Le Metamorfosi/Annotazioni/Libro Primo

Annotazioni del Primo Libro

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Publio Ovidio Nasone - Le Metamorfosi (2 a.C. - 8 d.C.)
Traduzione dal latino di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1561)
Annotazioni del Primo Libro
Libro Quintodecimo Annotazioni - Libro Secondo

Seguendo Ovidio l’opinione di Hesiodo, & di Euripide descrive nel principio di questo primo libro delle Metamorfosi, il Chaos che è quella prima materia; e quella prima confusione d’ Elementi amassati insieme, dalla quale si spicca per opra del grand’ Iddio questa bella distinta, e vaghissima faccia di mondo; legiadramente espressa da l’Anguillara, nella stanza, Pria che ’l Ciel fosse il mar, la terra e ’l foco; e nelle due seguente, come si vede anchora felicissimamente spiegata la divisione de gli elementi, insieme con la discordia, e dapoi l’amicitia loro, le cinque Zone della Sfera, le due estreme, vicine a i poli aggiacciate, quella di mezzo arrida & arsa, come quella che sente il maggiore vigore de’l Sole; e le due temperate poste fra questa, e quelle.

Viene dopò alla maravigliosa creatione dell’huomo mostrando come il grande Iddio, non lo fece con la faccia volta all’ingiù, come tutti gli altri animali, di che haveva ripiena la terra; anzi volle che con la faccia alta mirasse verso il cielo; come solo atto alla contemplatione delle cose divine; e mezzo fra l’altezza d’Iddio: e la bassezza delle cose create, havendo egli solo portate le cose divine in terra; havendovi portata l’anima intellettiva veramente divina; e medesimamente anchora le terrene in cielo; come quando, per fede sostentata da buone opere, è degno di essere fatto membro celeste & con le membra terrene, salire all’eterna felicità de’l cielo.

[O che cosi Prometheo il componesse]

Narano gli antichi che havendo Prometheo formato un’huomo di fango; Minerva rimase molto maravigliata di cosi bell’opera; e gli disse che chiedesse tutto quello che voleva dal cielo per dar perfettione all’opera sua che ne l’haverebbe compiacciuto. Le rispose Prometheo che non sapeva che chiederle non havendo vedute giamai in cielo, quelle cose che potevano in questo esserli giovevoli. L’inalzò Minerva all’hora, a vedere i beni del cielo; dove vide la sù, tutte le cose essere animate da fiamme di fuoco; per dare dunque l’anima alla sua fattura, prese una verga, & avicinolla secretamente alla rota del Sole, e havendola accesa riportò di quel fuoco in terra, & accostatolo al petto dell’huomo formato da lui, gli infuse l’anima; quivi s’assimigliarà a Prometheo, il Prencipe saggio, e prudente il quale salendo al cielo guidato dalla sapienza, ne riporta un perfetto ordine, delle leggi, della Religione, e delle buone e Sante institutioni, che sono l’anima del popolo suo rozzo, come quello che è formato di fango, riducendolo, a una vita quieta, civile, e riposata molto simile a quella dell’età dell’Oro finta cosi divinamente dal Poeta, come anchora trasportata felicemente dall’Anguillara.

Dopo l’età dell’Oro segueno quelle dell’Argento, de ’l Metallo, e del Ferro, per le quali si può agevolmente conoscere, quanto gli huomini siano più inclinati ad allontanarse dalla virtù, che a farsele vicini; poi che andarono di mano in mano sdrucciolando, in ogni maniera de vicio; d’infelicità, e di miseria; e vennero a tanto che ’l Poeta dopò haverne descritta una gran parte; chiama le furie de ’l Regno di Plutone, a descriverne il rimanente come ritrovate da esse: vedendo che tutte le virtù ministre della felicità della prima età, erano fuggite al cielo per non vedere del continuo, le mal’opre de gli huomini insolenti, e viciosi, l’ultima delle qualità fù Astrea, a salirvi, che è la Giustizia.

Caduti gli huomini nella infelicità dell’età del ferro vennero i Giganti che mettendo monti sopra monti & l’un sopra l’altro, Olimpo Monte di Macedonia, & Pelio, & Ossa monti famosi in Thesaglia hebbero ardire di muovere guerra al Cielo; sdegnato Giove del loro folle ardire, spianando co’l suo tremendo folgore i monti, diede loro a un medesimo tempo morte, e sepoltura, i giganti non sono altro che i soperbi Tiranni; i quali con le loro forze deboli, e mortali pensano arrogamente di esser uguali a Dio immortale; & omnipotentissimo, onde fulminati poi dalla giustissima ira sua per vendetta rimangono spenti insieme con la superbia loro; la quale poi di nuovo ripigliando vigore fà insieme con la natura che del sangue putrefatto de gli infelici Giganti viene a gharmogliare una nuova gente, empia, scelerata, e via più crudele di ogn’altra contra Dio, e contra gli huomini. Che diremo che significhi questa nuova gente, se non che dalle radici della soperbia ne nascono tutte le empietà, e tutte le sceleragini? Onde sdegnato di nuovo Giove, così per le sceleragini, che usava Licaone, crudelissimo Tiranno di Arcadia, che invitava a mangiar seco, i forestieri gli uccideva, e da poi i faceva mangiare a quelli, che mangiavano con esso lui; come ancora per molte altre ingiurie ricevute da esso, havendo ragunato il Consiglio de gli Dei, deliberava di spegner il genere humano. Ove si vede con quanta vaghezza habbia l’Anguillara trasportata nella nostra lingua in versi la descrittione, che fa Ovidio del Cielo, del luogo, dove si adunanvano a consiglio gli Dei del camino per andarvi; della proposta di Giove; e della narratione, che fa; e come poi scendendo in terra sotto forma humana non vi trovò che sceleragini violenze, & inganni; e come giunto alla casa di Licaone, non pur lo vide, che si faceva scherno della sua divinità, ma scoprì anchora, che haveva una maligna intentione di amazzarlo, come prima si fusse posto a dormire; onde havendo dato il fuoco alla casa sua l’abruggiò, e Licaone fuggendo, verso i boschi fù in quel punto trasformato in Lupo.

Parmi che, questa favola sia tolta da un’historia scritta da Leontio, la qual narra che essendo venuti a conventione di pace dopò una lunga guerra i Molossi, che sono genti di Epiro, hoggi di detta Albania, con gli Arcadi; detti Pelasgi de quali era Prencipe Licaone; al quale diedero gli Albanesi per ostaggio per un certo tempo un bellissimo, e nobilissimo giovane; passato il termine vedendo che Licaone, non lo rimandava loro, secondo le conventioni, mandorno a chiederlo per i loro Ambasciadori; sdegnato Licaone che glie l’havessero mandato cosi soperbamente a dimandare, come quello che era huomo crudelissimo, e pieno di ogni maniera di soperbia, e di sceleragine, fece ammazzare l’Ostaggio e havendo invitati gli Ambasciadori a desinare con esso lui; essendovi anchora Lisania Giovane apresso gli Arcadi di molto valore, che fù poi detto Giove, fece loro porte inanti per vivanda, le membra cotte dell’infelice giovane già Ostaggio. Vedute Lisania le membra humane, gettò furioso la mensa a terra, & adunati molti suoi amici, e fatti osi insieme, combatte con Licaone, e ’l vinse, fuggì l’huomo sceleratissimo con alcuni suoi, a i boschi, dove stando alla strada ammazzava, e rubava tutti quelli che gli davano nelle mani; il che fù cagione poi che ’l Poeta il descrivesse cangiato da Giove, in lupo; come sono cangiati anchora tutti i crudeli, e pieni di sete de ’l sangue altrui, che meritamente poi sono detti lupi per la simiglianza che hanno con detti animali. Ne per altro crederò che Plauto dicesse poi che l’huomo diveniva cosi contra l’altro huomo, essendo scelerato un lupo, come ancora essendo buono un Dio.

Risoluto Giove di spegnere il genere humano, confirmorono tutti gli Dei la sua sententia, anchora che contra loro voglia, perche perdevano i prieghi gli altari i voti, e gli odorosi sacrifici, che erano loro sovente fatti da gli huomini, volendo poi venir alla esecutione, non volle farlo co’l fuoco; de suoi folgori per timore che dopò che fusse da tanti fuochi abrusciata la terra, non s’apicassero le loro fiamme anchora nel cielo; e ne rimanesse medesimamente arso, e consumato; ma prese risolutione di farlo con l’aque; facendo venir, il diluvio universale; quivi si vede apertamente che Ovidio scrivendo queste sue trasformationi si servi de libri di Mose; overo lo scrisse spinto da una nascosta virtù della verità descrivendo così propriamente l’inondatione che spense l’humana generatione descritta da esso; e si come quello conservò dal diluvio la humana prole in Noe, e nella sua donna; cosi questo la conserva in Deucalione, e Pirrha; dove si vede quanto felicemente cosi il Poeta latino, come il volgare, descriva come Giove dopò havere riposti i suoi folgori nel monte Etna, comanda ad Eolo Re de’ Venti, che rinchiuda Borea, e gli altri venti nemici alle pioggie, e che dia libero corso all’Ostro humido, e piovoso, il quale palesando furiosamente le forze sue, spoglia gli arbori, & atterra l’herbi, e le biade, e come Nettuno persuade a tutti i fiumi che escano furiosi de i letti loro e ingombrino tutta la terra, rovinando palazzi, case, e capanne, e tutte quelle cose che possono impedire i corsi loro; e come gli huomini abandonando le proprie case fuggivano ne’ piu alti monti, per non essere colti dall’impeto dell’aque; bellissima digressione è quella dell’Anguillara come sono molte altre anchora che s’andaranno vedendo nelle sue rime che incomincia dalla stanza: Non vale all’huomo il suo sublime ingegno.

E la conversione alle Ninfe, e Dei del mare posta molto vagamente nella stanza, Ditemi havete voi frenato il pianto, come è anchora quella a gli Avari, & Ambitiosi, dopò che furono cessate l’aque del diluvio, in quella stanza: Voi che non mai con mille, e mille ingegni.

La favola di Deucalione e Pirrha i quali rimasero dopò il grandissimo diluvio, in vita è tolta da una historia antica che narra, come essendo coperta tutta la Grecia dall’aque del diluvio; Deucalione Re di Thesaglia sapientissimo con Pirrha sua mogliere raccolse tutti gli huomini che fuggendo l’aque, s’erano salvati; sopra i monti nel monte Parnaso, dove per mezzo della prudentia figurata per Themis figliuola del cielo, e della terra; li ridusse da quella loro primiera durezza di pietra; a una vita quieta, humana e civile, con le sante leggi, e con la religione.

Pithone spaventevole serpente ammazzato dallo strale di Apollo, è allegoricamente il soverchio humore rimaso sopra la terra dopò l’inondatione dell’aqua, il quale corrompeva gli huomini, infermavagli e gli uccideva, che fu poi spento da i raggi del Sole che sono le saette d’Apollo, e fù ridotta la terra in una frutifera purità, che nel soverchio humore, nella soverchia arridezza la rendeva sterile, e poco atta a produre i frutti che sostentano la vita nostra. Che dall’humido percosso da i raggi del Sole se ne vedano uscire dalla terra diversi animali se ne ha l’essempio chiaro del Nilo fiume d’Egitto il quale innondando quel paese che di raro sente la benignità dell’aque che piovono, il rende fertilissimo; onde quando ritornano le sue aque a i letti loro, perche entrano per sette Foci nel mare dicesi che quella humidità che rimane sopra la terra, riscaldata da i potenti raggi del Sole produce diverse sorte d’animali come Crocodilli, & altri che talhora si vegono rimaner’ imperfetti.

Aquistossi Apollo dopò haver ispento il nocevole Pithone, il nome di Pithio, e diedelo anchora ad alcuni giochi, che si facevano a gara nel correre, saltare e far alla lota; e i vincitori ne riportavano in segno della vittoria corone di frondi de Quercia arbore all’hora grato a Febo, come quello che non era anchora acceso dell’amore di Daphne, ne preso per suo il lauro tanto bramato e da gli Imperatori, e da i Poeti come insegna de i loro perpetui honori.

La contentione del tirare dell’archo tra Febo, e Cupido, non è altro che quella che è fra utile & il dilettevole nel mondo le saette di Febo che sono i suoi raggi, sono utilissime perche giovano a gli animali, al produrre della terra, & a’ frutti e quelle di Cupido, sono soavissime e tanto che offuscano con grandissima forza l’intelletto, e la ragione all’huomo; onde per far conoscere meglio Cupido quanto le ferite de’ suoi strali fussero maggiori e più profonde; impiegò il core dell’istesso Apollo con una saetta d’oro, la virtù della quale fu di spingerlo ad amare ardentemente come anchora ferì il core di Daphne d’una di piombo che per la sua frigidità fa contrario effetto rendendoci il piombo tardi, & pigri ne i piaceri amorosi.

Daphne cangiata in Lauro alle sponde del fiume Peneo, il quale scorre per la valle Tempe amenissima selva nella Emonia è detta vagamente questa trasformatione per seere quella valle piena de Lauri; che la fusse poi cangiata in quest’arbore fuggendo i piaceri amorosi di Apollo si può vedere la sua vaghezza per la simiglianza che hà quest’arbore con la castità, la quale vuole esser perpetua come è perpetuo il verde del Lauro; e stridere e far resistenza alle fiamme d’amore come stridono, e resisteno le sue foglie e i suoi rami gettati sopra ’l fuoco; alcuni hanno voluto poi dire che Ovidio finse questa favola in piacere di Augusto figurandolo cosi per Apollo, come Livia per Daphne. Chiamasi il Lauro poi arbore di Apollo che è Dio degli Oracoli, e dell’indovinare per essere le sue frondi atte a far indovinare in sogno, poste sotto il capo de chi vuole quando va a dormire.

Che diremo che significhi la favola di Io amata cinta di tenbre e corotta da Giove, e poi trasformata in una vacca? se non l’humido vitale de ’l senso dell’huomo; amato dal Sole, che desidera operare in lui; però nel ventre della madre lo circonda di nua folta nebbia, per conservarlo; la quale nebbia è sgombrata da Giunone, figurata quivi per la luna, come quella alla quale s’aspetta come Dea de i parti, agrandire, i meati de corpi, e condurli in luce; è questo humido cangiato in vacca, quando è fatto animale; e che hà questa simiglianza con la vacca, che si come ella è animale fruttifero e faticoso, cosi l’huomo volendo conversare fra gli huomini fà bisogno che renda frutti; e sia faticoso, essendo cosi nato alla fatica come l’uccello al volo; e dato l’huomo divenuto animale in guardia ad Argo, che è la ragione la quale vede con molti occhi che dapoi adormentata da Mercurio, che non è altro che la delettatione de gli oggetti propinqui, vien’ammazzata da esso, e gli occhi suoi che prima non vedevano che cose diritte, e giuste, si voltano posti nella coda del pavone di Giunone, il quale non è altro, che ’l soverchio desiderio delle ricchezze, de gli honori, e delle basse e imperfette bellezze di qua giù, a mirarle con vana strabocchevole e dannosa affettione.

La favola di Pan, e di Siringa è assai nota perche questa voce Pan nella lingua greca significa il tutto, si dirà dunque che la natura che è il tutto figurata per Pan, rimane vinta dall’amore quando ama come fa, le cose prodotte da essa; e Siringa amata da Pan, serà quel concetto, e quell’armonia soavissima de i motti delle sfere amata molto da essa natura; come quelli che sono guidati con tanto ordine, e con tanta maestria a un fine determinato, che non è altro che ’l fiume Ladone. Hanno gli Antichi e fra gli altri Vergilio, voluto descrivere la maravigliosa, e misteriosa figura di Pan dicendo prima che à le corne fisse nella fronte, che mirano verso il Cielo, la barba lunga che gli pende giù, per il petto; con una pele distinta a macchie che lo copre in luogo di este, chiamata da gli antichi Nebride, che porta in una mano un bastone; e nell’altra un’instrumento Musicale con sette canne; hà poi le membra più basse hispide, e pelose con i piedi di capra; & hanno con questa descrittione velato il misterio che le corna significhino la Luna, che rinasce con la faccia rossa, essendo egli figurato per il Sole la lunga barba che gli pende dal mento, siano i raggi di esso Sole. La pele distinta a macchie, l’ornamento, è la vaghezza che deriva dalla sua luce, il bastone poi la dispositione, e l’ordine delle cose; l’instrumento poi figura l’harmonia de i cieli; conosciuta per il motto del Sole.

Che significhi poi che Siringa spreggiasse l’amore de i Satiri? si può dire, che significa, che la musica fù sempre poco amata da gli huomini rozzi e l’instrumento, co’l suono del quale adormentò Mercurio gli occhi della ragione, fù l’istesso de Pan, che con la sua dolcezza ci adormenta di maniera che rimanemo morti quanto all’alta, e divina consideratione delle maravigliose opere del creatore; come quelli che andiamo perduti, nella delettatione delle cose create. Giunone vedendo morto il suo Guardiano, e la vacca libera da Argos è l’huomo libero dalla ragione; e che Giunone sdegnata poi come desiderosa di farne vendetta, l’ingombra di maligni spiriti, che giamai non lo lasciano riposare; ma sempre solecitato, e infuriato, da essi va scorrendo tutto il mondo, spinto da’l soverchio desiderio delle ricchezze, da i piaceri, dall’ambitione, e da tutte quelle sfrenate passioni che lo tormentano; al fine gionge in Egitto che è le tenebre della morte, dove diviene Isis che significa la terra, perche tutti al fine divenimo terra: ripigliando la prima figura de’l primo huomo, che non fù altro che terra.

La contentione poi di nobiltà fra Phetonte che vien’ a dir’ incendio, & Epapho figliuolo di Iside che è la terra, non è altro che la discordia che è fra l’elemento del fuoco e quello della terra; sostenuta in quella maggiore ugualità che si può per benignità della natura dall’aere, e dell’aqua; perche tutta volta che vede l’aqua che le forze de i raggi del Sole sono per farse maggiori; per il suo giro come padre del fuoco qua giù e di maniera che infiammi l’aere, s’affatica con le pioggie della prima vera e con quella dell’autunno far de modo che la terra senti manco danno dall’ardore de’ suoi raggi che sia possibile quando s’alza piu ver noi, e se l’havrà sentito grave nella maggior furia del cane ne sia ristorata come prima cominciara il sole à passar vicino alla libra, & a lo Scorpione; medesimamente quando la terra è soverchiata dall’aqua, de modo che rimarrebbe per la soverchia humidità sterile, e senza frutto, fa l’aere sgombrando i nuvoli, e le nebbie e lasciando che i raggi del sole penetrino fin’alle parti nascose, asciugando l’humore soverchio, e riducendola atta a produrre i frutti; che Phetonte andasse poi a ritrovare Apollo suo padre significa che ogni ardore sparso e diviso in molte parti al fine si riduce al suo padre; che non è altro che ’l sole.