Le avventure di Pinocchio (1892)/Capitolo 7
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VII.
Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover’uomo aveva portata per sè.
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli, cascato da un quinto piano.
— Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla strada.
— Babbo mio, non posso, — rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
— Perchè non puoi?
— Perchè mi hanno mangiato i piedi.
— E chi te li ha mangiati?
— Il gatto, — disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
— Aprimi, ti dico! — ripetè Geppetto — se no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
— Non posso star ritto, credetelo. Oh! povero me! povero me, che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita.
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e
mille moine, e, coi lucciconi che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando:
— Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
— Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato cattivo e te lo meriti» e io gli dissi: «Bada, Grillo!…» e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un manico di martello, e lui morì, ma la colpa fu sua, perchè io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella... e tanti saluti a casa.» E la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perchè il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perchè avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! ih!… ih!… ih!… ih!… —
E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano.
Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
— Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.
— Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
— Sbucciarle? — replicò Geppetto meravigliato.
Non avrei mai creduto, ragazzo, mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perchè non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!...
— Voi direte bene, — soggiunse Pinocchio, — ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio dicendogli:
— Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
— Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... — gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera.
— Chi lo sa! I casi son tanti!... — ripetè Geppetto, senza riscaldarsi.
Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce.
Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
— Ho dell’altra fame!
— Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.
— Proprio nulla, nulla?
— Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.
— Pazienza! — disse Pinocchio — se non c’è altro, mangerò una buccia. —
E cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca: ma poi una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si battè tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
— Ora sì, che sto bene!
— Vedi, dunque, — osservò Geppetto, — che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi nè troppo sofistici nè troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!... —