Le feste dell'anno cristiano/Libro I
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LIBRO PRIMO.
Che la cara e diletta rimembranza
Delle belle alme, che l’Olimpo serra
Dentro gli alberghi della pace eterna,
Sia riverita ed adorata in terra,
5Biasma Luter, biasma Calvin, maestri
D’alta sciocchezza nella scuola inferna.
Latrator scellerati: alle lor grida
Diano l’orecchio di Sassogna i mostri
Imperversati, e di Gebenna gli empj;
10Ma noi fedeli al Vaticano cocelso
A spirti, divenuti almi e divini,
Sacriamo altar dentro marmorei tempj;
Ed io sceso di Pindo in manti adorni,
Oltra l’usato, ghirlandato i crini,
15Amo di celebrar con nuova cetra
Per loro nome i festeggiati giorni,
O Musa tu, che ne i seren dell’etra
Mai sede, Urania, ove bella arte apprendi,
Onde l’umane menti alto sollevi,
20Onde gli spirti a ben cantare accendi,
Spiega le piume, e mi t’appressa, o Diva,
E le sacrate cose a dettar prendi
Fra i sette Colli, e qui del Tebro in riva.
Meco forse vaneggio? o pur si mira
25Per me la Ninfa del Castalio fiume?
Mirasi certo: ecco per l’aria spande
Inclite note con eterea lita:
Deh volgi il guardo, e la raccogli, o Nume,
Sorto a sgombrarne tenebrosi orrori,
30Ciampoli, grande infra più chiari lampi,
E glorïoso oltra l’uman costume.
Nella stagion, che già s’allunga il giorno
A passo lento, e che sen viene il Sole
All’Orse stelleggiate, e ch’egli alberga
35Nella fredda magion del capricorno,
Dassi all’anno cristian cominciamento,
E s’adora per noi l’alma giornata,
Però che in essa cominciò del mondo
Il Redentore a sofferir tormento.
40Era dall’Ocean l’ottava aurora
Sorta della sua vita, ed ei s’espose
Di sacerdote alle canute braccia
Il sacerdote con l’usate guise
Tenute allor per immortal decreto
45La pelle innocentissima, recise.
Già non era mestier, il gran Messia
Serbasse in sè l’universal costume
Non era uom finto, e volea farne prova;
E questa verità con argomento
50Di sangue sparso divenia palese:
Al buon padre Abraam giù fu promesso,
Che di sua prole apparirebbe in terra
Il desïato dall’umana gente,
E comandossi ad Abraamo istesso,
55In modo tal suoi successor tagliarsi.
Dunque, che d’Abraum fosse famiglia
E quinci esser potesse il nostro scampo
Già non poteva al Redentor negarsi,
Allora il nome così caro ei piglia
60Gesù s’appella; nome caro a dirsi
Caro sopra ogni suon d’altra parola,
E pur sopra ogni suon caro ad udirsi
Nome, che in ciel sempre s’adora; nome,
Cui sulla terra ogni mortal s’inchina
65E per cui nell’abisso, ove ei s’ascolta,
Ogni demon per tema erge le chiome
Ma questo, che rinchiude in sè memoria
Di pena e di dolor; sanguigno
Un altro seguitò, che porta gloria
70Al Signor nostro d’ammirabil pregi.
Ause per l’Orïente altiera stella,
Unqua non vista più, ma non ignota;
All’incendio di lei mosser tre regi.
Essi la reggia di Sïonne entraro,
75Pronti cercando il regnator di lei
Dianzi pur nato: ed in Betlem di Giuda
Nel vilissimo albergo il ritrovaro.
Ivi, siccome a Dio con umil volto
Inginocchiati sulla terra ignuda
80Porsero segno dell’interna fede;
Incenso, mirra e lucido oro offriro,
Ed indi a sua magion volsero il piede.
Ed era allor che del gelato mese
Facea Febo dorato il sesto giro;
85Ma poi che giunge, e non con molto ardore
La febea lampa dell’Acquario all’urne,
E che hanno aperto le volubil ore
Venti fiate al Sol con man di rose
Il forte smalto dell’eteree porte,
90Ecco adornansi altar; spoglie odorose
Apprestansi al vestir de i sacerdoti;
Ed al baron, per cui Narbona è chiara,
Volano d’ogn’intorno inni divoti.
E qual sia lingua in celebrarla avara?
95E qual pensier non gli dee dar tributo?
Alto guerrier, che la milizia altiera,
Ove era scritto, e vi splendea sublime,
Seppe schernire; e posto segno a’ dardi
Ad onta immensa del crudel tiranno,
100Seppe alzarsi trofei pur col morire.
Che fero gli archi in lui? crude quadrella
Apersero in quel sen fonti di lume,
Sicchè nel campo delle sfere ardenti
Ora abbaglia il fulgor d’ogni aurea stella,
Fatto divin tra le caduche genti:
E temerassi, ove ragion ne chiami
Ceppi e catene, e sofferir tormenti?
Ora oltra andiamo, e trapassiamo il corso,
Che farà quattro volte in gonna bruna
Cimmeria notte, ove le stelle han regno,
E su rote d’argento erra la luna;
Quivi farassi incontra alba serena,
Amica d’Aquilon piedimpennato;
Alba, che liberale all’universo
D’alti conforti, ci rinfresca in mente,
Come il gran rubellante, il gran nemico
All’alma croce si mirò converso.
O di Dio sempiterno, onnipotente
Chiusi giudicj! se n’andava Saulo
Rigonfio di minaccia i fier sembianti,
D’ira avvampante: desïava spento
Per forza indegna de’ Cristiani il nome.
Qual si maneggia intra lanose mandre
Lupo affamato, quando neve alpina
Da’ folti boschi lo discaccia, o come
Nelle piagge del Gange empio leone
Va fra le squadre de’ mugghianti tori
Spargendo d’ogn’intorno alti ruggiti:
Spaventoso cordoglio a’ buon pastori;
Tal se ne giva in ben dorato arcione,
A rapido destrier pungendo i fianchi
L’uomo superbo, e trascorreva il campo;
E mentre imperversando ei più s’affretta
A’ precipizj del tartareo varco
Trovo somma pietate, onde ebbe scampo:
Feglisi incontra il Redentore, ardendo
Fra’ lampi in aria; e col parlar corresse
Gli orribili pensier dell’alma avversa;
Ed egli a’ tuoni di quel dir non resse,
Ma trabocconne abbarbagliato in terra;
Poi di Gamaliele a piè condotto
Battesmo prese; e per tal via divenne
Scelto dottor degl’ingannati ingegni.
Allor che non fece ei? che non sostenne?
Che non pensò? dove non volse il corso?
La Siria passeggiò; vide i Cilici,
Argo trascorse, visitò Corinto,
Ed a quei d’Erecteo porse soccorso.
Che più? per entro il mar varcò veloce;
Lesbo, Samo ed Eubea sparse di luce,
Egina, Delo, Salamina e Rodi
Trasse a pregiar la dispregiata croce.
Ne gli bastò; ma divenire odiose
In Cipro fece dell’Idalio Nume
Quelle usanze amorose; ed indi in Creta,
I tanti onor della Saturnia prole,
Rivolse in nulla, rimanendo scherzo
I Coribanti, e la bugiarda culla.
Al fin mosso d’amor, franchezza invitta,
Affrontò poverel l’alta Tarpea,
Ove schernendo del tiranno acerbo
L’alma infiammata di crudel disdegno
Salute offerse a’ successor d’Enea,
Per la virtù dell’adorato legno.
Con diritta ragion dunque s’onora
Virtù cotanta. Oh giù da ciel discenda
Folgore acuta, che disperda i lauri
Sul rio Parnaso, che di lui non canta.
E chi ne canta, come il Sol risplenda.
Quando la gente a numerar febbrajo
Rivolgerassi, e che i destrieri Eoi
Andran sudando nel secondo aringo
Del freddo mese, fia nel ciel salita
La celebrata aurora aggiornatrice,
Ove col figlio presentossi al tempio
L’alma del Paradiso Imperadrice.
Ne fu tributo, o soddisfare a legge,
Ma fu sovrano d’umiltate esempio.
Ella per tanto al sacerdote offerse
Due tortorelle, a dimostrarsi pura:
Ella, che di candor trapassa i gigli:
Ella, che il Sol, quando è più chiaro, oscura:
Quinci vêr Betelem fece ritorno
Col pargoletto Redentore in braccio,
Poichè con cinque sicli ella il riscosse.
Ma tu, donna divota, in questo giorno
Lascia per tempo le notturne piume,
E nudrisci bel lume in bianca cera:
Movi a tetti sacrati, ed ivi umile
Con le compagne va cantando in schiera:
Alta memoria de’ beati passi,
Che mossi furo in quel grand’atto eccelso
Dalle porte del tempio a’ sacri Altari.
Qual fu drappel, da che girossi il cielo,
Degno cotanto; ed a mortale orecchio
Quali faransi udir nomi si chiari?
Anna la santa a profetare avvezza;
E Simeone il celebrato vecchio;
E la guardia fedel del buon Giuseppe;
Poi la suprema di Maria grandezza,
E seco il nato fanciulletto eterno:
Arrogi l’invisibili falangi
Dell’infinito esercito superno;
Giornata eccelsa. Or quale cor s’invia
Meco giocondo; e d’odorosi incensi
Ben provveduto si dispone a gl’inni
Per celebrare ed adorar Mattia?
Alma dal Cielo al sommo grado eletta,
Onde cadendo inabissossi Giuda;
Alma d’amore ardente, alma benigna,
Quanto colei del traditor fu cruda.
Di questo inclito spirto i sacri onori
Fansi alto risonar, poscia che il Sole
Corre illustrando de’ celesti pesci
I belle squame; e che ne i campi foschi
el ciel notturno si nasconde Arturo;
Onde Borea gonfiando ambe le guance
Orridamente fa crollare i boschi,
Ed in mare il nocchier poco è sicuro.
Ecco dell’anno, che cerchiando vola,
Fa correre i suoi giorni il terzo mese
Marzo appellato: vanitate antica,
E folle error di gravi colpe, oh quanto
L’universo teneano tenebrato!
Al vero Dio, dalle cui mani uscito
Il basso mondo, ed il superno Olimpo
Con tal bellezza tuttavolta ha stato,
Non diè nome: un che inghiottiva i figli:
Un che al padre mostrò l’alma rubella,
Saturno si dicea, diceasi Giove,
E voleasi adorar: folli consigli!
E per lui si nomava e cielo e stella:
Ne men la forza, e l’esecrabil arte,
Onde si corre all’armi, onde si versa
Di sangue miserabili torrenti,
Idol si fece, ed appellossi Marte:
Ma quelle sciocche iniquità remote
Ogni nebbia ricopre: e di virtute
Chiaro splendor queste giornate adorna,
Serbando l’orme delle guaste note.
Come dodici volte in ciel vedute
Sian le bellezze della fresca Aurora,
Viene dal gran Gregorio il gran splendore:
Astro d’Italia; e di suo nobil merto
Fassi con armonia sacro racconto.
Egli sovran dottor, sovran pastore,
Sua verace pietà soffrir non volle
Il tosco d’Arrio funestar le Spagne;
Di Maurizio spezzò l’aspro furore;
Col battesmo salvò la gente Inglese;
Domò l’orgoglio di Bizanzio; e franco
Roma da ferri barbari difese.
Così di lui cantando aurea ghirlanda
Non di caduchi fior tesse Parnaso,
Ma Parnaso celeste, il cui concento
Ed all’Invidia, ed all’Obblío comanda.
Nè men canta di te, sacro Giuseppe,
Della Madre di Dio Vergine Sposo,
Poichè s’accosta di Latona il figlio
Al ripien di vigore almo Arïete,
Quando sotto bei rai l’aeree piagge
Di bel seren per Aquilon son liete.
O chiaro germe della Regia Tribu,
O figliuol di Giacobbe, o Betlemmita,
I cui raggi oscurò già povertate:
Di quale imperador gloria infinita
Quaggiù lampeggia? o qual s’innalza scettro,
Che possa pareggiar tua dignitate?
Tu solo scelto a ben servire il giusto,
Dalle nubi piovuto, e suoi divini
Tanto giocondi ad ascoltar vagíti,
Tu raccogliesti; e dar potesti baci
Delle beate fasce a i puri lini;
Tu sugger nel digiun vergine latte
Il rimirasti; e per cotanti modi
Iddio, fatto bambin, tu vezzeggiasti.
Che posso io dir per illustrar tuoi pregi,
Che posso dire io più? dunque men varco
Alla bella stagione, in cui si diede
A tanti guai dell’universo aita,
Da non giammai sperarsi altronde, in cui
A germogliare il Salvator s’elesse
L’inclita terra. Allor temprossi il ferro,
Onde il furor delle Tartaree squadre
Fu conquassato con orribil guerra.
Allora al re de’ tenebrosi abissi
S’apparecchiaro adamantini ceppi
Da rilegarlo nelle furie infeste;
Ed all’incontro furo uditi i preghi,
Perchè scendesse ad arrecar salute,
L’immenso amor della bontà celeste.
O promesse di Dio non mai bugiarde
Ecco il roveto, che Moisè percosse
D’alto stupor, mentre sull’erta cima
Del Sinai non si distrugge ed arde;
Ecco non men di Gedeone il vello,
Quando asciutta lasciò l’ampia contrada,
Là dove era disteso; ed in lui piovve
Il gran Dio d’Israel tanta rugiada.
Adunque chiara e ben serena; adunque
Lieta quinta e vigesima giornata,
E lieto Marzo; ivi spiegò le penne,
E quaggiù divulgò fido messaggio
La lungamente disïata pace.
In Nazzarette Gabbriel sen venne,
Ed alla Piena d’ogni grazia spôse,
O giorno singolar! l’alto decreto;
Ed ella consentendo umil rispose:
In quel momento del perduto mondo
Ebbesi al mondo il Salvatore; e fersi
Alla natura non possibil cose;
Le quali a dir non ha Parnaso cetra,
Salvo che bassa molto a farsi udire;
Però tacciamo; ed ogni cor gentile
Darà perdon; poichè non merta scusa
Un fuor di speme, e sconsigliato ardire:
Dunque meno alte vie corriamo, o Musa.
Ecco ritorna, e ne rimena Aprile
L’aspettata beltà di Primavera.
Ella il candido sen tutta svelata
Al bel Zefiro suo fa rimirarsi,
I biondissimi crin fiorintrecciata;
E dovunque rivolge il piè vezzoso,
Verdeggia di bella erba ogni pendice:
Ogni onda di ruscel divien più chiara,
E tra l’orror di giovinetti boschi
Più l’aura se ne va mormoratrice;
Ma sullo smalto de’ cerulei campi
Fa nel cielo strisciar le rote d’oro,
Febo sferzando, e con la face eterna
Le corna alluma dell’etereo toro.
Nè perchè toro io nomi il folle vulgo,
Poco pensando, mie parole scherna;
Altre belve là suso hanno ricetto:
Son ciò serpenti ed arïeti ed orsi,
E non meno centauro arco vi tende;
Non per tanto è mestier sano intelletto,
Mentre s’ascosta; che ove senno abbonda
Spesso per buon consiglio alcuna cosa
Suona la lingua, altro rinchiude il petto;
E per tal guisa a Marco il gran Cronista
S’accompagna leone, onde sia chiaro
Con qual forza suo dir fosse sentito:
Certo, ch’egli dal cor spinse la voce
Contra barbara gente ed idolatra,
Così forte ad udir, come ruggito.
Ei resse d’Alessandria il sacro Impero
Fedelemente; ivi d’iniqua spada,
Perchè gisse a morir, piaga sofferse;
Del puro sangue testimonio vero,
Che per prezzo del mondo al ciel s’offerse:
È di sua pena il celebrato giorno,
Che vigesimoquinto esce dall’onde;
Ed in quel tempo è confermata usanza
A coppia a coppia uscir teste sacrate,
E la plebe raccolta in lunghe righe,
Seco peregrinar per la cittade;
Non già tacendo; anzi con preghi ed inni
Fassi volare universal concento,
Invocando di Dio l’alta pietade;
Ed ei non la ci nega, ove cosparte
Vadano con dolor calde preghiere,
Nè di finta bontà siano i sospiri.
Deh chi di ben pregar n’insegna l’arte?
Ed onde apprenderemo esser dolenti?
Ecco ad ira commosso il gran Tonante
Fa segno di voler che siano prova
Della giustizia sna nostri tormenti,
E gli antichi flagelli in noi rinnova.
Misera etate! a cui fassi da lunge
Ogni conforto; ed ogni sorte avversa
Ognor più forte da vicin minaccia
Pietate in fondo; e va scacciata in bando
L’alma Giustizia; e la sincera Fede
Schernirsi dalla Froda invan procaccia;
E vinta dal furor l’amabil Pace
Al fiero Marte i seggi suoi concede,
Nè pur osa mostrar la bella faccia.
Quinci carca d’acciar sotto Boote
Freme orrida Bellona; e non le basta
Gonfiar Tartaree trombe; e dentro il sangue
Colà del carro suo tinger le rote,
Ma verso Italia vien scotendo l’asta;
Ed ella afflitta da’ prodigi impara
Lagrimar la stagion non giunta ancora;
Però colmo di duol guarda l’armento,
Come cosa perduta; e mesto in volto
Il montanaro i Tori aggioga ed ara;
E per entro le Terre il popol folto
Stassi dimesso; e di se stesso in forse
Le vedovelle van chiedendo aita;
E lasciando fra l’aure il crin disciolto
Rinchiudonsi le spose in foschi panni,
E per lo bianco sen versano pianti.
E come no? Se mal sicure culle,
Per non dire altro, han da trovar gli infanti?
Dunque por si vedran per modo indegno
A fronte a fronte al fin Cristiani acciari?
E sangue inonderà gli ampi sentieri?
Atterreransi le cittati? ed arsi
Spelonche diverran templi ed altari?
Così tempo verrà: crudi pensieri;
Che ove Dio s’adorò, latreran cani;
E fieno roderan greggie adunate,
Siccome in stalle; e nitriran destrieri,
Nei Passaggier destando ira e pietate.
Questi fieno i trofei; queste memorie
Lasceran di loro armi i re guerrieri
E questo il pregio fia di lor vittorie.
Ma non perde franchezza in tanti affanni,
Urban sacrato, fa querele, e prega,
Impiega alti messaggi; e non mai stanco
I Grandi irati raddolcir procura.
Per opra tua dileguerà lo sdegno,
Che ogni alma infiamma, ed ogni petto indura,
E fra noi bella Pace avrà suo regno.