Le cene ed altre prose/Prima cena/Novella seconda
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NOVELLA SECONDA.
Non potevano restare le donne e i giovani di ridere della piacevole novella di Ghiacinto, molto lodando la ricetta del medico intorno alle incurabili malattie delle femmine; ma, sappiendo Amaranta a lei dover toccare la seconda volta, così sciogliendo le parole, vezzosamente prese a dire: Veramente che Ghiacinto si può dire che, per la prima, una favola ci abbia raccontato, e io per me ne ho preso piacere e avutone contento meraviglioso; e così mi pare che a tutti voi sia intervenuto, se i segni di fuori possono o della letizia o del dolore di dentro fare alcuna fede;1 laonde io sono diliberata, imitandolo, lasciarne una che io n’aveva nella fantasia, e un’altra raccontarne, venutami or ora nella mente, che non credo che vi piaccia meno, e meno vi faccia ridere. E cominciò così dicendo:
Amerigo Ubaldi, come voi bene potete sapere, fu ne’ tempi suoi leggiadro, accorto e piacevole giovane quanto altro che fusse mai in Firenze; il quale per mala ventura, vivente suo padre, ebbe nella sua fanciullezza per guardia un pedagogo, il più importuno e ritroso che fusse giammai, oltre lo essere ignorante e goffo; il quale, lasciamo andare lo accompagnarlo alla scuola e il ritornarlo a casa, non gli si voleva mai levar d’intorno; talchè il povero fanciullo non poteva favellare parola, che il pedante non la volesse intendere. Che più? messer lo precettore non aveva altro struggimento,2 che menarselo dietro e stargli appresso; e lo guardava come una fanciulla in casa, faccendo intendere al padre quanto fusse da tenerlo in riguardo, e non gli lasciar pigliar pratiche; perciocchè i giovani erano più che mai scorretti e vòlti a’ vizj, e per conseguente inimici delle virtù: tanto che al fanciulletto, per paura del padre, conveniva conversare e praticare con compagni sempre o con amici del pedagogo, che per lo più erano tutti o castellani o contadini: pensate dunque voi, che costumi o buone creanze apparar poteva! Et in questa maniera lo tenne dagli undici per infino a’ diciassette anni. Ma di poi, morendo a Lione uno suo zio, e il padre sendo cagionevole e attempato, fu costretto andar là egli per una eredità grandissima, dove stette diece anni; e praticando a suo piacere con alcuni Fiorentini che vi erano pari suoi, giovani nobili e gentili, si fecesi3 in breve costumato e valoroso; e, come que’ che aveva spirito, divenne intendente et esperto nella mercatura. Ma in questo mentre, morendogli quaggiuso il padre, fu forzato tornarsene a Firenze, dove trovò il pedagogo più bello che mai, che due suoi fratellini si menava dietro. Ma poi che egli ebbe le sue cose acconce e divisate in guisa che stavano bene, volendo a Lione tornarsene, diliberò innanzi tratto di voler cacciar via il pedante che tanto in odio aveva, considerando quanto tristamente consumar gli avesse fatto la sua più fresca e più fiorita etade senza un piacere o uno spasso al mondo, e liberare i frategli da così fatta soggettitudine e gaglioffería: ma prima qualche beffa rilevata fargli, onde4 per sempre si avesse a ricordar di lui. E seco pensando, gli cadde nell’animo una fargliene, collo ajuto di certi suo’ compagni e amici, che gli sconterebbe gran parte degli avuti piaceri. E rimasti quel che di fare intendevano, facendosi per sorte allora una commedia nel palagio de’ Pitti dalla compagnia del Lauro, e Amerigo sendovi stato invitato, vi menò seco il pedagogo, che l’ebbe molto caro. Ma poi che essi ebbero cenato, e che la commedia fu fornita di recitarsi, Amerigo col precettore e con un suo compagno si partirono, e in verso il Ponte Vecchio presero la via, per andarsene a casa dove egli stavano nel quartieri di San Giovanni; e così passando per Porsantamaria, et in sul canto di Vacchereccia giunti, una botteguzza videro, che vi stava uno di questi che mettono le punte alle stringhe; dirimpetto alla quale Amerigo fermatosi, ridendo, disse al compagno: Di questo botteghino è padrone un vecchietto, come tu puoi sapere, ritroso, arabico,5 il più fastidioso e il più fantastico uomo del mondo: io voglio che noi ve gli pisciamo dentro, e tutto colle masserizie insieme gliene scompisciamo, acciocchè domattina poi egli abbia di che rammaricarsi. E così detto, per un fesso che era al cominciar dello sportello, come se stato fosse fatto a posta, messe lo schizzatojo, o forse fece la vista di pisciare, e dopo lui il compagno fece il simigliante. Sicchè, voltosi Amerigo al pedagogo, disse: Deh, maestro, per vostra fè, guardate se voi n’avete voglia, perchè tutta li empiamo la bottega di piscia, acciocchè domattina egli levi il rumor grande, e arrovellandosi dia che ridere a tutta la vicinanza. Il pedante, veggendo l’animo suo, disse che si sforzerebbe; e ponzato alquanto, sdiacciandosi la brachetta, cacciò mano al pisciatojo; e come e due prima avean fatto, lo messe per quel buco, e cominciò a strosciare. Era là dentro il Piloto, un uomo piacevole e facetissimo, il quale aveva ordinato il tutto; e sentito benissimo tutte quante le loro parole, poi che egli conobbe quello essere il precettore, stando alla posta, con un capo che egli aveva di un luccio secco nelle mani, che i denti ispessi, lunghi e aguzzati aveva di modo che parevan lesine, più che mezzo il cotale prese in un tratto a colui; e strinse così piacevolmente, che dall’un canto all’altro gliene trafisse, soffiando e miagolando come se propriamente una gatta stata fusse, la quale6 egli sapeva meglio contraffare che altro uomo del mondo. Per la qual cosa il pedagogo messe un muglio grandissimo, dicendo: Ohimè! Cristo, ajutami. E pensando certamente quella dovere essere una gatta, che preso in bocca gli teneva il naturale, disse quasi piangendo: O Amerigo, misericordia! ajuto! ohimè, chè io sono diserto! una gatta mi si è attaccata al membro, e hámmelo morso e trafitto, e per disgrazia non lo lascia: io non so come mi fare: ohimè! consigliatemi in qualche modo. Amerigo e il compagno avevano tanta voglia di ridere, che non potevano parlare, perciocchè il Piloto simigliava troppo bene un gattone in fregola; laonde il pedante cominciò a dire: Micia, micia, micia, micina mia; e in tanto tentava se ella gli lasciasse quella cosa, e tiravalo a sè pian piano. Come il Piloto sentiva tirare, così miagolando gli dava una stretta, e trafiggevagliene; e il pedagogo succiava7 e sospirava, e ritornava a dire Micia, micia, in quella guisa propio, e con quella affezione, come se in grembo l’avesse avuta, e ligiatole8 la coda; e in parte tirava a sè un pochetto, e colui lo riserrava rimiagolando, e soffiava nella guisa che gatta talvolta tener si vede in bocca uccello o carne, che altri se le accosta per tòrgliene. Così stando il precettore come sentito avete, Amerigo e il compagno, mostrando avergli compassione, fecero non so che cenno: onde d’in sul canto di Borgo Santo Apostolo uscirono quattro, pieno9 avendo le mani di frombole;10 e cominciavano a tirare alla volta di costoro. Amerigo e l’amico suo non stettero a dire che ci è dato, ma, secondo l’ordine, si dierono di fatto a fuggire. Il pedante, rimasto preso e attaccato per lo uncino da còrre i fichi,11 non sapeva che farsi; e coloro traevano a distesa, e gli davano nelle schiene e ne’ fianchi le maggiori sassate del mondo; onde il pedagogo, per non toccarne una nella testa, che lo ponesse in terra, diliberò di strigarsi o di svilupparsi da quello impaccio e da quella noja, andassene ciò che volesse; e dato una grandissima stratta alla persona, il piuolo con che Diogene piantava gli uomini, strappò per forza, e cavò di bocca a quel maladetto luccio, ma fieramente scorticato e guasto; e gridato quanto della gola gli usciva Ohimè! io son morto, con esso in mano, piangendo dolorosissimamente, si cacciò correndo a fuggire, che pareva che ne lo portasse il trentamila paja di diavoli; e avute avendo parecchie sassate delle buone, a casa giunse quasi all’otta di Amerigo. A cui, dolente quanto mai poteva, mostrò tutto diserto e guasto il membro, dicendo colle lagrime in su gli occhi: Ohimè! egli è restato mezzo tra’ denti di quella maladetta gatta, e mi bisognò trarlo per forza, se non che coloro mi arebbono lapidato e concio peggio che non fu Santo Stefano: e dolevasi molto bene de’ fianchi e delle rene. Quanta gioja Amerigo et il compagno avessero, mentre che il pedante queste cose raccontava, non è da domandare; pure il meglio che seppero si sforzavano di racconsolarlo, non potendo qualche volta tenersi di non ridere. Ma perch’egli era già tardi, se ne andarono a letto, lasciando il precettore che non restava di guaire; e così fece infino a giorno; il quale venuto, perchè egli era un solenne gaglioffo, se ne andò, per non spendere, allo spedale, dove mostrò a’ medici il suo male; e narratone il modo e la cagione, tutti gli fece insieme meravigliare e ridere: nondimeno gli ebbero grandissima compassione, giudicandolo male di non piccola importanza. Onde il pedagogo si rimase quivi per alcun giorno, non avendo ardire di tornare a casa, acciocchè la padrona e madre degli scolari non avesse a vedere sì bratta sciagura. Ma in capo di pochi giorni, o fosse la inavvertenza o la straccurataggine o il poco sapere de’ medici, o fusse pure la malignità della ferita, quel poco che restato gli era di quella faccenda infradiciando,12 fu bisogno, se campar volle la vita, tagliar via. La qual cosa fatto, di corto guarì, ma rimase, sotto il pettignone,13 come la palma della mano; e se orinar volle, fu necessario un cannellino di ottone; salvo che gli rimase una borsa sì grande e sterminata, che di leggieri arebbe fatto la cuffia a ogni gran capo di toro. Ma volendo ritornarsene a casa i padroni, fu dalla madre de’ suoi discepoli, dicendogli una grandissima villania, e faccendogli suo conto e pagatolo, cacciato di subito via, come aveva ordinato Amerigo. Per la qual cosa il pedante, sbigottito, fuor di quella casa trovandosi, della quale prima gli pareva esser padrone, e senza naturale, deliberò di non stare più al secolo, e fecesi romito del sacco. Amerigo, che il terzo dì dopo che al pedagogo seguì l’orribil caso se n’era andato a Lione, fu dal compagno del tutto pienamente ragguagliato; della qual cosa seco stesso fece meravigliosa festa, parendogli che la beffa avesse avuto miglior fine che saputo non arebbe domandare, mille volte raccontandola in mille luoghi, che a più di mille dètte più di mille volte materia da ridere.
Note
- ↑ Se i segni di fuori. Dante lo afferma, dove dice dei sembianti,
Che soglion esser testimoni del cuore.
- ↑ Struggimento. Cura, Pensiero, Sollecitudine.
- ↑ Si fecesi. Ho corretto col MS. magliabechiano: le stampe, con istrascicatura uggiosa, e con un ei ozioso, avevano si fece ei.
- ↑ Onde. Per la quale, A cagion della qnale. In vece di Per la quale, si poteva dire anche Affinchè; e da questi luoghi dove nell’uno e nell’altro modo si può dire, e dove l’onde anzi che particella pronominale com’è, è stata malamente presa per acciocchè congiunzione, è nato l’abuso di porre l’onde per affinchè, siccome hanno fatto anche buoni scrittori.
- ↑ Arabico. Strano, Bizzarro.
- ↑ Una gatta... la quale. Nota che gli antichi, per significare la specie, dicevano sempre gatta in femminino, come si fa della pantera, jena, e simili.
- ↑ Succiava. Succiare si dice del Tirare il fiato a sè, ristringendosi nelle spalle, a modo di chi succia qualcosa; e si fa anche per grave dolore che altri sente.
- ↑ Ligiatole. Lisciatole.
- ↑ Pieno. Sta qui come un participio assoluto, quasi dica Empiutosi.
- ↑ Frombole. Ciottoli.
- ↑ Da còrre i fichi. Così, e bene, il MS.: le stampe tutte, erratamente, da còr di fichi.
- ↑ Infradiciando. Marcendo, Suppurando, come or dicono i medici.
- ↑ Pettignone. Così il MS. Le stampe, con errore, pettiglione, la qual voce con questo esempio si vede nel Vocabolario dei Manuzzi, e però ne va tolta.