Le novelle della nonna/Il Romito dell'Alpe di Catenaia
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- Il Romito dell’Alpe di Catenaia
Quella domenica la Vezzosa giunse al podere dei Marcucci, prima di ogni altro, insieme con due sorelline poco minori a lei. Nella casa non erano stati ancora accesi i lumi; la vecchia Regina diceva il rosario al suo solito posto, e le nuore erano andate in chiesa, alla benedizione, mentre gli uomini avevano preso il fucile per tirare a qualche tordo. Le sorelline di Vezzosa furon trattenute sull’aia da Annina, che dirigeva i giuochi dei fratelli e dei cugini. Era una serata mite e pareva impossibile che si fosse nel cuore dell’inverno, in mezzo ai monti, tanto l’aria era temperata. - Buona sera, - disse Vezzosa sottovoce entrando in cucina. Nessuno le rispose, perché la vecchia era un po’ sorda e, nel dire il rosario, s’era appisolata; così Vezzosa, non vedendo nessuno, si sedé sotto una finestra, e, preso un libro che era posato sul davanzale, incominciò a leggere. Era il volume Le mie prigioni, di Silvio Pellico: un volumetto logoro, tutto pieno di segni, che dicevano come fosse stato letto e riletto dal suo primo proprietario. Vezzosa leggeva bene e sapeva anche scrivere una lettera, perché era stata a scuola, ma le sue letture erano state scarsissime ed il nome del prigioniero dello Spielberg le riesciva del tutto nuovo. Però, fin dalle prime pagine, la lettura di quel libro la commosse tanto da farle dimenticare dov’era e da impedirle di udire che la stanza andava man mano empiendosi. Si scosse soltanto quando sentì la voce di Cecco, che le diceva: - Vezzosa, la mamma fra poco incomincia la novella. - Scusate, - rispose la ragazza chiudendo il libro. - Scusate, Cecco, se mi son messa a leggere. Avevo incominciato così per far qualche cosa e non disturbare la Regina, ma che volete! Son rimasta attaccata a questo racconto come gli uccelli alla pania. Cecco, mentre l’ascoltava esprimere così ingenuamente la sua ammirazione per quel libro che ha fatto piangere tante anime gentili, la guardava fissa. Allorché ella, accorgendosi di essere osservata, s’interruppe e abbassò gli occhi, Cecco le disse: - Ma che cosa avete fatto, Vezzosa? Da domenica non vi riconosco più? - Nulla, - rispose ella arrossendo, - mi son vestita come si costuma da noi. E per non sentire quel che le avrebbe detto Cecco, vergognandosi di aver seguìto il gusto di lui, andò verso il camino e si imbrancò con le altre donne, che già pigliavan posto per ascoltare la novella. Anche Cecco vi si avvicinò, e, furtivamente, guardava la Vezzosa, che era vestita semplicemente di bordatino, col giacchetto di flanella rossa e nera a quadri, la pezzuola incrociata sul petto, pettinata liscia liscia; gli pareva bella davvero, bella come deve essere una contadina che non ha ghiribizzi per la testa, e sa che la sua missione consiste nel lavorare e nel farsi amare dai suoi, più per la sua bontà che per altro. Vezzosa sentiva quello sguardo persistente di Cecco, ed era tanto felice che appena udiva quel che diceva la Regina, la quale già aveva preso a narrare la Novella del Romito.
- Sono anni e anni, - diceva la vecchia, - che su in vetta all’Alpe di Catenaia, in quel luogo detto ora l’Eremo di Casella, comparve un giovine cavaliere, tutto vestito a lutto, con un viso magro e pallido che metteva compassione a vederlo. Questo cavaliere aveva seco un bel cavallo morello, ma non era seguìto da nessun servo, come solevano condursene dietro i signori. Era giunto lassù dalla Valle Tiberina, e invece di cercare un alloggio nel castello del Cerbone, o a Chitignano, o a Chiusi, s’era fatto con le sue bianche mani una capanna di frasche in mezzo al prato, e costì si riparava insieme col suo cavallo, al quale voleva più bene che alle pupille degli occhi. Dopo pochi giorni che era lassù, aveva spogliati gli abiti signorili e s’era vestito di saio, alla moda de’ contadini; e poi, a poco a poco, portando da sé le pietre che trovava staccate dai massi, la rena che andava a prendere nel letto della Rassina, e la calce, s’era costruito una cappellina e dietro a quella una stanzetta e una stalla. Il giovane era taciturno, ma non selvatico, e quando scendeva a Chitignano per comprare il pane e le poche cose che bastavano al suo nutrimento, parlava affabilmente con la gente del paese, la quale, sapendo che dormiva sulla nuda terra, con una pietra per guanciale, e che pregava quasi tutto il giorno, incominciò a chiamarlo il Romito, e a tenerlo in grande venerazione. Le donne dei vicini paesi, quando avevano qualche bambino ammalato ricorrevano al Romito, ed egli dava dei semplici, còlti con le sue mani, ma soprattutto le rimandava consolate, assicurandole che avrebbe pregato per i loro infermi, e scendeva dall’Eremo per visitarli. Se i bambini guarivano, egli si mostrava così contento come se fossero stati figli suoi; se morivano, li componeva nella bara, e aveva tali parole di conforto per le madri, parlava loro di una prossima riunione in Paradiso con i loro figli, convertiti in angioli bianchi e alati, che le donne, invece di disperarsi, aprivano l’anima alla speranza di esser protette da quegli spiriti eletti alla gloria celeste, e il loro dolore era meno straziante. - È un santo! - diceva la gente, vedendolo passare calmo e sorridente, e correva a baciargli il rozzo saio, che pareva un manto reale, tanta era la dignità con cui egli lo portava. Se qualcuno lo ringraziava per aver guarito un infermo, il Romito rispondeva: - Sono io che debbo ringraziare questa buona popolazione che mi ha concesso il passare il resto dei miei giorni in un luogo ameno, nella solitudine dei monti, in mezzo ai fiori. Oh! se sapeste come sono calmo dopo tante sventure! Anche se il Romito non avesse fatto allusione a un passato doloroso, tutti avrebbero capito che egli aveva molto sofferto e che sotto il rozzo saio si nascondeva un signore di quelli che sono assuefatti a comandare e a vedersi ubbiditi e riveriti. Intanto passavano gli anni, e il Romito, che quando giunse al prato di Casella era giovane, s’era già fatto tutto canuto. La barba gli scendeva sul petto e i capelli gli toccavano quasi la cintura. Del resto si manteneva sempre buono e benefico verso tutti i miseri, ed essendogli morto il cavallo, si recava a piedi anche nel crudo inverno a molte miglia di distanza per visitare gli infermi. Certo il Romito non era ricco, ma se vedeva dei vecchi, dei malati e dei bambini, che avessero bisogno di un’elemosina, li soccorreva di danaro più largamente di quel che non facesse lo stesso Farinata, signore del castello di Chitignano e parente di quell’arcivescovo Ubertini, che, come vi ho narrato, fu ucciso a Campaldino. Un giorno quando il Romito era già vecchio, una misera vedova salì al prato di Casella. Essa era poverissima, e domandò per grazia al Romito che volesse scendere alla sua casa a visitare un suo figliuolo che era il sostegno di lei e degli altri figli. La donna narrò piangendo che questo giovane si struggeva come una candela, e nessuno riusciva a guarirlo né a capire che cosa avesse. - Pregate per vostro figlio; io pure implorerò l’aiuto del Cielo, e domani verrò da voi, - disse il Romito ponendo in mano una elemosina alla povera madre. Pregò infatti il vecchio tutta la notte, prostrato sulle pietre della cappellina, dinanzi a una croce formata da due rami di faggio, e la sua preghiera non era fatta con le labbra, ma col cuore. A giorno, benché la neve cadesse a turbine, il Romito si partì dal prato, scalzo, col capo scoperto come se andasse in pellegrinaggio alla Verna; e mentre scendeva il monte, pregava per l’afflitta vedova. Nel tugurio ov’ella abitava, il santo vecchio fu accolto con profonda venerazione. La donna gli andò incontro baciandogli il saio, le figlie si inginocchiarono chiedendogli che le benedisse, e il malato, non potendosi muovere dalla seggiola su cui stava seduto, stese verso di lui le mani, mentre dagli occhi gli sgorgavano lacrime abbondanti. Il Romito si avvicinò al giovane Francesco e lo interrogò dolcemente per sapere da quando gli era incominciato il male, e che cosa soffriva. Seppe che s’era cominciato a sentire sfinito dopo una grande scalmana, ma per non affliggere sua madre aveva nascosto il male e non aveva detto nulla, finché proprio gli era rimasto un fil di forza. Ora non ne poteva più, e se non fosse stato peccato invocar la morte, perché la sua famiglia, sparito lui, sarebbe rimasta senza alcuna risorsa, avrebbe pregato il Signore di richiamarlo a sé, perché soffriva tanto da considerare la morte come un sollievo. Il vecchio Romito lo esortò a non perdersi d’animo ed a sperare nella misericordia divina, e, sempre scalzo, orando, risalì al prato di Casella. I semplici, che il giorno dopo egli portò al malato, non lo fecero punto riavere; anzi, lo stomaco, indebolito dal male, neppure poté reggerli, e il Romito, che aveva tanto sperato in quelli, si scoraggiò, senza però mostrare né a Francesco né alla madre che dubitava dell’efficacia di quel rimedio. Ritornato a capo chino alla sua cappelletta, il Romito si prostrò sulla nuda terra, e così rimase un giorno e una notte senza prender cibo né bevanda, pregando di continuo per l’afflitta vedova e il suo figliuolo. Dalla porta mal connessa entrava il vento gelato dell’Alpe di Catenaia, e faceva intirizzire il vecchio, il quale offriva a Dio tutti quei tormenti in cambio della grazia che gli chiedeva. A un certo punto della notte il freddo, lo sfinimento e la stanchezza vinsero il Romito, il quale cadde in terra addormentato. Mentre dormiva, gli parve di essere in quella stessa cappelletta inginocchiato, e di vedere a un tratto aprirsi il tetto e scendere dall’alto un angiolo bianco, avvolto in un gran chiarore. Quell’angiolo scendeva fino a lui e gli diceva: - Poiché hai avuto fede, sarai esaudito: il Signore mi manda a te per indicarti l’acqua che deve sanare il giovane infermo. Seguimi! Il Romito vide l’angiolo bianco uscire dal piccolo oratorio e gli parve di seguirlo per la scesa che conduce a Chitignano. Il messaggiero di Dio oltrepassò la casa della vedova e ristette dinanzi a un monticello che batté tre volte con la sua bacchetta, e poi, dicendo al vecchio: «Ave», s’innalzò nella notte buia, circondato di luce, e sparì su, dove brillano le stelle. Nel destarsi, il Romito rammentava così bene il sogno, che gli pareva di aver veduto davvero l’angiolo e di averlo seguito fino al di là del paese. Così fu meravigliato di trovarsi nella cappellina, illuminata da una piccola lampada di ferro, che il vento faceva oscillare. Ma presto capì che il sogno gli veniva dal Cielo, e dopo di aver ringraziato, piangendo, il Signore, di quella grazia, scese senza neppur prendere un poco di cibo, al luogo dove lo aveva condotto l’angiolo in sogno. Pareva che il Romito volasse, tanto camminava spedito sulla neve gelata, e l’ardore che provava lo rendeva insensibile al freddo. In breve giunse al monticello dove l’angiolo s’era fermato, e rimase meravigliato vedendo che la neve, che copriva tutta la terra intorno, s’era liquefatta sul monticello, e che dalla vetta di esso scaturiva una fonte. Il vecchio cadde in ginocchio e ringraziò Iddio di quella nuova grazia; poi andò alla casa di quella vedova e, fattosi dare un boccale, lo empì dell’acqua della nuova fonte e ne fece bevere al malato. Lo stomaco indebolito di Francesco resse quell’acqua tepida, e il poveretto si sentì da quella ristorato. - Sperate, - diceva il Romito, senza parlar del sogno e della fonte che era scaturita per miracolo dalla terra. Francesco bevve nella giornata tutto il boccale d’acqua, e la mattina dopo, quando il Romito andò a portargliene un fiasco, non pareva più lo stesso, e poté camminare incontro al santo vecchio e chinarsi per baciargli il saio. A farla breve, in capo a una settimana Francesco era guarito, e la voce del miracolo si sparse in tutto il paese. - Ringraziate Iddio, - diceva il vecchio umilmente. Egli aveva provato la virtù di quell’acqua sopra molti bambini ridotti al lumicino; sopra ragazze consunte dalla tosse; su vecchi infermi, e tutti miglioravano e guarivano in capo a un certo tempo. Allora egli, riconoscendo che Iddio si era servito di lui per dare quella fonte di salute e di guadagno al povero paese di Chitignano, e sentendo vicina la sua fine, andò un giorno dal conte Orlando, che era il padrone del castello, e gli espose il miracolo, pregandolo di far nota la virtù dell’acqua di Chitignano. Il Conte, e specialmente la contessa Sofia, che era dei Guidi di Romena, promisero al vecchio tutto ciò che egli desiderava e lo invitarono anzi a chiedere loro un favore. - Io non ho bisogno di nulla, signori; - rispose il Romito, - ma chiedo per altri che ha non bisogno, ma necessità; e, come sono stato esaudito dal Signore, spero di essere esaudito da voi. La madre del giovane risanato per virtù dell’acqua miracolosa, è molto povera; io vi supplico di concedere a lei la proprietà della sorgente, affinché ella, vendendo l’acqua agli infermi, possa ricavarne un utile. - La tua domanda è esaudita, - rispose il conte Orlando, - e la sorgente si chiamerà la Buca del Tesoro. Questo nome che io le impongo significa che desidero che essa sia un tesoro per la famiglia cui appartiene. Il Conte fece chiamare il notaio, e venne immediatamente rogato un atto col quale riconosceva proprietà della vedova Belli e dei discendenti di lei, la sorgente miracolosa. Il Conte e la Contessa tennero parola e scrissero lettere ai loro parenti per informarli che a Chitignano si era trovata un’acqua che guariva molte malattie, e non dimenticarono di dire da chi e come era stata trovata. Peraltro, anche se non avessero scritto tante lettere, la notizia si sarebbe sparsa lo stesso, perché non c’era chitignanese che non parlasse del miracolo con quanti di Chiusi, di Rassina e anche di più lontano s’incontrava, e incominciò una processione di malati dal Romito. Gli storpiati, quelli che avevano piaghe, i malati inguaribili, si facevano portare al prato di Casella, se non ci potevano andare con le loro gambe; e in tutto il Casentino, e anche nella Valle Tiberina e in Val di Chiana, non si parlava d’altro che dei miracoli del Romito e della virtù dell’acqua di Chitignano. Ormai il bel prato coperto di fiori, nel quale il Romito aveva stabilito la sua dimora per vivere nella solitudine e rivolgere l’occhio e la mente a Dio, era ogni giorno pieno di ammalati, di gente che implorava soccorso ai propri mali. Il vecchio era accasciato dalla fatica di visitare gl’infermi, ma non si lagnava mai. Sempre sereno, sempre affettuoso, consolava i sofferenti con la parola, se non poteva consolarli con la guarigione, e pregava sempre per loro. Intanto la vedova e la sua famiglia non soffrivano più le privazioni. Il conte Orlando aveva fatto bandire ovunque che chi voleva bere l’acqua della Buca del Tesoro, dovesse pagare un tanto, e i danari e anche i bei fiorini d’oro entravano in casa Belli ed eran convertiti in campi e in vigne. Anche la cappellina del Romito si ornava ogni giorno. Francesco stesso aveva fatto fare per quella, da un abile pittore, un quadro che rappresentava il sogno del Romito; altri vi avevano recato voti d’argento, lampade di finissimo lavoro, vasi e candelabri. Le donne che avevano riacquistata la salute, vi portavano i loro oggetti preziosi e ne adornavano una immagine di legno della Vergine, che era stata collocata sopra un altare. Il Romito lasciava che i doni affluissero alla cappellina, ma egli pregava sempre prostrato sulla nuda terra, davanti alla rozza croce costruita dalle sue mani e che egli ornava di fiori alpestri l’estate, e di rami d’abete l’inverno. Le persone cui aveva resa la salute, vedendolo ogni giorno più macilento e più curvo, lo supplicavano di accettare qualche dono che gli permettesse di ripararsi meglio dalle intemperie e di riposare più comodamente; ma egli rifiutava tutto quello che gli era offerto, e rispondeva sempre: - La mia vita avrà una durata limitatissima; quello che ambisco è una cosa tanto elevata che per ottenerla posso ben sottopormi alle privazioni. E mentre così parlava i suoi occhi fissavano il Cielo, mèta dei desiderî e delle aspirazioni di quell’anima santa. Era Pasqua, e la contessa di Chitignano, volendo onorare il vecchio tanto benemerito del paese, aveva invitato tutti i suoi terrazzani a una processione all’Eremo di Casella. Il popolo accorse anche da altri paesi all’appello della Contessa, la quale, salita su di una cavalla bianca e seguìta da paggi e da scudieri, si avviò alla testa del lunghissimo corteo, che camminava cantando preghiere. La Contessa portava alla cappella un ricco stendardo trapunto con le sue mani, e quelli che la seguivano recavano doni, voti e fiori. Quando la testa della processione sboccò sul viale, si fermò, e la contessa Sofia dette un grido. Disteso in terra in mezzo alle ginestre, alle margherite, ai ranuncoli e all’erbe aromatiche del prato, stava il vecchio, col volto scarno come quello di un cadavere, e gli occhi, che avevano tanto pianto, vòlti verso il cielo. La castellana scese e, avvicinatasi al vecchio, gli baciò la mano, che già pareva di cera, e gli disse: - Santo vecchio, il popolo di questi luoghi che tu hai tanto beneficato, è venuto a renderti omaggio e a pregarti di una benedizione. Vedi, eccolo che giunge. Il Romito alzò con fatica il capo, e appoggiando il gomito sulla terra, prese a dire: - Madonna, è il Signore che vi manda e manda questo popolo, ed è questo un nuovo segno della Sua grazia, poiché, sentendomi vicino a morte, io lo pregavo che mi concedesse di fare in pubblico la confessione de’ miei peccati. Volete benignamente ascoltarla, madonna? Io, alleggerito da questo peso, morirò contento. - Confessati pure, santo vecchio, - rispose la signora. E a un cenno di lei tutto il popolo s’inginocchiò sul prato con gli occhi fissi sul vecchio e gli orecchi aperti per raccogliere il debole suono che gli usciva di bocca. Dopo essersi fatto il segno della croce, il Romito prese a dire: - Non vi rivelerò il nome della mia famiglia, perché non desidero pervenga ai miei discendenti notizia di me. Da molti e molti anni, io sono morto per essi, e le maledizioni che potrebbero mandarmi e che ho meritate, forse mi offenderebbero anche nella tomba. - Dovete sapere che io nacqui nell’isola di Sicilia, da genitori nobilissimi e potenti. Mio padre perì, giovane ancora, in guerra, e il fratello primogenito ed io rimanemmo affidati alle cure di nostra madre. Crescendo e udendo ripetere che le baronie di mio padre sarebbero tutte passate nelle mani del fratello mio, io fui preso per costui da una invidia tremenda, accresciuta, forse, da’ malvagi consiglieri, i quali mi dicevano che io, più bello, più ardito, più desto di mente e più agile di corpo, avrei maggiormente figurato fra i signori della Corte del Re nostro, e avrei saputo difendere, meglio che Roberto, i feudi paterni. Ero ancora un fanciullo, e già l’ambizione e il desiderio di dominio mi torturavano a segno tale, da far tacere in me ogni affetto per colui che io consideravo come l’usurpatore dell’eredità che mi spettava. Intanto Roberto aveva raggiunto la maggiore età, ed aveva avuto dal Re l’investitura di tutti i feudi della mia famiglia. Ritornato dalla Corte baldanzoso e superbo, ordinò una giostra per misurarsi con i baroni più prodi dell’isola. Io ero da lui considerato quanto uno straccio, e, a tavola, a caccia, ovunque, ero sempre collocato nel posto peggiore. Di questo mi affliggevo molto, ma non ne facevo parola con nostra madre, la quale, abbandonato il governo dei feudi a Roberto, passava la vita ritirata nelle sue stanze, in mezzo alle donne, occupata in lavori d’ago e in preghiere. - Giunse il giorno malaugurato della giostra, e quei malvagi che mi avevano sempre incitato contro il fratel mio, presero a dirmi che non dovevo lasciarmi sfuggire quella occasione e dimostrargli che lo vincevo in prodezza, in valore, e che più di lui ero degno di portare il titolo di duca. - Mi guardi il Cielo di accusare loro soli del mio peccato; se non avessero trovato in me un uditore compiacente, se la perfidia dell’anima mia non fosse stata loro palese, non avrebbero osato parlarmi in cotal maniera. Stava a me a non prestare ascolto a quelle parole malvage, e purtroppo non seppi né volli farlo! - Da tutte le parti della Sicilia i baroni avevan risposto all’invito del duca Roberto, e il prato dinanzi al nostro fortissimo castello, che cinge tutta la cima di un alto e aspro monte, era pieno di cavalieri pronti a scendere nella lizza, coperti di ricche armature, e montati sopra corsieri impazienti. - In un palco, eretto sul fondo del prato, stava mia madre, e aveva a fianco la fidanzata di Roberto, la contessina Costanza, bella e riccamente adorna di monili gemmati, poiché le nozze si dovevano celebrare il giorno successivo al torneo. - Roberto scese in campo, e io, nel vederlo, mi sentii ribollire il sangue, perché le trombe lo salutarono e i baroni abbassarono la spada in segno d’omaggio. - Corse egli contro un barone e lo scavalcò, e mentre si formava di nuovo il campo, mi presento io con la visiera calata, vestito di un’armatura senza stemma, e cavalcando un cavallo preso a prestito da un signorotto, che era fra i più acerbi nemici del duca Roberto. Mi si domanda il mio nome; io altero la voce e rispondo che non voglio rivelarlo, ma desidero misurarmi col Duca. Questi accetta l’inusitato invito; corriamo, io lo incalzo, lo assalgo come un forsennato per aver la soddisfazione di vederlo dinanzi a me per terra, e ci riesco. Ma che vanto doloroso! - Roberto, nel cadere, era rimasto con un piede nella staffa, e il cavallo, spaventato, s’era dato a correre trascinando seco il cavaliere. - Accorsero i valletti a fermarlo; i baroni circondarono il duca, ma quando gli ebbero sciolto il cimiero e slacciata la maglia, il suo cuore non batteva più. Vidi mia madre cadere svenuta, la bella contessina Costanza piangere, ed io, preso dal rimorso, approfittando di quel momento di confusione, mi diedi a fuggire giù per il monte spronando il cavallo a corsa precipitosa, e non mi sarei mai fermato se l’animale, a un certo punto, non avesse rifiutato di andar oltre. Ormai il rimorso mi perseguitava e non avevo più pace. - Entrai in una casa di contadini e domandai ricovero per la notte. Mi fu concesso in una capanna; ma appena mi fui addormentato, così vestito e armato come ero, sopra un mucchio di fieno accanto al mio cavallo, cui non avevo tolta la sella, venni destato da un rumore di voci. Aprii gli occhi e vidi intorno a me molta gente in atto minaccioso, che mi gridava: - «Ecco l’uccisore di Roberto! Ecco il fratricida!» - Balzai in sella, mi feci largo con la spada e corsi a precipizio nella campagna, inseguìto da quelle grida che mi giungevano al cuore come una maledizione. - Giunto a Messina, volli imbarcarmi sopra una nave che andava a Reggio, per fuggire l’isola, sperando di fuggire il rimorso del mio delitto. - A Messina incontrai quei malvagi che mi avevano incitato nell’odio contro il fratel mio, i quali ad ogni costo mi volevano ricondurre al nostro castello dicendomi che io non dovevo soverchiamente affliggermi, poiché non avevo ucciso mio fratello. Se era morto, lo doveva alla sua imperizia nel maneggiar l’armi e nello stare in sella, e che non era giusto che, per una fisima, io rinunziassi a ereditare i titoli e le baronie che mi spettavano. - Chiusi gli orecchi a quei suggerimenti e volli andarmene ramingo per il mondo a espiare il mio peccato. M’imbarcai infatti, e, giunto in Calabria, mi diedi a difendere i deboli contro i forti, gli oppressi contro gli oppressori. Ma non ero stato un giorno in paese, che, per mia punizione, non venisse scoperto l’essere mio, e non fossi additato come l’uccisore di mio fratello. - Così pellegrinai fino a Roma, cibandomi scarsamente, pregando, combattendo per i miseri. Quivi, in San Giovanni Laterano, feci la confessione generale dei miei peccati, e il buon vescovo che mi assolse, mi disse di sperare nella misericordia divina e di far vita da eremita. - Ripresi quindi il pellegrinaggio cercando un luogo alpestre e solitario, vicino a un paese dove potessi giovare in qualche modo al prossimo mio, e mi stabilii su questo prato. Or sono quarant’anni che vi dimoro, ed è quassù che ho avuto la suprema consolazione di sapere che il mio peccato era perdonato. Me ne sono accorto vedendo che il Signore si è servito di me per beneficarvi, ed ha esaudito le mie preghiere. - Ora sono presso alla morte, e questa confessione spero vi sarà d’esempio a non cedere alle passioni, e a non dare ascolto ai cattivi suggerimenti. Il vecchio ricadde estenuato su quel tappeto di erbe aromatiche e di fiori, e il popolo si affollò intorno a lui, piangente, per baciargli la mano e il saio. La contessa Sofia fece cenno che l’agonia del Romito non fosse turbata, e ordinò alla folla di pregare. E mentre tutti rivolgevano a Dio preci per il morente, l’anima di lui si sprigionava dal corpo e, accompagnata da quel coro unanime, saliva lentamente al cielo. Allora avvenne un fatto non mai accaduto. Si alzò una brezza dolcissima e in un momento si videro turbinare nell’aria migliaia e migliaia di fiori, che andarono a coprire il corpo del santo Romito, mentre su nel cielo tante e tante voci dolcissime cantavano: Osanna! Quando la contessa Sofia, a capo della processione, tornò piangendo in paese, vide che non era più la sola fonte detta Buca del Tesoro che gettava l’acqua salutare, ma che dal terreno sgorgavano in molti punti delle fonti della stessa acqua. Da quel tempo in poi Chitignano salì in rinomanza per le sue sorgenti, e quell’acqua ha sanato più malati che non ci sono stelle in cielo e pesci in mare. La Regina tacque e Maso disse: - Mamma, avete fatto bene a raccontar questa novella. Non si sa mai se nell’anima di qualcuno dei bambini che vi ha ascoltata non vi sia la pianta velenosa dell’invidia. Quest’esempio basterà loro ad estirparla, perché quel Romito, prima di giungere al prato di Casella, deve aver patito quanto Caino. Noi, se Dio vuole, - aggiunse guardando sorridente i fratelli, - l’invidia non abbiamo mai saputo che faccia avesse, e ci siam voluti bene davvero. - E spero che ve ne vorrete anche quando io sarò sottoterra, - disse la Regina. - Fratelli, non è un miracolo che vi vogliate bene, - saltò su a dire la Carola. - Ma che non è una cosa rara di veder quattro cognate che van d’accordo più che sorelle? Scommetto che se giraste mezzo mondo, non ne trovereste altre quattro come noi! E ora tocca a te, Cecco, a mettere in casa una donna buona, e che sia del nostro medesimo sentimento. Moglie la devi pigliare, e di gusto tuo; ma prima di prenderla guarda che sia davvero una donna come si deve. Cecco sorrise e non disse né si né no; ma siccome quel discorso lo noiava, rispose alla Carola che ne lasciava a lei la scelta. Durante questo discorso, Vezzosa s’era tirata da parte e adagio adagio aveva preso a leggere Le mie prigioni. Cecco le si avvicinò e le disse: - Pigliate pure codesto libro, poiché non è di quelli che mettono i grilli in testa; anzi, è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere. - Grazie, Cecco, - rispose la ragazza, e lo nascose sotto il grembiale. Quella sera, nel percorrere il breve tragitto che separava il podere dei Marcucci da quello del Vezzosi, padre della bella ragazza, i due giovani parlarono soltanto della bontà d’animo che traspariva dal libro del Pellico fin dalle prime pagine. Peraltro, Cecco, nel lasciare la Vezzosa, le disse: - A domenica, non è vero? - A domenica, - rispos’ella.