cacciarono gli operai sulla strada, dopo aver loro pagato la settimana (era sabato). Nelle tipografie che stampano giornali quotidiani, e dove i principali erano perciò interessati a continuare il lavoro, nessun operajo scioperò. E sì che gli operai tipografi sono un nucleo socialista organizzatissimo.
Non voglio condannare tutti i principali. Chiusero gli stabilimenti nella credenza che le forze rivoluzionarie fossero grosse, che quelle del governo non fossero sufficienti a reprimere i disordini, che i rivoltosi avessero idee di distruzione. Ad ogni modo errarono, ed il loro errore ebbe gravissimi effetti.
Accenno il principio de' tumulti. In via Palestro camminava qualche centinajo di operaie con marcata lentezza, cantando l'inno de' lavoratori. Dietro veniva un drappello di cavalleria, con le teste dei cavalli quasi sulle spalle delle ultime file delle cantatrici impavide. Dietro un centinajo d'operai.
Giunto questo strano corteo su corso Venezia che è molto più largo, le file delle donne si allargarono, la cavalleria riuscì a passare in mezzo e di gran trotto corse verso la porta Venezia e sparì. Allora alcuni uomini pensarono di fermare due trams e di metterli a traverso la strada per impedire alla cavalleria di tornare indietro. Fu così cominciata la barricata; ma non bastano i tram a chiudere la strada, uomini e donne entrarono nella portineria di casa Saporiti; vi presero dei mobili e li portarono sulla strada. Nel parapiglia furono fracassati vetri, e fu portato via qualche oggetto. Ma l'appartamento del marchese non fu toccato. Intanto veniva truppa di fanteria dai Giardini Pubblici; parecchi rivoltosi salirono sul tetto di casa Saporiti, gettarono sassi, furono rincorsi dai carabinieri, fu ucciso un ragazzo nei giardini pubblici, qualcuno fu ferito o ucciso sulla casa Saporiti. E così tutto finì.
Dopo questo tafferuglio, che fu il fatto più grave della rivolta, ci furono sassate e getto di tegole in via Torino, e conseguente fuoco fatto da' soldati, poi barricate in corso Garibaldi ed in qualche altro punto. Tutte però barricate rettoriche, reminiscenze della commemorazione delle Cinque Giornate fatta nel marzo. Si cominciava a fare la barricata, ma all'apparire della truppa la si abbandonava. La truppa la squarciava ed appena s'era allontanata la si rifaceva, ed il gioco ricominciava. A che potevano servire le barricate, giacché non c'erano armi da fuoco per difenderle?
In questa giornata s'ebbe l'unico morto dei soldati, ucciso, dicono, da un comignolo lanciato in via Torino. Fu quella una giornata stranissima. Quasi dappertutto i soldati assistevano ai disordini con l'arme al piede. Le barricate si facevano a venti metri, ed ai cittadini che protestavano per la loro immobilità, gli ufficiali rispondevano che non avevano ordini. Soldati ed ufficiali subirono con pazienza degna di san Francesco i più umilianti oltraggi. Sembra avessero ordine di adoperare le armi soltanto se attaccati. Difatti fecero fuoco soltanto quando, in qualche punto, cominciò la sassajuola.
Intanto, per le strade, moltissimi curiosi. La rivoluzione era considerata come uno spettacolo divertente. Perciò laddove si fece fuoco caddero parecchi innocenti. I curiosi discorrevano co' rivoltosi; discorrevano co' soldati, davano consigli, motteggiavano, chiedevano schiarimenti a' costruttori delle barricate. La grande maggioranza dei rivoltosi, donne e ragazzi.
Con la giornata di sabato, l'insurrezione deve considerarsi come terminata. Nel Corriere di domenica, avvertii come il movimento non dava segno di organizzazione né di direzione. Non c'erano armi da fuoco, non bombe, non disegno tattico, non capi. Non erano stati tagliati i fili del telegrafo, né quelli del telefono, né quelli della luce elettrica, non tagliate le ferrovie. Al tiro a segno c'erano 450 fucili che non furono toccati.
Tuttavia, domenica mattina furono sparate due cannonate, una a polvere e subito dopo una a palla a Porta Ticinese. Testimoni oculari mi assicurano che non ci fu ragione di spararle, e furono cagionate dall'idea che dalla porta stessero per entrare gli studenti, i leggendari studenti di Pavia. Fatto è che morirono parecchi sulla porta delle loro case. Alle due, il Bava telegrafò al Re che l'ordine era ristabilito: ma a Milano nulla si seppe di questo telegramma.
Alle undici di sera io mi trovava al giornale, dove stetti in tutti que' giorni dalle prime ore del mattino a mezzanotte, traversando poi la città quasi da un capo all'altro, a piedi, seguito da un servitore. Le notizie erano cattive dai dintorni. Si parlava di bande rivoluzionarie venute da' paesi circostanti. Si parlava più che mai dei famosi studenti. Dalla Maddalena (stabilimento De Angeli) telefonavano ch'erano circondati da fucilate da tutte le parti. Con l'orecchio al telefono intercettai, senza volerlo, un messaggio del comandante di Porta Magenta al generale Bava che diceva: «Siamo riusciti a fermare una pattuglia che fuggiva disarmata. Il combattimento continua». Poco dopo una voce affannata dal comando generale mi telefonava: Fate sospendere la pubblicazione del bando che invita gli industriali ad aprire domani gli stabilimenti. Più tardi ancora, un redattore mi tornò dal comando e mi dice: «Il generale le fa sapere che la situazione è gravissima. In corso Garibaldi una fucilata da una finestra ha ucciso un ufficiale. Il generale vi prega d'incaricarvi di avvertire i principali stabilimenti industriali di restar chiusi domani». Com'Ella può immaginare queste parole m'inquietarono di molto. Chiamai allora il principale redattore e gli dissi: «Fate sopprimere tutte le notizie allarmanti che abbiamo. Mettiamo invece che l'insurrezione è vinta dappertutto. Non voglio che domani mattina il Corriere da Milano porti alle provincie notizie che incoraggino la Rivoluzione».
E me ne andai a dormire, o piuttosto mi posi a letto, ma non potei chiudere occhio, tanto più che alle 4 del mattino cominciai ad udire un gran galoppare di cavalleria nel Parco, sul quale danno le mie finestre e credetti che fossimo per essere invasi. Mi alzai subito. Verso le 8 vedendo i dintorni tranquilli, me ne andai al giornale. Per via incontrai il deputato Campi, che mi disse d'esser andato alla Maddalena a prendere notizie del De Angeli. - E hai potuto arrivare fino a lui? - Sicuro, tutto è tranquillo in quel sobborgo. Rimasi stupito.
Dal giornale mandai redattori a prendere più precise informazioni su' fatti della Maddalena e sul capitano ucciso a Porta Garibaldi. Alla Maddalena c'era stato un falso allarme ed erano state tirate fucilate in gran numero nella notte; al corso Garibaldi era corsa voce (falsa) che un capitano fosse stato ucciso da una fucilata sparata da una casa. I soldati v'accorsero e crivellarono la casa di proiettili, ammazzando due donne ch'erano a letto.
Dopo mezzogiorno cominciammo ad udire un terribile fuoco di fucileria, poi due cannonate verso via Monforte. Verso le 5 il combattimento cessò. Si seppe ch'era stato cannoneggiato un convento di frati. I reporters che erano sul luogo tornarono e riferirono che il convento era stato occupato dopo le cannonate, che lì si erano trovati 28 frati ed ima quarantina di mendicanti, che legati traversarono la città, fortemente scortati dai soldati, e che lo spettacolo era miserevole, giacché c'erano vecchi cadenti che si trascinavano a stento, e una diecina di ragazzi piccoli.
Io stavo in quel punto ripassando nella mente i fatti avvenuti. Dopo quel racconto sentii il bisogno di sfogarmi, ed andai direttamente dal Sindaco, a cui non avevo parlato da un anno forse. Lo trovai con gli assessori al palazzo Marino, e le mie prime parole furono queste: — S'Ella non interviene finiremo per coprirci di ridicolo e di vergogna.
Ma prima di riferirLe il mio discorso al Sindaco, è bene esporre con qualche precisione quello che era avvenuto a Piazza Monforte, come i fatti mi risultano dalle informazioni successive.
Poco dopo mezzodì corse voce fra la truppa che occupava piazza Monforte che dal convento erano partite fucilate. La voce è stata chiarita falsa. Allora sul piazzale fu posto un cannone, che aprì una breccia nel muro del convento e uccise due dei 40 mendicanti che a quell'ora erano nel convento per la distribuzione della minestra. Aperta la breccia, essendo il convento più muto che mai, i soldati vi entrarono ed un frate che medicava un ferito ebbe un colpo di bajonetta nella spalla.
Intanto sul bastione era stata posta della truppa, a cui fu ordinato di sparare di qua e di là dal bastione. In fondo al viale Concordia ci sono le cascine Acquabella ad un chilometro e mezzo: i contadini, udendo sparare, correvano alle loro case e cadevano sotto i colpi che partivano dal bastione. D'altra parte i cittadini che rincasavano in via Vivajo erano fucilati. E non basta: la truppa era stata posta molto al di là di via Vivajo, ne' Giardini Pubblici, con ordine di sparare. Due impiegati del Monte di Pietà, che rincasavano, traversando i Giardini Pubblici, furono uccisi; ad un mio redattore, che faceva altrettanto, fu sparata una fucilata, ma per fortuna non lo colpì. Insomma una quarantina di persone innocenti furono così uccise nella città tranquillissima. Una portinaja riassumeva così la situazione: «Sabato fu la rivoluzione del popolo, oggi è la rivoluzione della truppa». Fu una sparatoria incredibile: un colonnello a riposo, che abita presso porta Monforte, mi diceva che furono sparati circa 10 mila colpi. Uno della Croce Rossa, che andò a lagnarsi che gli avevano sparato contro, ebbe questa risposta da un ufficiale: Sono coscritti, è impossibile frenarli.
Tornando alla mia visita al Sindaco, gli dissi che la città era tranquilla e ch'era indispensabile egli agisse presso le autorità militari per far cessare un macello che ormai non faceva che vittime innocenti. E tentai persuaderlo che la rivoluzione era stata esagerata.
— Quanti soldati sono caduti?, dissi. C'è stato un morto solo, un ufficiale ferito, pare, di coltello e poco più di mezza dozzina di soldati feriti da sassi. Dall'altra parte, si hanno 500 persone tra morti e feriti. I rivoltosi non avevano altre armi che sassi, e tegole da cui l'esercito si è difeso con molta facilità, occupando una casa a destra e una a sinistra, e mandando qualche soldato a far fuoco dai tetti. Difatti le tegole hanno ucciso quell'unico soldato e ferito nessuno. È stato un movimento di poca canaglia, e di donne e ragazzi, che furono facilmente dispersi.
Non c'è stato un incendio, né devastazione, salvo qualche tram tolto dalle rotaje per far le barricate, né saccheggio, tranne quella piccola cosa di casa Saporiti. Non c'è stata violenza fatta ad alcuno. E sì che sabato, domenica e lunedì i sobborghi sono stati in mano agli insorti, o meglio sarebbero stati nelle loro mani, se ci fossero stati insorti.
Queste ed altre cose dissi al Sindaco Vigoni, e mi accorsi che erano poco gradite. Nei giorni successivi, non potendo dire nel giornale quel che pensavo, lo dissi ad altri pezzi grossi, senz'altro risultato, pare, che di passare per uomo che vuol tenere i piedi in due staffe e per un falso conservatore, un infido, un giornalista che mira soltanto alle palanche, ecc. Non potei parlare nel Corriere come piaceva a me, anche perché capivo che non era quello il momento d'indebolire l'autorità; ma non volli neanche parlare come piaceva agli altri. Perciò quando mi furono comunicati i telegrammi di felicitazioni del Re (aimé!) e di Rudini al Bava, il secondo dei quali lo lodava pel rigore dimostrato, rifiutai di stamparli, e rifiutai l'indirizzo dei cittadini al Bava, che lo esortava a perseverare nel rigore. E rifiutai di aprire la sottoscrizione a favore dei soldati morti e feriti (un morto, sei o otto feriti). Pur troppo della truppa non si può esser soddisfatti, per quanto riguarda i capi: mancarono i viveri tanto che il Bava dovette domandare il sussidio dei cittadini per nutrire i soldati, e lo spreco delle munizioni fu spaventoso. Il colonnello di cui ho parlato di sopra notava altri difetti del servizio: insufficienza del servizio di informazioni, d'avanscoperta, aspetto cencioso delle truppe, ecc.; ma in queste materie non sono competente. Certo è che soldati e capi mancarono affatto di sangue freddo.
I giornali di Milano e fuori furono pieni di fandonie e d'esagerazioni; quello che Le ho detto è il vero. La borghesia è stata feroce nel giubilo per la vittoria ottenuta, com'è ora feroce la reazione. Si sono gettate duemila persone in carcere, ammucchiandole nei cameroni del Castello, ove non c'era spazio sufficiente perché potessero stendersi a terra la notte, e dando loro una pagnottina di pane al giorno.
Si sono soppressi una dozzina di giornali, si sono sciolte e si sciolgono tutte le associazioni di mutuo soccorso, ed in genere tutte le associazioni operaie di qualunque genere.
Ora si fanno i processi militari e, come io prevedevo, non viene fuori nulla di serio, nulla che significhi rivoluzione a mano armata. L'avvocato fiscale dice al Tribunale: «Vi prego d'aggravare la mano su quegli imputati che sono conosciuti come socialisti», e sei mesi fa Codronchi nominava professore a Pavia il Ciccotti, furioso socialista rivoluzionario.
Lo stesso avvocato fiscale additava al Tribunale come un indizio grave a carico di un imputato essere egli ascritto alla Camera del Lavoro: l'operaio rispose:
— È vero, ma la Camera del Lavoro era il nostro ufficio di collocamento. Senza ricorrere a lei non potevo trovar lavoro: ho cinque figli.
Per ordine dell'Ispettore di P.S. incaricato della censura preventiva dei rendiconti, questa risposta fu fatta cancellare da tutti i rendiconti.
Eppure quell'operaio aveva ragione. Io, capo d'una tipografia, se avevo bisogno d'un operaio, m'indirizzavo alla Camera del Lavoro, ch'era bensì diretta dai socialisti, ma che era un ufficio di collocamento, sussidiato dal municipio moderato con 12 mila lire l'anno.
Siamo dunque in pieno colpo di Stato fatto a beneficio della borghesia contro il popolo, ossia di una classe contro un'altra, dell'oppressore contro l'oppresso. Tutta la stampa europea c'è contraria. Ma la borghesia non vuol sentire parole che le riescano sgradite. Il Corriere è stato già brutalmente ammonito per un articolo in cui, sa Dio con quanta dolcezza di espressione, esortava i giudici d'istruzione del Tribunale militare ad essere miti e a non trascinare in giudizio persone di cui non fosse accertato il reato, giacché il pubblico dibattimento non aggiunge nessun lume a quello raccolto dall'istruttoria.
Giorni fa, feci un articolo per dire che non si può migliorare la situazione del paese se non diminuendo le spese. Apriti cielo! La stampa conservatrice d'ogni parte d'Italia mi è saltata addosso, dicendo che spingo il popolo a far le barricate.
Ciò posto, e poiché si afferma che lo stato d'assedio durerà a Milano almeno un anno, ho lasciato dal 1° giugno il Corriere, e però ho trovato tempo per scriverLe questa lunga lettera. Siamo, a parer mio, in giorni d'incomparabile bruttezza e nulla ricordo d'analogo dacché ho l'età della ragione. Vedo cose che mi ricordano i Borboni.
Scusi la lunga chiacchierata: avevo bisogno di sfogo, e mi sono sfogato con Lei, che certamente ha conservato la testa fredda.
Suo aff.mo Torelli Viollier