Le mie prigioni/Cap XLIII
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Capo XLIII.
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Alle finestre delle prigioni laterali, conobbi sei altri detenuti per cose politiche.
Ecco dunque che, mentre io mi disponeva ad una solitudine maggiore che in passato, io mi trovo in una specie di mondo. A principio m’increbbe, sia che il lungo vivere romito avesse già fatto alquanto insocievole l’indole mia, sia che il dispiacente esito della mia conoscenza con Giuliano mi rendesse diffidente.
Nondimeno quel poco di conversazione che prendemmo a fare, parte a voce e parte a segni, parvemi in breve un beneficio, se non come stimolo ad allegrezza, almeno come divagamento. Della mia relazione con Giuliano non feci motto con alcuno. C’eravamo egli ed io dato parola d’onore, che il segreto resterebbe sepolto in noi. Se ne favello in queste carte, egli è perchè, sotto gli occhi di chiunque andassero, gli sarebbe impossibile indovinare, chi, di tanti che giacevano in quelle carceri, fosse Giuliano.
Alle nuove mentovate conoscenze di concaptivi s’aggiunse un’altra che mi fu pure dolcissima.
Dalla finestra grande io vedeva, oltre lo sporgimento di carceri che mi stava in faccia, una estensione di tetti, ornata di cammini, d’altane, di campanili, di cupole, la quale andava a perdersi colla prospettiva del mare e del cielo. Nella casa più vicina a me, ch’era un’ala del patriarcato, abitava una buona famiglia, che acquistò diritti alla mia riconoscenza mostrandomi coi suoi saluti la pietà ch’io le ispirava. Un saluto, una parola d’amore agl’infelici, è una gran carità!
Cominciò colà, da una finestra, ad alzare le sue manine verso me un ragazzetto di nove o dieci anni, e l’intesi gridare:
— Mamma, mamma, han posto qualcheduno lassù ne’ Piombi. O povero prigioniero, chi sei?
— Io sono Silvio Pellico, risposi. —
Un altro ragazzo più grandicello corse anch’egli alla finestra, e gridò:
— Tu sei Silvio Pellico?
— Sì, e voi cari fanciulli?
— Io mi chiamo Antonio S..... e mio fratello Giuseppe. —
Poi si voltava indietro, e diceva: — Che cos’altro debbo dimandargli? —
Ed una donna, che suppongo essere stata lor madre, e stava mezzo nascosta, suggeriva parole gentili a que’ cari figliuoli, ed essi le diceano, ed io ne li ringraziava colla più viva tenerezza.
Quelle conversazioni erano piccola cosa, e non bisognava abusarne per non far gridare il custode, ma ogni giorno ripetevansi con mia grande consolazione, all’alba, a mezzodì e a sera. Quando accendevano il lume, quella donna chiudeva la finestra, i fanciulli gridavano: — Buona notte, Silvio!» ed ella, fatta coraggiosa dall’oscurità, ripetea con voce commossa: — Buona notte, Silvio! coraggio! —
Quando que’ fanciulli faceano colezione o merenda, mi diceano: — Oh se potessimo darti del nostro caffè e latte! Oh se potessimo darti de’ nostri buzzolai! Il giorno che andrai in libertà sovvengati di venirci a vedere. Ti daremo dei buzzolai belli e caldi, e tanti baci!