Le novelle della nonna/La Stella consolatrice

La Stella consolatrice

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Il teschio di Amalziabene Il Diavolo alla festa

Parte Seconda

La Stella consolatrice

Dall’ultima serata in casa dei Marcucci, quando la Regina narrò la novella del teschio di fra’ Amalziabene, sono passati quasi due mesi, e da quel tempo, intorno alla vecchia nonna non si sono riuniti più i nipotini intenti, né gli altri bimbi del vicinato. Il lunedì successivo a quella domenica di pioggia, la Regina era stata zitta zitta, e alle domande di Cecco e a quelle premurose degli altri figliuoli, aveva risposto che non era ammalata, ma che quel tempaccio le metteva il freddo nell’ossa e la malinconia nel cuore. La sera, peraltro, andò a letto più presto del solito, senza cenare, e per due o tre giorni si alzò, ma strascicava le gambe e non atteggiava mai la bocca al sorriso. Una mattina Vezzosa capitò al podere di Farneta per domandare in prestito un po’ di lievito per fare il pane, e in cucina non trovò altri che la vecchia, che le parve così malandata, in quel poco tempo, da non riconoscersi più. A lei non disse nulla e, avuto quel che chiedeva, uscì; ma imbattutasi sull’aia con Cecco, che tornava dal mulino, gli andò incontro seria seria, dicendogli: - Cecco, mi rincresce dirvelo, ma vostra madre mi par che non stia bene. Io vado a Poppi oggi a far qualche spesuccia, volete che vi mandi il dottore? - Mandatelo, ma avvertitelo che non dica che s’è chiamato; deve fingere di capitar da noi per caso, perché la mamma non ha voluto che si chiamasse, ed io, nonostante che stia tanto in pena, ho fatto la sua volontà. - Non dubitate; poi stasera verrò a vedere come sta! Povero Cecco! E non aggiunse altro, fuggendo via per non far vedere che era diventata rossa rossa. Il medico era andato a visitare la vecchia, uniformandosi alle raccomandazioni della Vezzosa, e le aveva trovato un po’ di febbre; ma nulla di grave per il momento. Però quella febbriciattola era ricomparsa tutte le sere per dieci giorni, spossando interamente la Regina, che non si alzava più, non mangiava nulla, e ogni movimento le costava fatica. Durante quella malattia, Vezzosa, ora con un pretesto, ora con un altro, andava due o tre volte al giorno a visitare la malata, e si sedeva accanto al capezzale di lei, dalla parte opposta dove era seduto Cecco, e non parlava altro che a bassa voce per non affaticarla; ma lo sguardo dolce che fissava sulla vecchia era una carezza al cuore del figlio. La Regina si riebbe con la stagione più mite, e fu una festa quando ricomparve giù in cucina appoggiandosi da una parte a Cecco e dall’altra alla Vezzosa; ma passò quasi tutto il carnevale prima che si riparlasse di veglie e di novelle, e soltanto la domenica dopo Berlingaccio, la Regina, che si sentiva bene, disse: - Stasera la volete, la novella? Un grido festoso, mandato da una ventina di bocche, accòlse quella proposta, e si udì subito uno scalpiccìo e un rumore di sedie sospinte verso il cantuccio del fuoco dove stava la vecchia. La Vezzosa, che dopo la malattia le era divenuta così cara, prese posto accanto a lei; Cecco, a poca distanza dall’altra parte del camino, e la vecchia, contenta di poter divertire ancora la sua famiglia e i suoi vicini, incominciò:

- Dovete sapere che tanti, ma tanti anni fa, viveva ad Arezzo un celebre armaiolo, nominato ser Baldo. Quest’uomo era tanto abile nell’arte sua, che i re, i principi, i duchi, e quanti signori che erano allora in Italia, volevano spade, scudi, pugnali e armature uscite dalle sue mani, perché non soltanto sapeva fabbricar lame di acciaio solide e forbite, ma le ornava d’impugnature di finissimo lavoro. Quest’uomo era vedovo con un figlio unico, un bellissimo giovanetto, bianco e rosso e tutto ricciuto che era un piacere a vederlo. Ora avvenne che ser Baldo aveva avuto commissione da un certo Forese degli Adimari, ricco e potente fiorentino, di fabbricare per lui una spada e uno scudo con lo stemma di quel gentiluomo, che era a fasce d’azzurro in campo bianco. Quando ser Baldo accettò il lavoro e la caparra, tacevano per un momento gli odî fra Firenze guelfa e Arezzo ghibellina, ma subito dopo questi odî si riaccesero, e intanto messer Forese tempestava di messi l’armaiuolo per avere la spada e lo scudo. Ser Baldo, che era uomo onesto, aveva terminato già da molto tempo il lavoro commessogli, ma non osava di mandarlo, perché se colui che recava a Firenze le armi fosse stato arrestato nel passare dal Casentino, quelle armi sarebbero state prese, e ser Baldo stesso ne avrebbe risentito non solo il danno di dover rifare la spada e lo scudo, ma anche uno molto maggiore: quello di esser trattato da traditore e di venir rinchiuso forse in carcere. Ser Baldo non era uomo di sentimenti guerreschi e non capiva le lotte fra città e città, fra terra e terra. Da giovanetto era stato a imparar l’arte a Firenze; poi aveva lavorato per guelfi e ghibellini, per bianchi e neri, e l’unica cosa che gli stesse a cuore si era di superare gli altri armaiuoli con l’eccellenza dell’opera sua. Di animo mite, egli componeva canti, mentre tirava in lamine sottili l’argento e l’oro, o con la punta del bulino fregiava di ornamenti le lame e gli scudi. Ma ogni volta che un messo giungeva da Firenze a sollecitarlo di rimandare lo scudo e la spada per messer Forese, il canto moriva sulle labbra di ser Baldo, e il figlio suo, che lavorava accanto a lui, accorgendosi dell’angoscia del babbo, cessava anch’egli di cantare e lo fissava con occhio mesto. Un giorno il giovine Piero vedendo suo padre con lo sguardo pensoso fisso sulla bellissima spada e sul ricco scudo del signore fiorentino, gli disse: - Giacché vi cruccia tanto di non poter consegnare quel lavoro, perché non lo affidate a me? Nascondiamo questi due oggetti in un carro di fieno, mi vestirò da contadino e li porterò sani e salvi a Firenze a messer Forese. - E se ti scoprono, Piero mio? - Non dubitate; ho la lingua sciolta; e poi che delitto commetto? Non sarebbe forse maggior peccato il non mantenere la promessa, che non consegnare queste armi, che il cavaliere non adoprerà mai in guerra, ma nei torneamenti, poiché sono armi di lusso? - Tu ragioni bene, figlio mio, e domani il carro e il fieno saranno provveduti. Ser Baldo mandò subito per un suo contadino, che stava poco distante dalla fortezza, gli ordinò di portargli in città un baroccio di fieno per il suo cavallo, e la sera, quando il baroccio arrivò, lo fece rimettere carico com’era nella stalla, e nascose sotto il fieno le armi preziose. Poi benedì il figlio e lo guardò dalla finestra mentre partiva, travestito da contadinello. Piero guidò il cavallo fino a Poppi senza che nessuno badasse a lui; ma, giunto al ponte, fu fermato da due uomini d’arme, che gli dissero: - Dove vai, ragazzo? - Porto questo fieno a Stia, - rispose Piero con voce sicura, benché dentro di sé tremasse. - Mi pare, - soggiunse uno dei soldati, squadrandolo fisso, - che per portare il fieno abbiano scelto un giovinetto troppo bianco e troppo roseo; non saresti per caso qualche fiorentino maledetto? - Son casentinese, e d’Arezzo, e io non m’intendo né di Guelfi né di Ghibellini. Faccio il mio mestiere e mi annoio di veder le strade impedite. Anzi, se mi lasciaste andare per i fatti miei ve ne sarei grato, perché è quasi buio e fino a notte inoltrata non potrò arrivare a Stia. Addio! E frustato il cavallo si allontanò cantando come chi non teme di nulla. I due soldati ebbero per un momento l’intenzione di trattenerlo, ma vedendolo così allegro e indifferente, lo lasciarono andare. Aveva fatto appena un miglio, quando Piero incontrò una donna lacera, con due bambini attaccati alla sottana e uno in collo, che gli chiese l’elemosina per l’amor di Dio. Piero fermò il cavallo ed ebbe tanta pietà della donna, che le mise in mano due soldi, che erano allora una moneta che aveva assai valore. - Dio te ne renda merito, - disse la mendicante, e, se la sventura ti coglie, guarda sempre verso il Cielo, sia di giorno o di notte, e se scorgi quella stella, - e gliene indicò una molto risplendente, - non temer di nulla, che sarai salvo. Piero la ringraziò e frustò il cavallo; ma era appena giunto sotto il colle su cui s’erge Romena, che non più due, ma dieci uomini armati, gli si avvicinarono. Uno di questi prese per la briglia il cavallo e lo guidò per una viottola. - Lasciatemi proseguire! - esclamò Piero, offeso da quel modo prepotente di operare. - Taci, - rispose il soldato, - i nostri cavalli hanno fame e questo fieno è una benedizione del Cielo. Era notte scura, e Piero, rammentando quel che gli aveva detto poc’anzi la mendicante, volse gli occhi al cielo e vide brillare la stella amica, che gli aveva indicata. Allora riprese coraggio e non fiatò. La comitiva armata aveva fatto appena pochi passi in quell’angusto sentiero che pareva conducesse al castello, quando ad un tratto si fermò. L’uomo che guidava il cavallo scambiò alcune parole con gli altri, a bassa voce, e ad un tratto si sbandarono tutti per i campi. Piero non sapeva spiegarsi quella fuga precipitosa, quando scòrse, poco distante dalla testa del cavallo, un cavaliere seguìto da valletti e da uomini armati. - Che fai qui? - gli domandò il cavaliere, che aveva in testa l’elmo piumato. - Messere, - rispose Piero con la sua dolce voce, - fui arrestato da una masnada che voleva rubarmi questo po’ di fieno, che mio padre mi ha dato da portare a un suo conoscente; fui condotto qui, ma io son diretto per altra via. - Volta briglia, ragazzo, e se tu incontrassi ancora dei mariuoli, di’ che questo fieno è del signor di Romena, e nessuno oserà toccartene un filo. - Grazie, messere, - rispose Piero e frustando il cavallo si allontanò cantando:

      Era di maggio e ben me ne ricordo.
      Quando ci cominciammo a ben volere;
      Eran fiorite le rose nell’orto.
      E le ciliege diventavan nere;
      Le diventavan nere in sulla rama.
      Quando ti vidi e fosti la mia dama;
      Passò l’estate e giù cascò la foglia...
      Di far teco all’amor non ho più voglia.

E così cantando, Piero andava avanti, sempre avanti. Quando fu poco distante da Stia, un vecchio in abito di pellegrino, gli s’accostò e gli disse: - Ragazzo, io sono stanco; tu canti, dunque vuol dire che sei forte e allegro. Vuoi farmi montar sul baroccio? - Volentieri, - rispose Piero, - ma vengo di lontano, ho ancor molto da camminare e non voglio stancare il cavallo; salite voi, io me ne verrò passo passo. Il vecchio non si fece pregare e, salito sul baroccio, si stese sul fieno. Era taciturno e cupo, e non disse una parola a Piero il quale, per ammazzare il tempo, continuò a cantare la interrotta canzone, trillando come un usignolo. Poco prima di Stia il vecchio scese, e accostandosi al ragazzo gli disse: - Fra poco t’imbatterai in alcuni soldati che ti condurranno in prigione a Porciano; se vuoi salvare lo scudo e la spada che ti preme di portare a Firenze, di’ che sai curar la rogna. Eccoti un vasetto di balsamo e ungine la testa alla bella Matelda, figlia del Conte; addio! Nel sentire che il pellegrino era informato di quello che recava nascostamente nel baroccio, Piero rimase di sasso, e la sua bella voce non echeggiò più nella campagna silenziosa. Aveva voglia dì tornare ad Arezzo, invece che proseguir la via, ma vòlto lo sguardo al cielo, vide brillar la stella, e pieno di fiducia continuò il viaggio. Quando ebbe oltrepassato Stia e si fu internato in un bosco, vide a un tratto saltar su da un fosso quattro uomini, che gli fermarono il cavallo, gridandogli: - Che fai di notte per la strada? Questa non è ora di portare il fieno; che cosa rechi nascosto nel baroccio.? - Quel che mi pare; - rispose Piero, - io non ho da render conto a voi de’ fatti miei. - Non sai che siamo i soldati del conte di Porciano e che non lasciamo impunemente passare chi reca roba o messaggi a quei ribaldi di guelfi fiorentini! - Io non lo sapevo, - rispose Piero. - Se volete frugarmi addosso, io non ho nessun messaggio né per la Signoria né per altri; questo è fieno del signor di Romena. - Baie! Noi conosciamo tutti i terrazzani del Conte, e il messaggio puoi portarlo a voce; si arma da ambe le parti, e bisogna premunirsi; tu verrai con noi. Avanti! Piero dovette ubbidire, e poco dopo, scortato dagli uomini del conte di Porciano, passò sul ponte levatoio del castello. Il baroccio e il cavallo furono posti in una stalla, e il ragazzo venne rinchiuso in un sotterraneo umido e buio, dal quale non si scorgeva neppure un lembo di cielo. - Non vedo la stella, è finita per me! - mormorava il prigioniero. - Messer Forese non avrà più lo scudo né la spada, e mio padre sarà disonorato! In quel momento non pensava più neppure al balsamo. Ma Piero era giovane, e la stanchezza fu più forte della sua angoscia, così che poco dopo dormiva saporitamente e in sogno gli pareva di vedere la stella, che lo guidava fino alla casa di messer Forese, una ricca casa poco distante da quella chiesa di San Giovanni, che era nota anche in Casentino. Da questo bel sogno Piero fu desto malamente con un calcio. Aprì gli occhi, balzò in piedi e si vide davanti una delle brutte grinte che lo avevano arrestato la sera prima. - Vieni su, - gli disse aspramente. - Non recavi messaggio, ma qualche cosa di meglio, eh? - aggiunse, e lo guidò in una grande sala d’armi, col soffitto di legno e le pareti coperte di armature, di spade, aste guarnite di gonfaloni, di scudi e di pugnali-misericordie. In quella sala, sopra un seggiolone, al quale si saliva per mezzo di quattro gradini, sedeva un signore dall’aspetto fiero, col volto raso ed i capelli spioventi sulle spalle. Piero tremò nel vederlo e tremò ancora più quando il conte di Porciano gli disse con voce aspra: - Tu sei molto giovane, ma molto astuto, mio bel ragazzino. Chi ti ha data quella bella spada e quel bello scudo per recare a uno di quei ribaldi degli Adimari? - Non posso dirlo, - rispose Piero. - Vedremo se dopo tre giorni di carcere tu mi darai una risposta così fiera! Legategli i polsi e i garetti e non gli date per cibo altro che il pane dei cani. Piero porse i polsi agli uomini di arme, che si eran trattenuti sulla porta della sala, e uscì a testa alta, senza dire parola. I suoi carcerieri lo rinchiusero nello stesso sotterraneo dopo avergli messo accanto una brocca d’acqua e una pagnotta di pane. Lasciamo il prigioniero alla sua solitudine e torniamo al conte di Porciano. Dopo che il signore aveva veduto la spada e lo scudo destinati a un fiorentino, era stato tutto lieto d’avere impedito che quelle ricche armi giungessero a destinazione; però non aveva pensato neppure a prenderle per sé. Egli non avrebbe mai potuto scendere in campo con quelle armi, che non erano spoglie di guerra. Bensì egli sperava, facendo parlar Piero, di scoprire una congiura a danno della famiglia Guidi, che era anche la sua, e a danno di tutti i ghibellini del Casentino, che opponevano tanta e così fiera resistenza alla Signoria fiorentina. Quando vide che Piero si rinchiudeva nel silenzio, il signore di Porciano si turbò, ma non per questo si perdette d’animo. Il soggiorno nella carcere era abbastanza penoso, e se quello non bastava a scioglier la lingua al ragazzo, c’era la minaccia del trabocchetto, che aveva reso arrendevoli molti uomini forti, ed avrebbe certo fatto parlare quel ragazzetto dal viso di femminuccia. Il Conte attese quindi alle consuete occupazioni, cupo e accigliato come sempre, e la sera se ne stava nell’ampia sala ascoltando fra’ Odone, che gli parlava di fare intraprendere alla bella contessa Matelda un pellegrinaggio alla Verna, per ottenere la guarigione della terribile malattia che le aveva fatto cadere i morbidi e lunghi capelli, quando entrò in sala un valletto ad annunziargli che il signor di Romena chiedeva di essere ammesso nel palazzo. Il Conte ordinò che fosse subito introdotto, e poco dopo un rumore di ferro si udiva nel corridoio, e si presentava sulla soglia, col morione piumato in testa, il bel conte Alessandro. Il vecchio signore si alzò per muovere incontro al cugino; il valletto che lo aveva scortato si ritirò, e il frate Odone andò in fondo alla sala per lasciar liberi i due signori. - Cugino, - disse il conte Alessandro di Romena, - un pellegrino è venuto oggi a dirmi di aver veduto buon numero di fiorentini verso Montemignaio. Sono venuto ad avvertirti affinché domani muoviamo loro incontro prima di lasciarli scendere al piano. Fa’ vegliare sul tuo palazzo e lascialo in buone mani, poiché alla testa dei fiorentini vi è quell’anima dannata di Forese degli Adimari. - Forese, hai detto? - Egli appunto; sai bene che non vi è fiorentino più crudele di lui, e dove passa, brucia, trucida e ruba; è un vero flagello. - Che mi si conduca il prigioniero! - ordinò il conte di Porciano al valletto, che attendeva sulla porta; e in breve raccontò al cugino la cattura fatta dai suoi. Pochi minuti dopo Piero era condotto nella sala e vi entrava con passo fiero, con la testa alta. Il conte di Romena lo riconobbe e gli fece un lieve cenno del capo. Piero s’inchinò. - Vuoi parlare? - gli domandò il conte di Porciano. - Chi ti ha dato quelle armi per portare a Forese degli Adimari? - Non posso dirlo, signore, - rispose con tono fermo Piero. - Io vi giuro che non sono un cospiratore, vi giuro che non voglio nuocere ad alcuno. Mi sono stati confidati quei due oggetti da consegnare a Firenze. Io non so altro. - Ma il nome, il nome di colui che te li ha affidati! - esclamò il vecchio signore. - Non posso rivelarlo. Non sono gentiluomo, ma so che un segreto bisogna serbarlo anche a costo della vita. - Bada, ragazzo, tu mi spingi agli estremi. Nel mio castello c’è un trabocchetto profondo, tutto rivestito di acutissime punte di ferro; se non parli io ti farò precipitare là dentro, - disse il vecchio col volto acceso di collera. - Quando nascosi la spada e lo scudo fra il fieno sapevo quello che facevo, signore, e sapevo anche che andavo incontro alla morte; né mi spaventa. - Ma non sai che i fiorentini sono scesi nel Casentino e che alla testa di quei ribaldi c’è appunto Forese degli Adimari? - Se lo avessi saputo, signore, invece di affrontare il viaggio, avrei atteso che egli fosse venuto a prendere le sue armi; ma io non sono stato educato nei castelli; vivo lavorando e non so quando si arma e quando si preparano invasioni. - Parla subito! - Non posso, - rispose il fanciullo. - Allora al trabocchetto! - gridò il Conte infuriato. Il signor di Romena s’interpose dicendo: - Cugino, calma il tuo risentimento e, prima di condannare alla morte questo ragazzo caparbio, mostrami le armi che egli aveva celate tra il fieno; forse quelle armi mi riveleranno quello che egli non vuol dire. Le armi erano appoggiate da un lato della sala, e appena Piero le vide, sorrise come se gli stesse dinanzi persona amica e cara, poiché esse gli rammentavano i lieti giorni trascorsi nella bottega del padre, tirando lamine di sottil metallo o forbendo armature, mentre ser Baldo lasciava la briglia alla fantasia e cantava le belle canzoni d’amore o di guerra. Il conte di Romena esaminò lo scudo e poi la spada, provandone la punta, ammirandone gli ornamenti da buon conoscitore, e quindi disse: - Questa spada mi ha parlato infatti, e mi ha detto che esce dalla bottega di ser Baldo d’Arezzo, il più abile armaiuolo che io conosca. Non è vero, giovinetto? Piero taceva e dalle finestre aperte della sala fissava la bella stella indicatagli dalla mendicante. - Dico a te, sai? - ribatté il conte Alessandro. - Non è forse una spada di Baldo, questa? - Può darsi, - replicò Piero, - se essa non vi dice altro, è segno che sa al pari di me serbare un segreto. - Tu sei un testardo! - esclamò il conte di Porciano, - ed io sono stanco di tollerare la tua insolenza. Torna dunque in prigione, e tu, Frate, dirai la messa a giorno; il condannato l’ascolterà fino al Pater e quindi sarà gettato nel trabocchetto. Se Forese degli Adimari vuol la sua spada, deve venirla a prendere fra queste mura. - Mi dispiace di morire senza aver guarito la bella contessa Matelda, - disse Piero impavido; e senza aggiungere altro si diresse verso la porta, dove era la scòrta per riaccompagnarlo in prigione. Mentre usciva, il conte di Porciano disse: - È astuto quel furfante! Voleva acquistar tempo, col pretesto di curare Matelda, sperando forse nell’aiuto dei fiorentini; ma io non sono così da poco per credergli. All’alba morrà. - Signore, - osservò a voce bassa fra’ Odone, - di qui non può fuggire; perché non gli date tempo di provare la cura su vostra figlia? Il vecchio alzò le spalle senza rispondere e il conte di Romena, dopo aver cenato col cugino, uscì dal palazzo per andare in tutti i castelli dei suoi congiunti a dar l’allarme. Dopo che la contessa Matelda era stata colpita dalla terribile malattia che l’aveva privata dei lunghi e morbidi capelli, viveva ritirata nelle sue stanze senza mostrarsi più a nessuno, e piangeva di sovente pensando che a lei non avrebbero mai arriso le gioie di sposa e di madre, perché nessuno avrebbe pensato a unirsi con una ragazza colpita da una infermità come quella. Ogni sera fra’ Odone andava da lei dopo cena, e mentre le donne di Matelda trapuntavano ricchi tappeti e gonfaloni di seta, ella ascoltava la lettura della vita dei Santi che il Frate le faceva, e intanto alluminava messali e copiava libri di orazione. Il conte di Porciano non sapeva leggere, ma Matelda era dotta in latino, e scriveva come un maestro. Quella sera il Frate, invece di leggere, la intrattenne dei casi della giornata, e le narrò che il prigioniero aveva detto che gli rincresceva di morire per non poter guarire Matelda dalla malattia che l’affliggeva. - Fra’ Odone, quel prigioniero non deve morire! - esclamò Matelda. - Voi conoscete il Conte; non gli farà la grazia, neppure se lo supplicate voi, cui vuol tanto bene. - Fra’ Odone, bisogna salvarlo. Fate gettare nel trabocchetto un cane, ingannate mio padre, ma salvate il prigioniero. Se guarisco, mio padre vi ringrazierà. - E se non guarite? Matelda stette un momento soprappensieri e poi rispose: - Ho fede e guarirò. Voglio subito vedere il prigioniero. Le donne di Matelda chiamarono il carceriere, e questi accompagnò la Contessa nel buio sotterraneo, rischiarandole la via con una torcia accesa che teneva in mano. La chiave fu introdotta nella serratura, fu tirato il catenaccio e Matelda vide il fanciullo bello e roseo inginocchiato, con le mani congiunte in atto di preghiera. - Fanciullo, - gli disse la castellana, - ti sei vantato assicurando che mi avresti guarito dal mio male. - Madonna, io ho qui un balsamo: provatelo. - Se tu avrai detto il vero, ti strapperò alla morte. - Non credo che da qui all’alba l’infermità possa esser guarita; ma chi sa: Iddio vede la mia innocenza e forse opererà per me un miracolo. Eccovi il balsamo, e se un giorno voi riavrete i capelli, nel lisciarveli pensate a Piero. La contessa Matelda prese il vasetto che le porgeva il giovinetto e disse: - Tu non morrai, neppure se Iddio non opererà il miracolo; conta su di me. La bella contessa Matelda uscì dalla prigione, e Piero cadde in ginocchio e pregò ardentemente. A un tratto gli parve che la sua cella s’illuminasse, e volgendo lo sguardo al soffitto vide la stella splendente, e fu consolato; ma non per questo cessò di pregare. Di lì a poco, senza che la pesante porta girasse sui cardini, scòrse, ritta dinanzi a sé, la mendicante del ponte di Poppi, non più con i due bambini attaccati alla sottana, ma sola e circonfusa di luce. La dolce visione gli disse: - Spera, Piero; io non ti abbandono, - e sparì. Piero, ancor più consolato, riprese a pregare, e in capo a un’ora gli comparve il pellegrino, non più cadente e appoggiato sul bastone, ma circonfuso egli pure di una luce soave e più mite di quella che avvolgeva la donna. - Il balsamo già opera il miracolo, Piero, spera! - gli disse, e sparì. Nel sotterraneo umido e buio rimase, dopo quelle due apparizioni, un profumo di rose e di gigli, come si sente in chiesa durante il maggio fiorito; ma Piero neppure dopo quelle assicurazioni cessò di pregare. Gli pareva impossibile che qualcuno lo potesse salvare, e le sinistre parole del Conte gli risuonavano sempre all’orecchio. A un tratto sentì aprire la porta della prigione, e due uomini armati lo condussero alla cappella dove frate Odone, pallido e sconvolto, era pronto a dir la messa. Una lampada e due ceri accesi davanti a una immagine della Madonna illuminavano debolmente la piccola chiesa. Piero pregava ancora con gli occhi fissi nel volto della Vergine, e si raccomandava che gli desse aiuto per morire da forte, quando al solito vide brillare la stella consolatrice sulla testa della immagine santa. La messa era giunta al Pater, e affinché il condannato non avesse l’assoluzione dei peccati fu condotto via, venne bendato e spinto nel trabocchetto, che fu richiuso sulla testa dell’infelice. Ma questi, invece di sentirsi lacerare le carni da centinaia di lame aguzze, conficcate torno torno a quel pozzo profondo, e precipitare giù, si trovò mollemente adagiato sopra un mucchio di fieno odoroso. In quel momento udì delle grida al disopra della sua testa, il trabocchetto fu riaperto e la bella contessa Matelda si affacciò a quell’apertura, gridando: - Piero! Piero! Il giovinetto rispose con voce allegra, che era vivo e sano. Allora, per ordine di Matelda, furono calate delle funi. Piero tornò sul prato, e con sua grande meraviglia vide due lunghe trecce di capelli morbidi scendere sulle spalle alla bella castellana. La stella consolatrice splendeva più che mai nel cielo imbiancato dall’alba. Al fianco di Matelda era anche il Conte. - Sei protetto dal Cielo, - disse questi vedendolo risalire dal trabocchetto, - e non puoi essere un traditore. Chiedi quello che vuoi. - Domando, signore, - rispose Piero, - che mi rendiate la spada e lo scudo, e quando li avrò consegnati a messer Forese, vi prometto di tornare qui e fabbricarvi due oggetti perfettamente simili. - Va’ e torna presto. Piero non ebbe bisogno di nascondere le armi nel fieno. Salì a cavallo, e, con un salvacondotto del conte di Porciano, passò immune in mezzo ai soldati, che si riunivano in ogni parte del Casentino, chiamati dal signore. La sera stessa il giovinetto incontrava i fiorentini verso Montemignaio e consegnava a messer Forese la spada e lo scudo. Di ritorno a Porciano scrisse al padre di raggiungerlo, e fra tutti e due lavorarono alla spada e allo scudo del vecchio Conte e intanto rifecero maglie, forbirono pugnali e riaccomodarono tutte le armi che dovevano servire alla difesa del castello. Il vecchio Conte prese tanto affetto per Piero, e Matelda lo ascoltava così volentieri quand’egli cantava sul liuto la canzone delle sue avventure, che non sapeva più staccarsi da lui. Anzi, il vecchio ottenne per Piero, dall’Imperatore, il titolo di Conte, e l’investitura di Porciano, che gli trasmise alla sua morte. Matelda lo accettò per isposo, e volle che allo stemma dei Guidi, fosse aggiunta una stella. Ora, del palazzo di Porciano rimangono le torri e la porta, ma che il trabocchetto vi fosse, è cosa incerta.

- E ora che la novella è finita, io vado a letto, perché sono stanca, - disse la Regina. Quella sera Cecco non accompagnò a casa la Vezzosa, perché doveva andar col baroccio a Firenze; ma ella dopo poco che era a letto udì cantare da lontano:

      A sentir la mia voce io spero, o bella,
      Io spero ben che t’abbia a rallegrare:
      Mando invece di me la mia favella,
      Perché gli é tardi e mi conviene andare;
      Non t’adirar perché non sia venuto,
      S’io non posso venir mando un saluto;
      S’io non posso venir mando un sospiro,
      Ti do la buona notte e mi ritiro.