Lettera a Gaetano Trezza
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Grazie del tuo Lucrezio, il più baldo forse e il più florido dei figli della tua mente; e grazie dell'onore che mi fai servendoti della mia traduzione. (L'editore per isbaglio ha mandato a me l'esemplare dedicato al Rovetta al quale probabilmente hai inviato il mio).
Giuste e sante le staffilate che dai alla filologaglia impertinente e pettegola, e nobile l'orgoglio d'aver tu per il primo rinnovato in Italia il culto a Lucrezio e sollevate le menti dei giovani dalle quisquiglie scolastiche alla considerazione dei grandi problemi dell'essere, accendendole ed inebriandole nella contemplazione del vero e nell'entusiasmo del bello. Oh, come devono scoppiare di rabbia
Le insigni talpe in maschera di linci
Che, mutate le chiaviche in bigonce,
E al prossimo scocciando il quindi e il quinci,
Hanno l'opere tue sventrate e conce!
Io, se devo parlarti di me, vivo come in un metacosmo. La coscienza di questo gioco infinito del gran tutto ha immerso in una malinconica sonnolenza tutte le mie facoltà, le immagini delle cose mi sfumano, dinanzi all'anima come ombre in uno specchio, e se tendo qualche volta le braccia per afferrarne qualcuna, io rido poi di me stesso...
La gran notte s'avvicina, mio caro Trezza; io la sento e l'aspetto senza dolore nè sdegno.