Le mie prigioni/Cap XLV
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Capo XLV.
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Simile stato era una vera malattia; non so se debba dire, una specie di sonnambulismo. Era senza dubbio effetto d’una grande stanchezza, operata dal pensare e dal vegliare.
Andò più oltre. Le mie notti divennero costantemente insonni e per lo più febbrili. Indarno cessai di prendere caffè la sera; l’insonnia era la stessa.
Ma pareva che in me fossero due uomini, uno che voleva sempre scriver lettere, e l’altro che voleva far altro. Ebbene, diceva io, transigiamo, scrivi pur lettere, ma scrivile in tedesco; così impareremo quella lingua.
Quindi in poi scriveva tutto in un cattivo tedesco. Per tal modo almeno feci qualche progresso in quello studio.
Il mattino, dopo lunga veglia, il cervello spossato cadeva in qualche sopore. Allora sognava, o piuttosto delirava, di vedere il padre, la madre o altro mio caro disperarsi sul mio destino. Udiva di loro i più miserandi singhiozzi, e tosto mi destava singhiozzando e spaventato.
Talvolta in que’ brevissimi sogni sembravami d’udire la madre consolare gli altri, entrando con essi nel mio carcere, e volgermi le più sante parole sul dovere della rassegnazione; e quand’io più mi rallegrava del suo coraggio e del coraggio degli altri, ella prorompeva improvvisamente in lagrime, e tutti piangevano. Niuno può dire quali strazi fossero allora quelli all’anima mia.
Per uscire di tanta miseria, provai di non andare più affatto a letto. Teneva acceso il lume l’intera notte, e stava al tavolino a leggere e scrivere. Ma che? Veniva il momento ch’io leggeva, destissimo, ma senza capir nulla, e che assolutamente la testa più non mi reggeva a comporre pensieri. Allora io copiava qualche cosa, ma copiava ruminando tutt’altro che ciò ch’io scriveva, ruminando le mie afflizioni.
Eppure, s’io andava a letto era peggio. Niuna posizione m’era tollerabile, giacendo: m’agitava convulso, e conveniva alzarmi. Ovvero se alquanto dormiva, que’ disperanti sogni mi faceano più male del vegliare.
Le mie preci erano aride, e nondimeno io le ripeteva sovente; non con lungo orare di parole, ma invocando Dio! Dio unito all’uomo ed esperto degli umani dolori!
In quelle orrende notti, l’immaginativa mi s’esaltava talora in guisa, che pareami, sebbene svegliato, or d’udir gemiti nel mio carcere, or d’udir risa soffocate. Dall’infanzia in poi, non era mai stato credulo a streghe e folletti, ed or quelle risa e que’ gemiti mi atterrivano, e non sapea come spiegar ciò, ed era costretto a dubitare s’io non fossi ludibrio d’incognite maligne potenze.
Più volte presi tremando il lume, e gridai se v’era alcuno sotto il letto che mi beffasse. Più volte mi venne il dubbio che m’avessero tolto dalla prima stanza e trasportato in questa, perchè ivi fosse qualche trabocchello, ovvero nelle pareti qualche secreta apertura, donde i miei sgherri spiassero tutto ciò ch’io faceva e si divertissero crudelmente a spaventarmi.
Stando al tavolino, or pareami che alcuno mi tirasse pel vestito, or che fosse data una spinta ad un libro, il quale cadeva a terra, or che una persona dietro a me soffiasse sul lume per ispegnerlo. Allora io balzava in piedi, guardava intorno, passeggiava con diffidenza, e chiedeva a me stesso, s’io fossi impazzato od in senno. Non sapea più che cosa, di ciò ch’io vedeva e sentiva, fosse realtà od illusione, e sclamava con angoscia:
«Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?»