Le novelle della nonna/La gobba del Buffone
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- La gobba del Buffone
Nella settimana trascorsa dopo l’ultima novella, la matrigna di Vezzosa era stata fra la morte e la vita. Dinanzi a quella donna che soffriva orribilmente, tutti i risentimenti della figliastra erano svaniti. Ella aveva dimenticato quello che aveva patito in tanti anni, per dato e fatto della Maria, e la curava con un affetto da figlia vera. Non andava mai a letto, stava attenta a tutte le prescrizioni del medico, ed era stata lei che s’era opposta quando il dottore aveva parlato di farla portare all’ospedale. - Di casa nostra non c’è mai andato nessuno e non ci deve andare neppur lei, - aveva risposto. - È vero che siamo poveri, ma tanto da curarla ci sarà sempre. Momo, con quanti s’imbatteva nell’andare alla farmacia, cantava le lodi della figliuola, la quale scendeva dalla camera dell’ammalata soltanto per preparare i brodi e le fomente. Cecco ronzava sempre intorno alla casa della promessa sposa, e quando la scorgeva affaccendata in cucina entrava per aver notizie della Maria e sfogava il suo rincrescimento per quella malattia che ritardava la loro felicità. - Abbi pazienza, si tratta di giorni, e poi nulla ci separerà più, - diceva ella guardandolo serenamente con quegli occhi sinceri e pieni di fiducia nel loro avvenire. Cecco se ne andava più consolato, ma poco dopo l’impazienza lo spingeva di nuovo a casa di Vezzosa. Verso il venerdì, la Maria incominciò a migliorare, e le prime parole che disse furon queste: - Vezzosa, non mi scorderò mai di quello che hai fatto per me! Momo gongolava tutto, un po’ dalla felicità di veder migliorare la moglie, un poco perché quella malattia gli aveva dato ragione. Egli lo diceva sempre, alla Maria, che Vezzosa aveva un cuore d’oro, e Maria sosteneva che era perfida. Ora della bontà della ragazza era convinta anche lei, e il pover’uomo, che aveva sofferto assai per la loro inimicizia, era tutto lieto nel saperla svanita. Il sabato e la domenica era continuato il miglioramento della Maria, e la sera della festa ella stava tanto benino, che fu lei che spinse Vezzosa ad andare a veglia dai Marcucci. - Ti svagherai un po’, n’hai tanto bisogno, povera figliuola! - le disse. Vezzosa esitava; ma poi, vedendo che la matrigna, verso sera, aveva preso sonno, le preparò tutto il necessario accanto al letto, e raccomandando alle sorelline di non lasciarla, uscì. - Ecco Vezzosa! - urlarono i bimbi Marcucci, appena la scòrsero dall’aia, per avvertire quelli di casa della venuta di lei; e scherzando la trattennero, socchiudendo l’uscio per aspettare che Cecco venisse a prenderla. Dopo pochi istanti comparve il bell’artigliere e, infilato il braccio della sposina nel suo, le raccomandò di non aprir gli occhi altro che quando glielo avesse detto lui. Vezzosa rideva di tutto quell’apparato, ma si prestò volentieri a far quel che voleva Cecco, e lo seguì a occhi chiusi. - Ora guarda! - diss’egli. Ed ella guardò e die’ un grido di meraviglia. La lunga tavola sulla quale desinavano i Marcucci era coperta di una bella tovaglia di bucato, e su questa vi erano asciugamani, federe, grembiuli di seta, calze, pezzuole con le frange colorate, fazzoletti da naso, un bel cappello di paglia finissimo, e tante altre cose. Accanto a ogni oggetto era collocato un cartellino col nome del donatore, e i piccini si mettevano in punta di piedi per indicare il proprio regalo, dicendo: «Questo è mio! Questo è mio!». - Dunque tutti, tutti avete pensato a me? - domandò Vezzosa commossa. - Tutti, - rispose la Carola, - per dimostrarti quanto siamo felici di vederti entrare in casa; e poi, - soggiunse sottovoce, - anche per farti vedere quanto ti stimiamo, dopo quello che hai fatto per la matrigna. - Era dover mio! - disse semplicemente Vezzosa. La Regina era rimasta nel canto del fuoco lasciando che ciascuno mostrasse alla sposina il regalo che le faceva. Quando tutte le esclamazioni di sorpresa furono cessate, la vecchia si alzò e disse a Vezzosa di seguirla. Le due donne salirono le scale e si fermarono sulla porta della camera della Regina, che era stata tutta trasformata per accogliere la sposa. - Mamma, ma che cosa avete fatto? - esclamò Vezzosa. - Questa è stata sempre la camera vostra e ora ve ne volete privare? La vecchia rispose: - Figlia mia, quando sarò morta, tu penserai a me in questa camera, e ti rammenterai che a questo mondo ti ho chiesto una cosa sola: quella di render felice il mio Cecco. - Oh! per questo non temete! - esclamò la ragazza. - Io non ho unito il mio regalo a quelli del resto della famiglia, perché non potevo portarlo giù. Ma qui in quest’armadio ci sono sei paia di lenzuola senza rinnovare, che ho filate e tessute con le mie mani: sono tue. - Grazie! Grazie, mamma! Come farò a rendere a voi, a tutti, il bene che mi fate? - S’aspetta la novella! - urlavano i bambini di fondo alla scala. Le due donne scesero, e la Regina, per contentare i nipotini, prese a dire:
- Tanti, tanti anni fa, un certo conte Alessandro di Romena sposò una signora di fuorivia. La contessa era piuttosto bruttina e malaticcia, e s’annoiava sempre, lontana dalla sua famiglia, in questi paesi dove c’erano pochi divertimenti. Madonna era figlia di un siniscalco dell’Imperatore, era cresciuta alla Corte, e le pareva di esser sepolta viva, dovendo abitare il castello di Romena. Il marito, non sapendo che cosa fare per divertirla e non vederla più sbadigliare, scrisse al suocero che gli mandasse uno di quei buffoni che i signori solevano tenere alla Corte e che chiamavano giullari. Il suocero non rispose nulla, ma in capo a tre mesi comparve a Romena un ometto piccino piccino, tutto vestito di panno a strisce rosse e gialle, con una gobba che pareva un popone e un berretto in testa tutto coperto di sonagli. Cavalcava sopra un cavallino piccolo piccolo, e quando arrivò al castello disse con piglio altero all’uomo che era a guardia del ponte levatoio: - Dimmi, villano, dov’è il tuo signore? - Dove gli pare, - rispose l’altro, - e non si scomoderà di certo per te. - Guarda con chi parli! Io sono Riccio, il celebre Riccio, e giungo d’oltralpe per divertir la tua padrona. Ho costretto più volte baroni e Conti a inchinarsi dinanzi a me e a baciarmi la gobba; saprò imporre cosa anche più umiliante a un paltoniere pari tuo. Il gobbo parlava con tanta arroganza, che il fante non osò rispondergli per le rime, e, chiamato un compagno, fece avvertire il signore di Romena dell’arrivo di Riccio. L’ometto intanto era sceso da cavallo e passeggiava nel cortile del palazzo battendo fieramente gli sproni sulle lastre di pietra, senza scomporsi, osservando che a uno a uno erano giunti, per vederlo, molti fanti, famigli e valletti, e si reggevano la pancia dalle risa. Finalmente comparve anche il signor di Romena. - Chi ti manda, gobbo? - gli domandò. Riccio finse di non vederlo e continuò a batter gli sproni sul lastrico. - Chi ti manda, gobbo? - ripeté il Conte. Il giullare pareva non sentisse. - Parlo con te, sai, e non sono uso di domandar le cose due volte, - disse il conte di Romena, prendendolo per il braccio e scotendolo forte. - Neppur io sono uso di rispondere quando non mi sento chiamare, signore. Io ti ho fatto dire che mi chiamo Riccio e non gobbo. - Ma sei gobbo e anche gobbo reale! - disse il Conte. - Anche tu sei pelato come una zucca, e se io ti chiamassi pelato non mi risponderesti certo. Il Conte non rise a questa facezia, ma fanti, famigli e valletti sparirono dietro le porte per dare sfogo all’ilarità. Riccio disse allora chi lo mandava e che veniva da Milano, sua patria; poi presentò al Conte la lettera del suocero. - È inutile, signore, che tu l’apra e la sbirci, perché scommetto che se tu la guardassi un anno non capiresti neppur da che parte si legge. - Le lettere non sono occupazione degna di signori, - disse il Conte sprezzantemente. - Lo so che la pianta grassa, cosidetta ignoranza, cresce e vegeta nei castelli, e per questo permetti a un poverello, nato in un tugurio, di decifrare codesta lettera. Ma questo non è luogo opportuno per leggere; non supponevo mai, dopo un così lungo viaggio, di essere ospitato sotto la cappa del cielo, nella reggia di tutti i vènti. Dimmi, è così ospitale il conte di Romena? Il Conte, che sapeva esser concesso ai giullari di parlare liberamente anche a duchi ed a re, non si offese di ciò che diceva Riccio, e lo invitò a salire nella sala dov’era la contessa Berta. Questa stava rincantucciata in un seggiolone, sotto l’ampia cappa del camino, con l’occhio fisso sulla fiamma come persona stanca e annoiata. Le dame stavano in disparte intente a ricamare. Appena il giullare entrò, fece una comica riverenza abbassando la testa e ponendo in evidenza l’enorme gobba. Bastò quella mossa per dileguare la tristezza della signora e farla ridere di cuore. - Madonna, io posso inforcare quella lumaca del mio destriero e ritornare da tuo padre! - Perché? - domandò la contessa Berta. - Fui mandato qui per farti ridere; tu ridi e io parto. Non vorrei che con me tu mettessi in opera il proverbio: «Avuta la grazia, gabbato lo santo». È vero che non sono un santo, ma potresti in questo caso trattarmi come tale; e io ho gabbato molta gente, ma non fui mai gabbato. La Contessa continuò a ridere e il gobbo prese a dire: - Messere e madonna, eccomi qui nella vostra casa. Se volete che restiamo amici, dobbiamo fare i nostri patti. - Che patti? - esclamò il Conte. - Sarebbe bella e nuova che un giullare c’imponesse la sua volontà. Riccio non rispose, ma scrollò il berretto coperto di sonagli e si avviò verso la porta. - Dove vai? - domandò il Conte. - Dove mi pare. Tu mi hai chiamato perché facessi quello che tu non sai fare, cioè tenere allegra la tua sposa; tu vuoi da me un favore ma non permetti che io domandi un compenso, e io me ne vado. Siamo tutti pari: arrivederci! - E la lettera di mio suocero? - È inutile, messere, che io te la consegni, tu non sai leggerla. Io tornerò a chi l’ha scritta e dirò che venga a prendersi la figliuola se non vuole che crepi alle mani di un signore così prepotente. - Tu non partirai, gobbo maledetto! - A chi dici, messere? Tu sai che mi chiamo Riccio; se tu mi chiami gobbo, io ti chiamo pelato. A questo punto la Contessa rise, e risero tutte le dame presenti; il Conte soltanto fremé nel sentirsi burlato in presenza della moglie, e per tagliar corto a quel discorso che lo seccava, ordinò a Riccio di leggergli la lettera del suocero. Il giullare l’aprì, la rigirò da tutte le parti e poi lesse:
Un giullar mi chiedesti per madonna,
Che dal tedio si rode e si consuma,
Ecco Riccio; se il cuci alla gonna,
Di Berta, il tedio tosto ne sfuma.
- Come leggi spedito! - disse il Conte. - Ci vuol poco; questi versacci sono miei, proprio miei e di nessun altro. Ora ho letto la lettera, che non è lunga, e ti snocciolerò la filastrocca de’ miei patti. - Sentiamola! - disse la Contessa, che si divertiva a far parlare il giullare. - Voglio un letto di piume finissime, che mi permetta di riposar bene, perché la mia metà non può giacere sul duro. - E dov’è questa tua metà, che non la vedo? - Sei forse cieco? Eppure la porto bene in mostra; la mia cara metà è unita a me da legami indissolubili, ed io, meschino, debbo chinar la testa e sopportare tutte le noie che m’impone. - Questa tua metà, sarebbe forse la gobba? - domandò il Conte, il quale incominciava a divertirsi. - Non la chiamar così, signor mio! Fra i suoi difetti, v’è pur quello di essere permalosa, e freme a sentirsi dar quel brutto nome! Invece vuol essere chiamata amena Collinetta, o Collinetta amena, ed allora è tutta latte e miele. Ma, intanto, parlando e ciarlando, dimentico il meglio: avrò il letto di finissime piume? - L’avrai, - disse il Conte. - Passiamo al secondo patto: io ho bisogno di quattro vestiti all’anno; uno per stagione. - L’avrai pure; non ci vuole a vestir te, più stoffa che a vestire un bambino. - La quantità è niente, lo so pur io; - rispose Riccio, - ma siccome quando vestite me, vi conviene vestire anche l’amena Collinetta mia, così dovete sapere che ella è alquanto sofistica; vuole che il suo abito sia tutto imbottito di bambagia e che non faccia una grinza, altrimenti non mi dà pace né tregua. - Il nostro sarto ti farà i quattro vestiti, e Collinetta amena sarà contenta! - disse il Conte ridendo. - Passiamo al terzo patto, - soggiunse il giullare. - Collinetta amena ha lo stomaco delicato; i cibi ordinari non li digerisce, ed ha bisogno di brodi sostanziosi, di carni tenere, di caccia fine, di gelatine e pasticcini. Se mi prometti di trattarla bene, rimarrò, altrimenti mi conviene di partire. - Non dubitare, tu mangerai alla nostra tavola e Collinetta amena pure, dal momento che siete inseparabili. - Non vuol dir nulla questa vaga promessa. Mangiare alla tavola di un signore, non s’intende mangiare delicatamente come mangia il signore. Potresti dare a Collinetta amena da mangiar chiodi, e tu accomodarti lo stomaco con tordi e pernici. No, io voglio i patti chiari e intendo che la mia metà abbia lo stesso trattamento di madonna. - L’avrà, l’avrà! - esclamarono marito e moglie. - E ora è terminata la filastrocca dei patti? - Ci rimane il più e il meglio. Collinetta amena è previdente, essa pensa alla vecchiaia e non fida troppo sulla generosità dei grandi. Ogni anno essa vuole tant’oro quanto ella ne può contenere, perché bisogna che dica che ella vincola la sua libertà soltanto per un anno. - Madonna Collinetta avrà l’oro che chiede, - replicò il Conte, - e avrà tutto il resto; però, col patto che la tristezza non apparisca mai sul volto della mia sposa e che il castello di Romena echeggi sempre di risa. - S’intende! - rispose il giullare. E abbassando la testa fece fare alla gobba tre inchini. Questa mossa bastò, come la prima volta, per far ridere a crepapelle la Contessa e le sue dame. Col giullare era entrata davvero l’allegria nel castello di Romena, e quando egli vedeva che la Contessa era pensierosa, si permetteva di far burle d’ogni genere, e raccontava storielle così ridicole da costringerla a ridere. Se erano a mensa e si accorgeva che non rimaneva per lui nessun boccone prelibato, si alzava, e senza tanti complimenti lo prendeva dal piatto di madonna Berta; dopo pranzo si metteva a cantare con una voce quasi chioccia le bellezze di Collinetta amena, e sfogava i supposti tormenti del suo cuore con parole così buffe, accompagnate da gesti così ridicoli, che madonna Berta si smascellava dalle risa e doveva imporgli di tacere. A Romena tutti eran pazzi di Riccio e gli permettevano di parlar liberamente e di far quello che gli pareva. Il solo che non potesse vederlo era un certo messer Lapo, un poetastro lungo e secco come una pertica, e noioso, aiutatemi a dire noioso. Questo tale non rideva mai alle facezie del gobbo e lo schivava quanto più poteva. E il giullare, che voleva divertire i signori alle spalle di quel figuro, lo tormentava sempre e non si lasciava sfuggire qualunque occasione si presentasse per metterlo alla berlina. Questo messer Lapo era un uomo alquanto pauroso; aveva paura degli animali, aveva paura dei morti, delle streghe, e, soprattutto, degli spiriti. Ora Riccio, saputo questo, volle fargli una burla, e siccome dormiva in una camera vicina a quella del poetastro, una sera, mentre questi sfogava alla finestra il suo estro poetico cantando alla luna, s’introdusse in camera di lui e si nascose sotto il letto. Quando ser Lapo ebbe sfogato ben bene la voglia di cantare, chiuse la finestra e si coricò. Ma era appena nel primo sonno, che si destò di soprassalto sentendosi tirare le coperte. - Gli spiriti! - disse con un fil di voce. Le stratte alle coperte si ripeterono insistenti, e poi sentì una mano diaccia che gli toccava i piedi: - Sono morto, - urlò, e con tutti e due i pugni si diede a batter nella parete per destare Riccio. Ma Riccio non rispondeva e continuava a tirar le coperte, a smuover le panchette e a far l’ira di Dio. - Anime sante! vi farò dire una messa, due messe, dieci messe, ma lasciatemi in pace! Nulla. Il diavolìo aumentava, gli sgabelli andavano per terra, i vestiti volavano come pipistrelli, battendo nel viso di ser Lapo: pareva il finimondo, e l’infelice non osava aprir gli occhi e tanto meno scendere dal letto. Quando Riccio credé di averlo abbastanza impaurito, se ne andò a letto e dormì saporitamente. La mattina dopo il poetastro e il giullare s’incontrarono nella sala del castello in presenza de’ signori. Ser Lapo aveva un viso giallo da far pietà e certi occhi tutti stralunati dalla paura. - Non hai dormito neppur tu, compare? - domandò Riccio. - No, - rispose brevemente l’altro, che non voleva parlare degli spiriti. - Madonna e messere, nelle nostre camere ci son gli spiriti! - disse Riccio. - La mia Collinetta amena è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. - Dunque li hai sentiti anche tu? - domandò ser Lapo sgranando gli occhi. - Se li ho sentiti? Non mi hanno lasciato dormire un momento solo. - Perché non ti sei fatto vivo quando ho bussato nella tua parete? - Amico, la paura mi ha fatto morire la voce nella strozza. - Io non vi dormo più in quella stanza, con licenza di madonna e di messere, - disse Lapo. - Va’ a dormire in Torre, - rispose il Conte. - E io neppure ci dormo, - disse Riccio. - Andrò in Torre anch’io. Bisogna sapere che il castello di Romena era fiancheggiato da molte torri, ma ve n’era una più alta delle altre, che guardava il pian di Campaldino, e che chiamavano soltanto Torre, mentre le altre avevano tutte un nome speciale. Così il gobbo e il poeta quel giorno stesso presero le loro carabattole e andarono a stare nella Torre. In essa non vi era altro che una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Intanto il giullare aveva avvertito i signori che la storiella degli spiriti era una burla preparata da lui al poeta per tenere allegra la nobile compagnia, e aveva pregato il Conte di dar ordine che nessuno, di notte, rispondesse, qualora Lapo si mettesse a urlare e chiedere aiuto. In quel giorno Riccio, approfittando dell’assenza di Lapo aveva smosso i mattoni che rispondevano sul letto del poeta e, chiappati sul tetto una diecina di pipistrelli, l’aveva rinchiusi in una cassetta. Quando fu notte e tutti erano a letto, Riccio alzò uno dei mattoni smossi, e, legati per una zampa i pipistrelli a un cordino, li spinse giù. Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l’anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c’erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un’altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un’altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra’ Leonardo con l’acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell’entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un’idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com’egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra’ Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l’uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s’addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l’uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l’uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch’io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S’era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest’avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l’anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l’anno si presentò nella sala dov’erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d’addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l’anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l’aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant’oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d’oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s’era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d’oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall’imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l’oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d’oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l’allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L’omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l’oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L’allegria non si paga!
La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d’imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M’ingegnerò. E corse su dalla malata.