Le mie prigioni/Cap XXXII
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Capo XXXII.
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Nulla è durevole quaggiù! La Zanze ammalò. Ne’ primi giorni della sua malattia, veniva a vedermi lagnandosi di grandi dolori di capo. Piangeva, e non mi spiegava il motivo del suo pianto. Solo balbettò qualche lagnanza contro l’amante. — È uno scellerato, diceva ella, ma Dio gli perdoni! —
Per quanto io la pregassi di sfogare, come soleva, il suo cuore, non potei sapere ciò che a tal segno l’addolorasse.
— Tornerò domattina, mi disse una sera. — Ma il dì seguente, il caffè mi fu portato da sua madre, gli altri giorni da’ secondini, e la Zanze era gravemente inferma.
I secondini mi dicean cose ambigue dell’amore di quella ragazza, le quali mi faceano drizzare i capelli. Una seduzione?
Ma forse erano calunnie. Confesso che vi prestai fede, e fui conturbatissimo di tanta sventura. Mi giova tuttavia sperare che mentissero.
Dopo più d’un mese di malattia, la poveretta fu condotta in campagna, e non la vidi più.
È indicibile quant’io gemessi di questa perdita. Oh, come la mia solitudine divenne più orrenda! Oh come cento volte più amaro della sua lontananza erami il pensiero che quella buona creatura fosse infelice! Ella aveami tanto colla sua dolce compassione consolato nelle mie miserie; e la mia compassione era sterile per lei! Ma certo sarà stata persuasa ch’io la piangeva; ch’io avrei fatto non lievi sacrifizi per recarle, se fosse stato possibile, qualche conforto; ch’io non cesserei mai di benedirla e di far voti per la sua felicità!
A’ tempi della Zanze, le sue visite, benchè pur sempre troppo brevi, rompendo amabilmente la monotonia del mio perpetuo meditare e studiare in silenzio, intessendo alle mie idee altre idee, eccitandomi qualche affetto soave, abbellivano veramente la mia avversità, e mi doppiavano la vita.
Dopo, tornò la prigione ad essere per me una tomba. Fui per molti giorni oppresso di mestizia, a segno di non trovar più nemmeno alcun piacere nello scrivere. La mia mestizia era per altro tranquilla, in paragone delle smanie ch’io aveva per l’addietro provate. Voleva ciò dire ch’io fossi già più addimesticato coll’infortunio? più filosofo? più cristiano? ovvero solamente che quel soffocante calore della mia stanza valesse a prostrare persino le forze del mio dolore? Ah! non le forze del dolore! Mi sovviene ch’io lo sentiva potentemente nel fondo dell’anima, — e forse più potentemente, perchè io non avea voglia d’espanderlo gridando e agitandomi.
Certo il lungo tirocinio m’avea già fatto più capace di patire nuove afflizioni, rassegnandomi alla volontà di Dio. Io m’era sì spesso detto, essere viltà il lagnarsi, che finalmente sapea contenere le lagnanze vicine a prorompere, e vergognava che pur fossero vicine a prorompere.
L’esercizio di scrivere i miei pensieri avea contribuito a rinforzarmi l’animo, a disingannarmi delle vanità, a ridurre la più parte de’ ragionamenti a queste conclusioni:
— V’è un Dio: dunque infallibile giustizia: dunque tutto ciò che avviene è ordinato ad ottimo fine: dunque il patire dell’uomo sulla terra è pel bene dell’uomo.
Anche la conoscenza della Zanze m’era stata benefica: m’avea raddolcito l’indole. Il suo soave applauso erami stato impulso a non ismentire per qualche mese il dovere ch’io sentiva incombere ad ogni uomo d’essere superiore alla fortuna, e quindi paziente. E qualche mese di costanza mi piegò alla rassegnazione.
La Zanze mi vide due sole volte andare in collera. Una fu quella che già notai, pel cattivo caffè; l’altra fu nel caso seguente:
Ogni due o tre settimane, m’era portata dal custode una lettera della mia famiglia; lettera passata prima per le mani della Commissione, e rigorosamente mutilata con cassature di nerissimo inchiostro. Un giorno accadde che, invece di cassarmi solo alcune frasi, tirarono l’orribile riga su tutta quanta la lettera, eccettuate le parole: «Carissimo Silvio» che stavano a principio, e il saluto ch’era in fine: «T’abbracciamo tutti di cuore».
Fui così arrabbiato di ciò, che alla presenza della Zanze proruppi in urla, e maledissi non so chi. La povera fanciulla mi compatì, ma nello stesso tempo mi sgridò d’incoerenza a’ miei principii. Vidi ch’ella aveva ragione, e non maledissi più alcuno.