Le mie prigioni/Cap XI
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Capo XI.
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Sulla galleria ch’era sotto la finestra, al livello medesimo della mia prigione, passavano e ripassavano da mattina a sera altri prigionieri, accompagnati da secondino; andavano agli esami, e ritornavano. Erano per lo più gente bassa. Vidi nondimeno anche qualcheduno che parea di condizione civile. Benchè non potessi gran fatto fissare gli occhi su loro, tanto era fuggevole il loro passaggio, pure attraevano la mia attenzione; tutti qual più qual meno mi commoveano. Questo triste spettacolo, a’ primi giorni, accresceva i miei dolori; ma a poco a poco mi v’assuefeci, e finì per diminuire anch’esso l’orrore della mia solitudine.
Mi passavano parimente sotto gli occhi molte donne arrestate. Da quella galleria s’andava, per un voltone, sopra un altro cortile, e là erano le carceri muliebri e l’ospedale delle sifilitiche. Un muro solo, ed assai sottile, mi dividea da una delle stanze delle donne. Spesso le poverette mi assordavano colle loro canzoni, talvolta colle loro risse. A tarda sera, quando i romori erano cessati, io le udiva conversare.
Se avessi voluto entrare in colloquio, avrei potuto. Me n’astenni, non so perchè. Per timidità? per alterezza? per prudente riguardo di non affezionarmi a donne degradate? Dovevano esservi questi motivi tutti tre. La donna, quando è ciò che debb’essere, è per me una creatura sì sublime! Il vederla, l’udirla, il parlarle, mi arricchisce la mente di nobili fantasie. Ma avvilita, spregevole, mi perturba, m’affligge, mi spoetizza il cuore.
Eppure... (gli eppure sono indispensabili per dipingere l’uomo, ente sì composto) fra quelle voci femminili ve n’avea di soavi, e queste — e perchè non dirlo? — m’erano care. Ed una di quelle era più soave delle altre, e s’udiva più di rado, e non proferiva pensieri volgari. Cantava poco, e per lo più questi soli due patetici versi:
Alcune volte cantava le litanie. Le sue compagne la secondavano, ma io aveva il dono di discernere la voce di Maddalena dalle altre, che pur troppo sembravano accanite a rapirmela.
Sì, quella disgraziata chiamavasi Maddalena. Quando le sue compagne raccontavano i loro dolori, ella compativale e gemeva, e ripeteva: Coraggio, mia cara; il Signore non abbandona alcuno.
Chi poteva impedirmi d’immaginarmela bella e più infelice che colpevole, nata per la virtù, capace di ritornarvi, s’erasene scostata? Chi potrebbe biasimarmi s’io m’inteneriva udendola, s’io l’ascoltava con venerazione, s’io pregava per lei con un fervore particolare?
L’innocenza è veneranda, ma quanto lo è pure il pentimento! Il migliore degli uomini, l’uomo-Dio, sdegnava egli di porre il suo pietoso sguardo sulle peccatrici, di rispettare la loro confusione, d’aggregarle fra le anime ch’ei più onorava? Perchè disprezziamo noi tanto la donna caduta nell’ignominia?
Ragionando così, fui cento volte tentato di alzar la voce e fare una dichiarazione d’amor fraterno a Maddalena. Una volta avea già cominciato la prima sillaba vocativa: «Mad!...» Cosa strana! il cuore mi batteva, come ad un ragazzo di quindici anni innamorato; e sì, ch’io n’avea trent’uno, che non è più l’età dei palpiti infantili.
Non potei andar avanti. Ricominciai: «Mad!... Mad!...» E fu inutile. Mi trovai ridicolo, e gridai dalla rabbia: «Matto! e non Mad!»