Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550)/Donato

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Filippo Brunelleschi Michelozzo Michelozzi

DONATO

Scultore Fiorentino

Gli scultori che noi abbiamo chiamati vecchi, ma non antichi, sbigottiti dalle molte difficultà della arte, conducevano le figure loro sí mal composte di artifizio e di bellezza, che o di metallo o di marmo che elle si fussino, altro non erano però che tonde; sí come avevano essi ancora tondi gli spiriti e gli ingegni stupidi e grossi. E nasceva tutto da questo che, ritraendosi, esprimevano se medesimi e se medesimi assomigliavano. E cosí le povere cose loro erano in tutto prive de la perfezzione del disegno e della vivezza, essendo veramente al tutto impossibile che chi non ha una cosa la possa dare. Per la qual cosa, la natura giustamente sdegnata, per vedersi quasi beffare da le strane figure che costoro lasciavano al mondo, deliberò far nascere chi, operando, riducesse ad ottima forma, con buona grazia e proporzione, i male arrivati bronzi et i poveri marmi da lei come da madre benigna, et amati e tenuti cari, sí come cose da•llei prodotte con lunga diligenzia e cura grandissima. Laonde, per meglio adempiere la volontà e la deliberazione sua, colmò Donato nel nascere di maravigliose doti; et in persona quasi di se medesima lo mandò qua giú tra’ mortali, pieno di benignità, di giudizio e di amore. Per il che, degnando egli ciascuno che operasse, o con diletto fare altrui operare si ingegnasse, lasciò sempre godere de le sue fatiche non solamente gli amici suoi, ma e chi non lo conosceva ancora. Né regnò tirannia alcuna nella virtú che gli diede il cielo, riserrandosi a lavorare per le buche, acciò che i modi della bella maniera sua non gli fussino veduti operare; anzi lavorò egli sempre le cose sue apertissimamente, sí che ognuno le poté vedere. Fu sí grato, sí piacevole e tanto onesto in ciascuna sua azzione, che se il secol d’oggi lo pregia e venera cosí morto, molto maggiormente lo adorerebbe se e’ fusse vivo. Atteso che, dove i moderni artefici sono oggi, per lo piú tutti pieni di invidia e di superbia, mescolata con una vana ambizione insolente, Donato era benigno, cortese, umile e senza alcuna riputazione; dove questi nuocono al prossimo, si sforzava egli giovargli sempre, lodando modestamente e con giudizioso respetto le cose de’ suoi artefici. Felicissimi giorni e beati secoli che vi godeste tanta virtú e tanta bontà quando gli artefici buoni erano padri, amici, maestri e compagni a chi voleva imparare! Dicevano, ciò è mostravano gli errori a chi operava, ma dolcemente, e quando si poteva ancora ripararvi: ma non vi essendo riparo alcuno, non publicavano l’altrui vergogne. Usavano insieme da fratelli, con caritativa amorevolezza, e sempre nelle occorrenze loro si giovavano l’uno all’altro. Onde piacque al cielo, in questo secolo pieno di bontà, mandar Donato a operare in terra, acciò, trovando gli artefici buoni, trovasse ancora gli uomini volenterosi di farlo operare. Nacque Donato l’anno MXXXLXXXIII nella città di Fiorenza, e da’ suoi cittadini e da gli artefici suoi, Donatello per lo piú fu chiamato, et in molte opere ancora si sottoscrisse cosí. Fu scultor raro e statuario maraviglioso, pratico ne gli stucchi e valente, e nella prospettiva e nella architettura similmente molto stimato. Ma nelle cose sue, di grazia, di bontà e di disegno e di pratica divenne tale, che osservando le vestigia dell’antica maniera de gli eccellenti Greci e de’ Romani, tanto simile in essa apparí, che senza dubbio si ammira per uno de’ maggiori ingegni che piú si accostasse alle vere difficultà, di coloro che perfettamente l’hanno mostrate, sí come appare in tutte lo opere sue. Onde veramente se gli dà grado del primo, che mettesse in buono uso la invenzione delle storie, ne’ bassi rilievi, i quali da lui furono talmente operati, che alla considerazione perfetta di facilità e di magisterio mostrò sapergli con intelligenzia e con bellezza piú che ordinaria. Perché operando, nonché alcuno artefice allora lo vincesse, ma nell’età nostra ancora non è chi lo abbia paragonato. Fu allevato da fanciullezza in casa Ruberto Martelli, e per le buone qualità e per lo studio dalla virtú sua, non solo meritò d’essere amato da lui, ma ancora da tutto il parentado suo e da essi favorito. Lavorò nella gioventú sua molte cose delle quali, per le molte che ne fece, non si tenne molto gran conto. Ma quello che gran nome gli diede e che conoscer lo fece, fu una Nunziata di pietra di macigno, che in Santa Croce di Fiorenza fu posta allo altare et alla cappella de’ Cavalcanti, nella quale opera fece uno ornamento di componimento alla grottesca, con basamento vario et attorto e finimento a quarto tondo, con sei putti che reggono alcuni festoni, i quali putti finse che per aver paura dell’altezza, tenendosi abbraciati l’un l’altro, s’assicurano. Ma molto piú ingegno et arte mostrò ancora nella figura della Vergine, la quale, impaurita dello improviso apparire dello Angelo, muove timidamente ma con dolcezza la sua persona quasi a la fuga, e da l’altra parte con bellissima grazia et onestà si rivolge a chi la saluta. Di maniera che e’ se le scorge nel viso quella umiltà e gratitudine somma, che del non aspettato dono tanto piú si debbe a chi te lo dona, quanto piú il dono è maggiore. Dimostrò oltra questo Donato ne’ panni della Madonna e dello Angelo, con lo essere bene rigirati e maestrevolmente piegati, cercare lo ignudo delle figure, come e’ cercava di discoprire la bellezza degli antichi, stata nascosa già cotanti anni. E mostrò tanta facilità e magisterio in questa opera, che non manco fa stupire nel vedervi la brevità del fare, quanto fa piú il conoscere l’artificio e la dottrina dello averla saputa fare. Nella chiesa medesima sotto il tramezzo a lato alla storia di Taddeo Gaddi, fece un Crocifisso di legno, e lavorandolo con fatiche straordinarie, parendogli di avere fatto una opera lodatissima, chiamò per il primo Filippo di Ser Brunellesco, che era domestico amico suo, che lo venisse a vedere. E di compagnia a casa inviatosi con esso, incominciò per la via Donato a mostrare le difficultà che hanno coloro i quali a fine conducono una opera degna di lode, e quanti son quegli che fuggono la via delle fatiche; e cosí in casa entrati, e visto Filippo l’opera di Donato, pensando veder meglio, si tacque et alquanto sorrise. Vedendo questo, Donato lo scongiurò per l’interesso dell’amicizia, che la opinione sua ne dicesse, perché, essendo soli, liberamente far lo poteva. Laonde Filippo, liberalissimo essendo, non gliene fu avaro, dicendogli che gli pareva ch’egli avesse messo in croce un contadino e non il corpo di Cristo, il quale fu delicatissimo di membra e d’aspetto gentile ornato. Udendosi morder Donato piú a dentro che non pensava, et avendo creduto sentirne il contrario, gli rispose: "Se cosí facil fosse a fare come a giudicare, il mio Cristo ti parrebbe Cristo e non contadino, però piglia del legno e prova a fare ancor tu". Tacque Filippo senza piú far motto a Donato, et a casa tornatosi, ordinò di fare un Cristo di legno alla misura di quello che aveva fatto Donato; e senza farlo sapere altrui, molti mesi dietro a esso consumò, cercando avanzar Donato, acciò il giudicio che dato gli aveva, perfetto et intero si rimanesse. Finito che l’ebbe, andò Filippo per Donato, e mostrando che fosse a caso, seco lo invitò a desinare come spesso erano usati di fare insieme. E nel passare per Mercato Vecchio, Filippo comperò formaggio, uova e frutte, e con queste cose inviò Donato a casa, dandogli la chiave dell’uscio; et in questo mezzo fatto sembiante fermarsi per il pane al fornaio, tanto indugiò che Donato a casa fu giunto. Il quale arrivato a casa et aperta la porta et in terreno entrato, vide il Crocifisso di Filippo, a un buon lume posto, di perfezzione e sí maravigliosamente finito, che di stupore e di terror ripieno, ne rimase vinto talmente, che la tenerezza dell’arte e la bontà di quella opera gli aperse le mani, con le quali strette teneva il grembiule pieno di quelli frutti et uova e formaggio, sí che il tutto si versò in terra e si fracassò. Sopragiuntolo Filippo et immobile trovandolo, considerò che sí come lo stupor dell’opera gli aveva aperto le mani, cosí dovesse il core e l’animo il medesimo aver fatto. Onde ridendo gli disse: "Che fai tu con mandare male e versar ciò che desinare dobbiamo?" Rispose Donato: "Io per me ho la mia parte avuto stamane, perché attendi tu a raccor la tua; imperoché conosco e veramente confesso ch’a te è conceduto fare i Cristi et a me i contadini".

Nel tempio di San Giovanni di Fiorenza fece la sepoltura di Papa Giovanni Coscia, stato disfatto dal Concilio Constanziense; la quale gli fu fatta fare da Cosimo de’ Medici, amicissimo del detto Coscia. Et in questa fece Donato di sua mano il morto di bronzo dorato e di marmo la Speranza e la Carità, e Michelozzo, creato suo, fece la Fede. Vedesi nel medesimo tempio e dirimpetto a questa opera, di mano di Donato, una Santa Maria Maddalena di legno in penitenzia, molto bella e molto ben fatta. Et in Mercato Vecchio, sopra una colonna di granito, una Dovizia di macigno forte, tutta isolata, dagli artefici lodata sommamente. Fece in gioventú sua, nella facciata di Santa Maria del Fiore, un Daniello profeta di marmo, e di marmo medesimamente una statua di braccia quattro che siede, di un San Giovan Evangelista molto lodata e con semplice vestito abbigliata. E vedesi in detto luogo sul cantone, per la faccia che rivolta per andare nella via del Cocomero, un vecchio fra due colonne, piú simile alla maniera antica ch’alcuna altra cosa che di suo si possa vedere, conoscendosi nella testa di quello i pensieri che arrecano gli anni afflitti dal tempo e dalla fatica. Fece nella chiesa di dentro l’ornamento sopra la sagrestia vecchia sopra l’organo, con le figure in bozze, le quali a guardarle di terra paiono veramente vivere e muoversi, talmente che di lui si può dire che e’ lavorasse tanto col giudicio quanto con le mani.

Nella sagrestia nuova ordinò il disegno di que’ fanciulli che tengono i festoni che girano intorno al fregio. E dicono ancora che il disegno delle figure per farsi di vetro nell’occhio sotto la cupola, dove è la Incoronazione di Nostra Donna, ha maggior forza in sé che gli altri da diversi maestri disegnati. A San Michele in Orto in detta città lavorò di marmo alla Arte de’ Beccai la statua di San Piero, figura savissima e mirabile; et all’Arte de’ Linaiuoli il San Marco Evangelista, il quale avendo egli preso a fare insieme con Filippo Brunelleschi, Filippo lo lasciò poi finire a lui. Et esso con tanto giudizio et amore lo lavorò, ch’essendo in terra, e non piacendo a’ Consoli di quella Arte, fu per non essere posto in opera. Per il che disse Donato che e’ lo lasciassero mettere lassú, ché voleva mostrare, lavorandovi attorno, che un’altra figura e non piú quella ritornerebbe. E cosí fatto, la turò per XV giorni, e senza altrimenti toccarla, la scoperse riempiendo di maraviglia ognuno, e per cosa egregia fu lodata da tutti.

All’Arte de’ Corazzai fece una figura di San Giorgio armato, vivissima e fierissima. Nella testa della quale si conosce la bellezza nella gioventú, l’animo et il valore nelle armi, una vivacità fieramente terribile et un maraviglioso gesto di muoversi dentro a quel sasso. E certo nelle figure moderne non s’è veduta ancora tanta vivacità, né tanto spirito in marmo, quanto la natura e l’arte operò con la mano di Donato in questo. E nel basamento che il tabernacolo di questo regge, lavorò di marmo in basso rilievo, quando egli amazzò il serpente, fra le quali cose è un cavallo molto stimato e molto lodato. Nel frontispizio fece di basso rilievo mezzo un Dio Padre, e dirimpetto alla chiesa di detto San Michele, in detto oratorio, lavorò di marmo e con l’ordine antico detto corinzio, fuori d’ogni maniera todesca, il tabernacolo per l’arte della Mercatanzia, per collocare in esso due statue, le quali non volse fare perché non fu d’accordo del prezzo. Queste figure, dopo la morte sua, fece di bronzo Andrea del Verrocchio. Lavorò di marmo, nella facciata dinanzi del campanile di Santa Maria del Fiore, quattro figure di braccia cinque, delle quali due, ritratte da ’l naturale, sono nel mezzo, l’una è Francesco Soderini giovane, e l’altra Giovanni di Barduccio Cherichini, oggi nominato il Zuccone. La quale per essere tenuta cosa rarissima e bella quanto nessuna che facesse mai, soleva Donato, quando voleva giurare, sí che si gli credesse, dire: "Alla fé ch’io porto al mio Zuccone", e mentre che lo lavorava, guardandolo tuttavia gli diceva: "Favella, favella, che ti venga il cacasangue!" E da la parte di verso la canonica, sopra la porta del campanile, fece uno Abraam che vuole sacrificare Isaac, et un altro profeta; le quali figure furono poste in mezzo a due altre statue. Fuse per la Signoria di quella città un getto di metallo, che fu locato in piazza in uno arco della loggia loro, et è Giudit che ad Oloferne taglia la testa, opera di grande eccellenzia e di magisterio, la quale, a chi considererà la semplicità del di fuori, nello abito e nello aspetto di Giudit, manifestamente scuopre nel di dentro l’animo grande di quella donna e lo aiuto di Dio, sí come nella aria di esso Oloferne, il vino et il sonno e la morte nelle sue membra, che per avere perduti gli spiriti si dimostrano fredde e cascanti. Questa fu da Donato talmente condotta, che il getto con sottilità è venuto, e con pazienzia e con grandissimo amore; et appresso fu sí rinetta, che maraviglia grandissima è a vederla. Similmente il basamento di granito con semplice ordine si dimostra ripieno di grazia et a gli occhi grato in aspetto. E sí di questa opra si sentí sodisfare, che piú che all’altre il nome suo gli parve di dovervi imprimere, scrivendovi: Donatelli opus. Trovasi di bronzo, nel cortile del palazzo di detti Signori, un David ignudo quanto il vivo, ch’a Golia ha troncato la testa, et alzando un piede, sopra esso lo posa, et ha nella destra una spada. Et è la figura in sé tanto naturale nella vivacità e nella morbidezza, che impossibile pare a gli artefici che ella non sia formata sopra il vivo. Stava già questa statua nel cortile di casa Medici, e per lo essilio di Cosimo in detto luogo fu portata. È posto ancora nella sala dove è l’oriuolo di Lorenzo della Volpaia, da la mano sinistra, un David di marmo, che tiene fra le gambe la testa morta di Golia sotto i piedi, e con una fromba che ha in mano, quella ha percossa. In casa Medici, nel primo cortile, sono otto tondi di marmo, dove sono ritratti cammei antichi e rovesci di medaglie et alcune storie fatte da lui molto belle; i quali sono murati nel fregio, fra le finestre e l’architrave, sopra gli archi delle logge. Similmente la restaurazione d’un Marsia di marmo bianco antico, posto all’uscio del giardino; et una infinità di teste antiche poste sopra le porte, restaurate e da lui acconce con ornamenti d’ali e di diamanti, impresa di Cosimo, di stucchi benissimo lavorati. Fece di granito un bellissimo vaso che gettava acqua; et al giardino de’ Pazzi in Fiorenza, un altro simile ne lavorò che medesimamente getta acqua. Sono in detto luogo Madonne di marmi e di bronzi di basso rilievo, et altre storie di marmi, di figure bellissime e di schiacciato rilievo maravigliose. E fu tanto l’amore che Cosimo portò alla virtú di Donato, che di continuo lo faceva lavorar; et allo incontro ebbe tanto amore verso Cosimo Donato, ch’ad ogni minimo suo cenno indovinava tutto quel che voleva, e di continuo lo ubbidiva. Dicesi che un mercante genovese fece fare a Donato una testa di bronzo quanto il vivo, bellissima, e per portarla lontano sottilissima di metallo, e che per mezzo di Cosimo tale opra gli fu allogata. Finitala adunque, volendo il mercante sodisfarlo, gli parve che Donato troppo ne chiedesse, perché fu rimesso in Cosimo il mercato, e fatta portare in sul cortile di sopra ch’è in detta casa e fu posata fra’ merli che voltano su la strada, acciò che meglio veder la potessino. Cosmo, volendo accomodare la differenza, trovò il mercante molto lontano da la chiesta di Donato, perché, voltatosi, disse ch’era troppo poco. Laonde il mercante, parendogli troppo, diceva che in un mese o poco piú lavorata l’aveva Donato, e che gli toccava piú d’un mezzo fiorino per giorno. Si volse allora Donato con collera, parendogli d’essere offeso troppo, e disse al mercante che in un centesimo d’ora averebbe saputo guastare la fatica e ’l valore d’uno anno; e, dato d’urto alla testa, subito su la strada la fece ruinare, della quale se ne fer molti pezzi, dicendogli che ben mostrava d’essere uso a mercatar fagiuoli e non statue. Perché egli pentitosi, gli volle dare il doppio piú, perché la rifacesse, e Donato non volse per sue promesse, né per prieghi di Cosimo, rifarla già mai.

Sono nelle case de’ Martelli di molte storie di marmi e di bronzi, infra gli altri, un David di braccia tre, et infinite cose da lui, in fede della servitú e dell’amore ch’a tal famiglia portava, donate liberalissimamente; e particularmente un San Giovanni tutto tondo di marmo, finito da lui, di tre braccia d’altezza, cosa rarissima oggi in casa gli eredi di Ruberto Martelli, da esso in presente ricevuto, del quale fu fatto un fideicommisso, che né impegnare né vendere né donare si potesse, senza gran pregiudicio per testimonio e fede delle carezze usate da loro a Donato, e da esso a loro, in riconoscimento de la virtú sua, la quale per la protezzione e per il comodo avuto da loro aveva imparata. Fece ancora a Napoli una sepoltura di marmo per uno arcivescovo, da Fiorenza mandatavi per acqua, posta in Santo Angelo di Seggio di Nido, nella quale son tre figure tonde, che la cassa del morto con la testa reggono, e nel corpo della cassa una storia di basso rilievo sí maravigliosa, che infinite lode se ne convengono. Lavorò nel Castello di Prato il pergamo di marmo dove si mostra la cintola, nello spartimento del quale un ballo di fanciulli intagliò sí belli e sí mirabili, che si può dire che non meno mostrasse la perfezzione dell’arte in questo che e’ si facesse nelle altre cose. Di piú fece, per reggimento di detta opera, due capitelli di bronzo, uno de i quali vi è ancora, e l’altro da gli Spagnuoli, che quella terra misero a sacco, fu portato via.

Avvenne che in quel tempo la Signoria di Vinegia, sentendo la fama sua, mandò per lui acciò che facesse la memoria di Gattamelata nella città di Padova, che fu il cavallo di bronzo su la piazza di Santo Antonio, nel quale si dimostra lo sbuffamento et il fremito del cavallo et il grande animo e la fierezza vivacissimamente espressa dalla arte nella figura che lo cavalca. E dimostrossi Donato tanto mirabile nella grandezza del getto in proporzioni et in bontà, che veramente si può aguagliare a ogni antico artefice, in movenzia, in disegno, in arte, in proporzione et in diligenza. Perché non solo fece stupire allora que’ che lo videro, ma ogni persona che al presente lo può vedere. Per la qual cosa cercarono i Padovani con ogni via di farlo lor cittadino, e con ogni sorte di carezze fermarlo. E per intrattenerlo gli allogarono a la chiesa de’ Frati Minori, nella predella dello altar maggiore, le istorie di Santo Antonio da Padova, le quali sono di basso rilievo e talmente con giudicio condotte, che gli uomini eccellenti di quella arte ne restano maravigliati e stupiti, considerando in esse i belli e variati componimenti, con tanta copia di stravaganti figure e prospettive diminuite. Similmente nel dossale dello altare fece bellissime le Marie che piangono il Cristo morto. Et in casa d’un de’ conti Capo di Lista, lavorò una ossatura d’un cavallo di legname che senza collo ancora oggi si vede; per lo quale le commettiture sono con tanto ordine fabbricate, che chi considera il modo di tale opera, giudica il capriccio del suo cervello e la grandezza dello animo di quello.

In un monastero di monache fece un San Sebastiano di legno, a’ preghi d’un capellano loro amico e domestico suo, che era fiorentino; il quale gliene portò uno che elle avevano vecchio e goffo, pregandolo che e’ lo dovessi fare come quello. Per la qual cosa, sforzandosi Donato di imitarlo, per contentare il capellano e le monache, non poté far sí che ancora che quello che goffo era imitato avesse, non facesse nel suo la bontà e l’artificio usato. In compagnia di questo, molte altre figure di terra e di stucco fece; et in un cantone di un pezzo di marmo vecchio, che le monache in un loro orto avevano, ricavò una molto bella Nostra Donna. E similmente per tutta quella città sono opre di lui infinitissime. Onde essendo per miracolo quivi tenuto e da ogni intelligente lodato, si deliberò di voler tornare a Fiorenza, dicendo che se piú stato vi fosse, tutto quello che sapeva dimenticato s’averebbe, essendovi tanto lodato da ognuno; e che volentieri nella sua patria tornava, per esser poi colà di continuo biasmato; il quale biasmo gli dava cagione di studio, e consequentemente di gloria maggiore. Per il che, di Padova partitosi, nel suo ritorno a Vinegia, per memoria della bontà sua, lasciò in dono alla nazione fiorentina, per la loro cappella ne’ Frati Minori, un San Giovanbatista di legno, lavorato da lui con diligenzia e studio grandissimo.

Nella città di Faenza lavorò di legname un San Giovanni et un San Girolamo, non punto meno stimati che l’altre cose sue. Appresso, ritornatosene in Toscana, fece nella pieve di Monte Pulciano una sepoltura di marmo con una bellissima storia; et in Fiorenza, nella sagrestia di San Lorenzo, un lavamani di marmo, nel quale lavorò parimente Andrea Verrocchio. Et in casa di Lorenzo della Stufa fece teste e figure molto pronte e vivaci. Partissi poi da Fiorenza, et a Roma si trasferí, cercando volere imitare le cose de gli antichi piú ch’e’ poteva, e quelle studiando, lavorò di pietra in quel tempo un tabernacolo del Sacramento che oggi dí si truova in San Pietro. Ritornando a Fiorenza, e da Siena passando, tolse a fare una porta di bronzo per il batisteo di S. Giovanni, et avendo fatto il modello di legno e le forme di cera quasi tutte finite, et a buon termine con la cappa condottele per gittarle, vi capitò Bernardetto di Mona Papera orafo fiorentino, amico e domestico suo, il quale tornava da Roma, et era persona molto intendente e di bonissimo ingegno in tale arte. Costui, poco amico de’ Sanesi, vedendo preparata cosí bella opera ad onore di quella città, commosso da invidia e malignità, cominciò con molte ragioni a persuadere a Donato che non solamente e’ non dovesse finire tale opera, ma guastare ancora e spezzare tutto quello che egli aveva fatto. E non restando giorno né notte da questa empia persuasione, lo condusse pur finalmente, dopo una lunghissima resistenzia, a macchiare la chiarissima bontà sua con questo errore. Avendoli dunque già persuaso Bernardetto, che il guastare le sole fatiche sue non ancora messe in opera, non era uno ingiuriare i Sanesi, ma solamente se stesso, et in una cosa usitatissima, essendo lecito ad ogni artefice rimutare disegno e concetti, aspettarono un giorno di festa che i garzoni erano andati a spasso, e spezzarono tutte le forme con grandissimo dolore di Donato. E subitamente messasi la via fra i piedi, se ne fuggirono a Fiorenza. I garzoni tornati, trovando spezzato e fracassato ogni cosa, e non rivedendo Donato, sentendo che e’ se ne era andato a Fiorenza, per ritrovarlo si misero in camino. Restò similmente nell’opera del Duomo di Siena un San Giovanni Battista di metallo, al quale lasciò egli imperfetto il braccio destro dal gomito in su, dicendo che non avendolo sodisfatto de lo intero pagamento, non voleva finirlo se non gli davano il doppio piú di quello che aveva avuto. Di tutti questi disordini fu cagione la malignità di Bernardetto, che troppo gagliardamente operò nella semplicità di Donatello. Il quale troppo piú credendo allo amico che e’ non doveva, tardi si accorse dello error suo. Lavorò nella tornata sua a Cosimo de’ Medici in San Lorenzo la sagrestia di stucco, ciò è ne’ peducci della volta quattro tondi coi campi di prospettiva, parte dipinti e parte di bassi rilievi di storie de gli Evangelisti. Et in detto luogo fece due porticelle di bronzo di basso rilievo bellissime, con gli Apostoli, co’ martiri e co’ confessori; e sopra quelle alcune nicchie piane, dentrovi nell’una un San Lorenzo et un Santo Stefano, e nell’altra San Cosimo e Damiano. Nella crociera della chiesa lavorò di stucco quattro santi di braccia cinque l’uno, i quali praticamente sono lavorati. Ordinò ancora i pergami di bronzo, dentrovi la Passion di Cristo; cosa che ha in sé disegno, forza, invenzione et abbondanza di figure e casamenti, i quali non potendo egli piú per vecchiezza lavorare, finí Bertoldo suo creato et a ultima perfezzione li ridusse. A Santa Maria del Fiore fece due colossi di mattoni e di stucco, i quali son fuora della chiesa, posti in su i canti delle cappelle per ornamento. Sopra la porta di Santa Croce si vede ancor oggi, finito di suo, un San Lodovico di bronzo di cinque braccia, del quale, essendo incolpato che fosse goffo e forse la manco buona cosa che avesse fatto mai, rispose che a bello studio tale l’aveva fatto, essendo egli stato un goffo a lasciare il reame per farsi frate. Insomma Donato fu tale e tanto mirabile in ogni azzione, che e’ si può dire che in pratica, in giudicio et in sapere, sia stato de’ primi a illustrare l’arte della scultura e del buon disegno ne’ moderni; e tanto piú merita commendazione, quanto nel tempo suo le antichità non erano scoperte sopra la terra, da le colonne, i pili e gli archi trionfali in fuora. Et egli fu potissima cagione che a Cosimo de’ Medici si destasse la volontà dello introdurre a Fiorenza le antichità che sono et erano in casa Medici, e quelle tutte di sua mano acconciò. Era liberalissimo, amorevole e cortese, e per gli amici migliore che per se medesimo; né mai stimò danari, tenendo quegli in una sporta con una fune al palco appicati, onde ogni suo lavorante et amico pigliava il suo bisogno, senza dirgli nulla. Passò la vecchiezza allegrissimamente, e venuto in decrepità, ebbe ad essere soccorso da Cosimo e da altri amici suoi, non potendo piú lavorare. Dicesi che venendo Cosimo a morte lo lasciò raccomandato a Piero suo figliuolo, il quale, come diligentissimo esecutore della volontà di suo padre, gli donò un podere in Cafaggiuolo, di tanta rendita che e’ ne poteva vivere comodamente. Di che fece Donato festa grandissima, parendoli essere con questo piú che sicuro di non avere a morir di fame. Ma non lo tenne però uno anno che, ritornato a Piero, glie lo rinunziò per contratto publico, affermando che non voleva perdere la sua quiete per pensare alla cura familiare et alla molestia del contadino, il quale ogni terzo dí gli era intorno; quando perché il vento gli aveva scoperto la colombaia, quando perché gli erano tolte le bestie dal comune per le gravezze, e quando per la tempesta che gli aveva tolto il vino e le frutte. Delle quali cose era tanto sazio et infastidito, che e’ voleva innanzi morire di fame che avere a pensare a tante cose.

Rise Piero de la semplicità di Donato, e per liberarlo di questo affanno, accettato il podere, che cosí volle al tutto Donato, gli assegnò in su ’l banco suo una provisione della medesima rendita, o piú, ma in danari contanti, che ogni settimana gli erano pagati per la rata che gli toccava; de ’l che egli sommamente si contentò. E servitore et amico della casa de’ Medici, visse lieto e senza pensieri tutto il restante della sua vita, ancora che condottosi ad LXXXIII anni, si trovasse tanto parletico che e’ non potesse piú lavorare in maniera alcuna, e si conducesse a starsi nel letto continovamente, in una povera casetta che aveva nella via del Cocomero, vicino alle monache di San Niccolò. Dove, peggiorando di giorno in giorno e consumandosi a poco a poco, dicono alcuni che e’ non si poteva però indurlo né con preghi, né con consigli, o admonizioni di chi teneva la cura del governarlo, a confessarsi e communicarsi ad usanza di buon cristiano. Non perché e’ non fusse e buono e fedele, ma per quella somma straccurataggine che ebbe sempre in ogni sua cosa fuori che nella arte. La qual cosa intendendo Filippo di Ser Brunellesco amicissimo suo, venutolo a visitare, dopo alcuni ragionamenti gli disse: "Donato, fratello carissimo, io veggo la tua vecchiezza averti condotto assai vicino a quel fine dove arriva ciascuno che nasce; per il che, dovendo noi piú che gli altri conoscere la bontà di Dio, per lo ingegno che e’ ci ha dato, e per lo onore che ci è stato fatto sopra gli altri uomini, voglio per ricordanza della tanta nostra amicizia un servizio da te avanti la morte, il quale non voglio io che tu mi nieghi in maniera alcuna". Donato che amò sempre Filippo cordialmente e conosceva la sua virtú, disse che e’ chiedesse sicuramente, che non mancherebbe di satisfargli. Soggiunseli Filippo allora che, per salute sua e per isgannare infiniti che avevano opinione che tutti gli ingegni elevati e begli fussino eretici, e non credessino da ’l tetto in su, voleva che egli si confessasse e comunicasse; e che se pure non lo voleva fare per amor suo, lo facesse almeno per amor di chi rimaneva vivo nella arte; acciò che e’ non fusse rimproverato loro con lo esemplo di lui che e’ non credessino in Cristo. Parve strana a Donato questa dimanda, ma non potendo mancare a Filippo, si confessò e communicò e ricevé tutti i sagramenti con grandissima divozione. Cosí dicono alcuni de la morte di Donatello, ancora che manifestamente si conosca il tutto essere finzione; sí perché e’ fu veramente fedele e buono, e sí perché Filippo morí anni XX prima di lui, come nel publico epitaffio suo si vede in Santa Maria del Fiore. Laonde bisogna dire, o che questo advenisse in qualche infermità particulare e non nella morte, o piú tosto che tutto è falso et un mero trovato di chi ha voluto cardar gli artefici.

Morissi Donato il dí XIII di dicembre MCCCCLXVI, e fu sotterrato nella chiesa di San Lorenzo vicino alla sepoltura di Cosimo, come egli stesso aveva ordinato, a cagione che cosí gli fusse vicino il corpo già morto, come vivo sempre gli era stato presso con l’animo. Dolse infinitamente la morte sua a’ cittadini, a gli artefici et a chi lo conobbe vivo. Laonde per onorarlo piú nella morte che e’ non avevano fatto nella vita, gli fecero esequie onoratissime nella predetta chiesa; accompagnandolo tutti i pittori, gli architetti, gli scultori, gli orefici e quasi tutto il popolo di quella città. La quale non cessò per lungo tempo di comporre in sue lodi varie maniere di versi in diverse lingue, de’ quali a noi basta por questi soli.
SCVLTVRA HOC MONVMENTVM A FLORENTINIS FIERI VOLVIT DONATELLO VTPOTE HOMINI QVI EI QVOD IAM DIV OPTIMIS ARTIFICIBVS MVLTISQVE SAECVLIS TVM NOBILITATIS TVM NOMINIS ACQVISITVM FVERAT INIVRIAVE TEMPORVM PERDIDERAT IPSA IPSE VNVS VNA VITA INFINITISQVE OPERIBVS CVMVLATISSIMIS RESTITVERIT ET PATRIAE BENEMERENTI HVIVS
RESTITVTAE VIRTVTIS PALMAN REPORTARIT.

Excudit nemo spirantia mollius aera:
Vera cano: cernes marmora viva loqui.
Graecorum sileat prisca admirabilis aetas
Compedibus statuas continuisse Rhodon.
Nectere namque magis fuerant haec vincula digna
Istius egregias artificis statuas.

Quanto con dotta mano alla scultura
Già fecer molti, or sol Donato ha fatto:
Renduto ha vita a’ marmi, affetto et atto.
Che piú, se non parlar, può dar natura?

Delle opere di costui restò cosí pieno il mondo, che bene si può affermare con la verità, nessuno artefice aver mai lavorato piú di lui. Imperoché, dilettandosi d’ogni cosa, a tutte le cose mise le mani, senza guardare che elle fossero o vili o di pregio, faccendo insino a l’armi di pietra, et ogni lavoro basso e meccanico. E fu nientedimanco necessariissimo alla scultura il tanto operare di Donato in qualunque spezie di figure tonde, mezze, basse e bassissime. Perché sí come ne’ tempi buoni degli antichi Greci e Romani, i molti la fecero venir perfetta, cosí egli solo con la moltitudine delle opere, la fece ritornare perfetta e maravigliosa nel secol nostro. Laonde gli artefici debbono riconoscere la grandezza della arte, piú da costui che da qualunche altro che sia nato modernamente, avendo egli oltra il facilitare le difficultà della arte, con la copia delle opre sue congiunto insieme la invenzione, il disegno, la pratica, il giudizio et ogni altra parte, che da uno ingegno divino si possa o debbia mai aspettare. Fu Donato resolutissimo e presto, e con somma facilità condusse tutte le cose sue, et operò sempremai assai piú di quello che e’ promise. Attribuiscongli alcuni che e’ facesse la testa del cavallo che è a Napoli in casa del conte di Matalone; ma non è verisimile che cosí sia, essendo quella maniera antica, e non essendo egli mai stato a Napoli.

Rimase a Bertoldo, suo creato, ogni suo lavoro; e massimamente i pergami di bronzo di San Lorenzo, che da lui furono poi rinetti la maggior parte, e condotti a quel termine che e’ si veggono in detta chiesa.