Le mie prigioni/Cap LXVI
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Capo LXVI.
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Ad un’estremità di quel terrapieno, erano le stanze del soprintendente; all’altra estremità alloggiava un caporale con moglie ed un figliuolino. Quand’io vedeva alcuno uscire di quelle abitazioni, io m’alzava e m’avvicinava alla persona, o alle persone, che ivi comparivano, ed era colmato di dimostrazioni di cortesia e di pietà.
La moglie del soprintendente era ammalata da lungo tempo, e deperiva lentamente. Si facea talvolta portare sopra un canapè all’aria aperta. È indicibile quanto si commovesse esprimendomi la compassione che provava per tutti noi. Il suo sguardo era dolcissimo e timido, e quantunque timido, s’attaccava di quando in quando con intensa interrogante fiducia allo sguardo di chi le parlava.
Io le dissi una volta, ridendo: — Sapete, signora, che somigliate alquanto a persona che mi fu cara? —
Arrossì, e rispose con seria ed amabile semplicità: — Non vi dimenticate dunque di me, quando sarò morta; pregate per la povera anima mia, e pei figliuolini che lascio sulla terra. —
Da quel giorno in poi, non potè più uscire dal letto; non la vidi più. Languì ancora alcuni mesi, poi morì.
Ella avea tre figli, belli come amorini, ed uno ancor lattante. La sventurata abbracciavali spesso in mia presenza, e diceva: — Chi sa qual donna diventerà lor madre dopo di me! Chiunque sia dessa, il Signore le dia viscere di madre, anche pe’ figli non nati da lei! — E piangeva.
Mille volte mi son ricordato di quel suo prego e di quelle lagrime.
Quand’ella non era più, io abbracciava talvolta que’ fanciulli, e m’inteneriva, e ripeteva quel prego materno. E pensava alla madre mia, ed agli ardenti voti che il suo amantissimo cuore alzava senza dubbio per me, e con singhiozzi io sclamava: — Oh più felice quella madre che, morendo, abbandona figliuoli inadulti, di quella che dopo averli allevati con infinite cure, se li vede rapire! —
Due buone vecchie solevano essere con quei fanciulli: una era la madre del soprintendente, l’altra la zia. Vollero sapere tutta la mia storia, ed io loro la raccontai in compendio.
— Quanto siamo infelici, diceano coll’espressione del più vero dolore, di non potervi giovare in nulla! Ma siate certo che pregheremo per voi, e che se un giorno viene la vostra grazia, sarà una festa per tutta la nostra famiglia. —
La prima di esse, ch’era quella ch’io vedea più sovente, possedeva una dolce, straordinaria eloquenza nel dar consolazioni. Io le ascoltava con filiale gratitudine, e mi si fermavano nel cuore.
Dicea cose, ch’io sapea già, e mi colpivano come cose nuove: — Che la sventura non degrada l’uomo, s’ei non è dappoco, ma anzi lo sublima; — che, se potessimo entrare ne’ giudizi di Dio, vedremmo essere, molte volte, più da compiangersi i vincitori che i vinti, gli esultanti che i mesti, i doviziosi che gli spogliati di tutto; — che l’amicizia particolare mostrata dall’uomo-Dio per gli sventurati è un gran fatto; — che dobbiamo gloriarci della croce, dopo che fu portata da omeri divini.
Ebbene, quelle due buone vecchie, ch’io vedea tanto volentieri, dovettero in breve, per ragioni di famiglia, partire dallo Spielberg; i figliuolini cessarono anche di venire sul terrapieno. Quanto queste perdite m’afflissero!