Lettera di Raffaello d'Urbino a papa Leone X (ed. Visconti)/Note
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NOTE
(1) Raffaello aveva cominciato dallo studiare prima ben bene Vitruvio: ma nella lettera al Castiglione dice che cercava di più: „Vorrei trovar le belle forme degli edifici antichi . . . . me ne porge una gran luce Vitruvio, ma non tanto che basti. Quindi è che al riferire del Calcagnini, Raffaello faceva degli ammirabili ragionamenti critici sopra cotesto classico, ovvero unico autore: Vitruvium . . . . ille non enarrat solum sed certissimis rationibus aut defendit aut accusat, tam lepide, ut omnis livor absit ab accusatione. Tuttavia nella presente lettera senza alcuna riserva intorno ad un articolo essenzialissimo è detto: Non è necessario parlare dell'architettura romana . . . per descrivere l’ordine suo, essendone stato già tanto eccellentemente scritto per Vitruvio. Di questi però anche il sagacissimo illustratore veronese fra Giocondo era un fonte di cognizioni per Raffaello, secondo che questi ne scriveva al suo zio in quella lettera (pochissimo conosciuta) ch’è riportata, parte in compendio e parte ne’ suoi proprii termini, dal Sig. Richardson (Traité de la peinture tom. III). Nota di Daniele Francesconi.
La lettera data in sunto ed in parte dal Richardson, è ora conosciuta per intiero, e nel testo originale, mercè delle cure del ch. Pungileoni, tanto benemerito della storia pittorica italiana, e in ispecial modo di quella della famiglia de’ Santi. La ho poi io stesso unita alle mie notizie annedote sopra citate a c. 122. Piacerà di ascoltare quello che vi si legge intorno a frate Giocondo. „Mi ha dato un compagno frate dottissimo, e vecchio di più d'ottanta anni. Il papa crede che’l può vivere poco: ha risoluto sua santità darmelo per compagno, ch'è uomo di gran riputazione, sapientissimo, acciò io diventi perfettissimo in questa arte: ha nome fra Giocondo; e ogni dì il papa ci manda a chiamare, e ragiona un pezzo con noi di questa fabbrica (di s. Pietro).
(2) Questa triste verità è provata dai lamenti de’ più generosi contemporanei; e dal numero non picciolo di monumenti scomparsi per demolizione. Ne ho toccato alcuna cosa nel discorso preliminare al Carme della via appia. Roma Boulzaler 1832 8. a c. 9. Vedi poggio Bracciolini, detto Fiorentino, De varietate fortunæ lib. IV. Lutet. Paris. 1723. 4. Petrarca Carm. lat. lib. II. ep. XII. p. 98. ed. Basil. 1581; e il ch. Fea, Dissertazione sulle rovine di Roma nel volume III. della storia delle arti di Winchelmann, edizione romana.
(3) Era questa meta una grande piramide, simigliante a quella di C. Cestio presso la porta ostiense, ma anche maggiore di essa. Il Pontefice Donno I la spogliò de’ suoi marmi, per adoperarli in lastricare l’atrio di s. Pietro. Sorgeva presso alla chiesa di s. Maria Traspontina. Il Biondo, il Fulvio, il Marliano, che ne fecero ricordo, riconoscevano in questo grandioso monumento il sepolcro di Scipione Affricano il minore, nominato da Acrone scoliaste di Orazio all’ode IX nell’epodo, appunto di forma piramidale e nel campo vaticano. Alessandro VI lo fece demolire, eguagliandolo al suolo: sia per drizzar la strada, sia per levar via un riparo, dietro al quale poteva una buona frotta di gente starsene appiattata, al coperto di ogni attacco del castello s. Angelo, che esso Pontefice avea posto in ordine e ampliato, Raffaello, da quel gentile e sapiente ch’egli era, parla con amarezza di questa demolizione; e gliene cresceva forse il rammarico, l'averne continua sott’occhi la miserabile memoria, dimorando egli in quella via stessa, non molto di lungi al luogo che già si nobilitava da tanto illustre e cospicuo antico monumento.
(4) L’arco male avventurato, del quale fa quì ricordo l’urbinate, debbe esser quello disfatto dal Riario per impiegarne il materiale nell’edifizio del palazzo, ch’è oggi della cancelleria apostolica. E questo io affermo per essere naturale il credere che di un avvenimento de’ suoi tempi egli mova querela; non già che quell’arco si fosse il solo male avventurato. Uno ne fu innanzi a santa Maria in via lata, gittato a terra da Innocenzo VIII, nel rinnovare che fece quella chiesa: e ne lasciarono memoria il Fulvio ed il Bartolomeo Marliano. Un altro, dedicato agli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio, era in Banchi, fra il luogo dove fu la zecca e la chiesa di s. Celso, e oggi più non se ne vede vestigio.
(5) Questo M. Bartolommeo era il nipote di papa Giulio II, al quale sì il Castiglione e sì Raffaello erano stati sommamente addetti. Ma le ruine fatte da quel personaggio doveano quì essere accennate, forse ancor lui vivente, per l'amore della verità e dell'antichità, e per dar gusto al papa presente. Nota di Daniele Francesconi.
(6) Bella confessione è questa di Raffaele, del sommo vantaggio che la concordia, la pace, e il laudabil’ozio arrecano alle arti, e si dica pure alle lettere, e a tutte quelle egregie opere dell’umano ingegno, che si educano e crescono all’ombra de’ felici ulivi.
(7) L’ab. Francesconi, annotando questo luogo, giudica, che il restaurare di tal modo gli antichi edifizii sia fatica e spesa superflua (op. cit. a c. 107, nota (5)). Ma a noi sembra appunto il contrario: nè ci pare di vedere cosa tanto utile o dilettevole, quanto il mirare così restituire ad una immagine della prima integrità loro le insigni antiche costruzioni. Massimamente quando ciò si eseguisca, come qui Raffaello dice, «facendo quelli membri che sono ruinati, nè si veggono punto, corrispondenti a quelli che restano in piedi, e si veggono. Non molti anni dopo attendeva in Roma a compiere il pensiero di Leone X, nel modo stesso enunciato da Raffaello una eletta d’ingegni riunita sotto il nome di Accademia della Virtù. Monsignor Claudio Tolommei ci fa conoscere nelle sue lettere i lavori di questi dotti, che però mai non furono compiti nè pubblicati.
(8) Questo autore seguitato da Raffaello sembra essere stato Andrea Fulvio, che aveva già mandato in luce la sua opera delle antichità di Roma.
(9) Qui Raffaello assai bene distingue la diversità degli edificii, che sono riuniti nell’insieme, nelle grandi rovine, che volgarmente si dicono terme di Tito. Apertissimi in fatti si veggono in tal luogo i molti avanzi della casa aurea di Nerone, inchiusi in costruzioni posteriori: le quali però io stimo non ad opera di Tito, nè alle terme di questo imperatore appartenere; ma essere fatte da Traiano, che la parte della casa aurea esistente a piè dell’Esquilino condannò a servire di base alle sue terme edificate sul pendio di quel monte.
(10) Questa riflessione dell’esimio dipintore mostra quanto egli vedesse profondamente nelle arti, e come rettamente ne giudicasse. Gran carico hanno i mediocri architetti, avendo sì facile scienza, o almeno sì certa, a governarla di così mal modo, come pur troppo veggiamo farsi tutto giorno.
(11) Una di quelle assurde cantafavole, poste fuori a principio Dio sà come, e che si ripetono quindi, e passano di bocca in bocca e di libro in libro, narra che Raffaello, dopo aver ricopiato dagli avanzi delle terme di Tito (la casa aurea di Nerone) i modi delle pitture di genere compendiario, che adoperò così bene nelle loggie del vaticano, fece chiudere ogni adito a penetrarvi, acciò niuno si avvedesse del suo plagio. Questo passo della sua lettera è la più bella risposta che far si possa al racconto, così poco simigliante al nobile e leale carattere dell’illustre dipintore. Favella ei quì delle reliquie stesse di quelle dipinture antiche, e attestando di averle vedute, viene a dir similmente, che ne avea fatto suo profitto da quel valent’uomo ch’egli era.
(12) Le antiche rovine offrono molti e lamentevoli esempi di questo fatto. I muri si trovano scrostati a tanta altezza nelle terme di Caracalla, in quelle di Traiano, di Diocleziano, di Costantino; nel palazzo imperiale, negli acquedotti neroniani dell’acqua Claudia in sul monte Celio, ed altrove, che apertamente si scorge essersi adoperate scale, per portare tant’altro così nefanda devastazione. Opera era questa di barbarie e di miseria. Ma quanto più orrende cose non abbiam noi veduto eseguirsi a questi ultimi tempi! Non mura scrostate, ma distrutte: non monumenti guasti, ma troncati. Cadere, non so se per malvagità od ignoranza, esimie parti di antiche fabriche, intatte alle mani degli sciagurati e dei barbari: horresco referens!
(13) La torre della milizia è quella inchiusa oggi nell’orto del monastero di Santa Caterina da Siena, che il volgo chiama torre di Nerone, e narra aver’egli dall’altezza di essa mirato l’incendio della città, acceso per proprio suo ordine.
(14) La bussola, istromento allora di recente invenzione, e quì minutamente descritta da Raffaello. Errò certamente il Giovio, che nell’elogio dell’urbinate, fatto pubblico dal Tiraboschi, ad esso Raffaello ne attribuì l’invenzione. Forse è più simile al vero, ch’egli per il primo l’adoperasse, onde ottenere le esatte misure degli edifizi; e questa opinione troverebbe per avventura un sostegno in quanto ne scrive egli stesso nella presente lettera.