Clara Mazzi

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La figura femminile nella mitologia ladina
Ladin! 2014 2

Ladin! 2014

Clara Mazzi

La figura femminile nella mitologia ladina

Introduzione Questa ricerca nasce a seguito di un’attenta lettura e rilettura dei testi del Wolff che ha fatto emergere due osservazioni, distinte e collegate allo stesso tempo: la prima, che ha rilevato un palpabile disequilibrio nella distribuzione di ruoli, potere e competenze tra figure femminili e quelle maschili a favore delle prime; la seconda che al momento di fornire risposte più corpose, che andassero oltre al concetto ben risaputo del matriarcato, ha riportato l’assenza di studi in merito.

Questo articolo si pone come obiettivo quello di porre le prime basi a proposito.

1. MATERIALE SELEZIONATO

Quando si parla di mitologia ladina, ci si riferisce al prezioso bagaglio di informazioni fortunosamente e fortunatamente fermato su carta prima che andasse perso per sempre nelle tragiche vicende dell’Alto Adige del secolo scorso, dal giornalista di Bolzano Karl Felix Wolff (1879-1966). Animato da una parte da un forte interesse personale, dall’altra sostenuto dal suo nuovo incarico di compilare la prima guida turistica per l’allora neonata Dolomitenstraße1, Wolff condusse una capillare ed implacabile ricerca sul campo e trascrisse (non senza polemiche, causa i suoi dichiarati rimaneggiamenti2 tutte le leggende che riuscì a recuperare.

Nel corso di quest’indagine, egli si rese rapidamente conto che quello che stava trascrivendo non erano semplicemente racconti o fiabe come quelle dei fratelli Grimm, bensì stava riportando alla luce l’epica e la mitologia di un popolo anch’esso a rischio di estinzione come le sue leggende: “[…] die Sage eine Entwicklungs- und Lebensgeschichte habe, denn sie entstehe aus einem losen Verbande mythischer oder magischer Vorstellungen, die mit Erinnerungen an wirkliche Begebenheiten vermischt und schliesßlich zur Grundlage für Menschenschicksalgemacht werden könnten. […]”3 e ancora: “[…] er bringt die Stoffe in epischer Breite und ist überzeugt, daß die Erzählung des alten Alpenvolkes lang war, und er zeigt, wie sie stets mit den Naturgegebenheiten Menschenschiksale verband und daß sie nicht oberflächlicher Fabulierlust, sondern tiefgründiger seelischer Erfahrung entsprang, So führt er uns auch den älteren mythischen Menschen vor. […]”4 Wolff intuì inoltre che queste popolazioni erano rette dal matriarcato e che anzi, diverse leggende sono comprensibili solo se lette con questa chiave di lettura55.

Questo indizio ci permette di collocare i fatti narrati in un epoca che si aggira attorno al 2.000 a.C, ovvero quando cominciarono a manifestarsi i primi segni della decadenza di tale istituzione66.

Sebbene il Wolff non sia stato l’unico a lavorare su queste antiche leggende77, in questo articolo si fa riferimento alla sua raccolta, principalmente perché è “la più ampia e famosa”.88

2. CRITERI DI RICERCA: LA SELEZIONE DELLE LEGGENDE

Non tutto il materiale raccolto nei primi due capitoli delle Dolomitensagen e nella sua versione italiana nei tre tomi: I monti pallidi, L’anima delle Dolomiti, I rododendri bianchi delle Dolomiti è stato reputato idoneo a questa ricerca: alcuni testi, infatti, riportano elementi cristiani oppure raccontano di vicende avvenuta in Val Punteria o al lago di Garda, luoghi dove oggi i Ladini non ci sono più. Pertanto si è deciso di selezionare quelle leggende che avessero le seguenti caratteristiche:

a) Territorialità Il territorio a cui si fa riferimento copre la

Val Badia, la Val Gardena, l’alto Ampezzano e l’alta Val di Fassa, ovvero trattasi di un’area più ristretta di quella esaminata, correttamente, dal Wolff99 in quanto si è voluto dare peso a quello che è oggi il cuore dell’area ladina.

b) Antichità Le leggende devono essere antiche, ovvero il

più antecedente possibile alle contaminazioni culturali avvenute tramite gli inevitabili incontri con altre civiltà (romani, barbari) e col cristianesimo poi. In questo caso, la cernita è stata più difficile, in quanto praticamente tutte le leggende sono state confezionate in un setting medievale, probabilmente per motivi di godibilità del lettore contemporaneo al Wolff1010; tuttavia grazie alla presenza di alcuni elementi narrativi di cui al prossimo punto, si è potuto distinguere quali leggende fossero più antiche e quali invece più moderne.

c) Caratteristiche proprie Elementi chiaramente appartenenti alla civiltà

ladina, come specifiche figure mitologiche, per esempio: l’anguana, la vivana, la gana e così via.

d) Figure femminili In caso di mancanza di figure femminili, non

è possibile analizzare la leggenda ai fini di questa ricerca per tanto in questo caso essa è stata scartata. Sono state selezionate quindi le seguenti leggende:

- La val da la Salyèryes
- L’usignolo del Sassolungo
- La Salvaria
- Il lago dell’arcobaleno
- La regina dei Crodères
- Elba
- Soreghina
- Tjan Bolpin
- Albolina
- Mano di ferro
- Le nozze di Merisana
- La fonte dell’oblio
- La capanna delle miosotidi
- Le due madri
- Conturina
- L’ultima Delibana
- L’Antelao e la Samblana
- La gamina
- Il regno dei Fanes
- Erlkönig1111

Segue un gruppo di leggende esplicitamente tarde1212, ma che contengono elementi narrativi così interessanti che non si è ritenuto corretto scartarle definitivamente.

Esse sono:

- L’ultima Delibana
- Il cavaliere dei colchici
- La figlia dell’albero
- Il canto fatale
- Donna Dindia
- Il bambino dell’ombra
- La moglie dell’Arimanno
- Bedoyela, la figlia della betulla
- Cadina

Le restanti sono invece state scartate per i seguenti motivi:

- I monti pallidi: sebbene la storia riporti diversi elementi di compatibilità con i criteri di selezione (la territorialità, le figure narrative, l’antichità)1313 essa è anomala rispetto alla tradizione ladina, in quanto racconta di una moglie che segue il marito nella sua terra e non viceversa, come vuole l’usanza, il matriarcato;
- La capanna del Seelaus. Non ha personaggi femminili. Inoltre è chiaramente tarda, in quanto cita il diavolo, elemento cristiano.
- Le bambole del Latemar. Tarda: contiene elementi cristiani e si parla di un mercante veneziano.
- I selvaggi del Latemar. Non ha figure femminili di interesse.
- Il fantasma del torrente Dopenyòle. Non ha figure femminili di interesse.
- Il pastore del monte Cristallo. Tarda, perché contiene elementi cristiani: gli Angeli, i Beati1414.
- Re Laurino. Extraterritoriale, tarda e priva di figure femminili di rilievo.
- L’Alpe di Siusi e il tempo promesso. È la coda del Re Laurino.
- La storia della padella. Non presenta figure femminili interessanti.
- La Layadira. Fuori dai limiti geografici (lago di Garda) e testo dichiaratamente spurio1515.
- Il gabelliere di Cornedo. Tarda, dichiaratamente medievale ed extra territoriale.
- I fedeli compagni. Extraterritoriale.
- Il selvaggio di Pontives. Non presenta figure femminili di rilievo.
- I fiori del Lagorai. Extra territoriale.
- Il genio del torrente. Anomala in quanto è l’unico caso in cui la divinità del torrente è maschile, quando invece le divinità dell’acqua sono sempre femminili. Potrebbe quindi essere tarda.
- Gli strioni del bosco Delamis. Tarda, medievale.
- Le fondamenta incantate. Tarda, medievale.
- La fanciulla di Giralba. Tarda, si parla già di Venezia città.
- La moglie ubbidiente. Tarda: vengono descritte delle professioni, come il mugnaio, il macellaio, il commerciante, il fabbro che alludono ad un’organizzazione sociale più progredita del 2.000 a.C.
- La moglie paziente. Extraterritoriale.
- L’uomo sul ponte. Extraterritoriale e non presenta figure femminili di interesse.

3. NUMI NATURALI

Sebbene sia improprio parlare di mitologia “ladina”, in quanto le popolazioni che abitavano il territorio popolato dai Ladini oggi non erano tali all’epoca in cui riferiscono le leggende1616, si userà per praticità questa definizione, in quanto è questo il termine che viene usato adesso.

Questa mitologia, dunque, non presenta delle divinità chiaramente terio/fitomorfe, come potevano averle gli Egizi, tanto per intenderci, piuttosto predilige divinità antropomorfe per le varie manifestzioni della natura a cui loro attribuivano un valore sacro, come l’acqua, la montagna, il sole e così via. Probabilmente non avevano luoghi di culto veri e propri in quanto la natura stessa fungeva da tempio, piuttosto avevano degli altari votivi dove venivano o presentate delle offerte o veniva celebrato il culto dei morti. Non sembra fosse una civiltà dedita ai sacrifici animali, per lo meno attorno al 2000 a.C.1717

Tra le divinità ispirate alla natura, troviamo:

a) La montagna Come tutti i popoli che abitano in alta quota, anche i Ladini non hanno mai considerato le montagne come blocchi di pietra inerti, bensì come elementi vivi e qualcuno addirittura sacro1818.

La montagna “partorisce” l’acqua, elemento essenziale per tutti gli esseri viventi; nutre e ospita gli animali che vengono allevati e cacciati dall’uomo; cela al suo interno metalli, elementi preziosi per la vita dell’uomo; protegge in caso di attacchi e fa crescere le piante che servono sia come nutrimento, ma anche come materiale indispensabile per l’uomo (legno per le case, fuoco, utensili). Qualcuna arriva anche ad arrossire, come se come se fosse dotata di un calore interno.

L’associazione di una montagna ad un essere umano, che è poi sempre una donna e mai un uomo contribuisce sia ad umanizzarla che ad ampliarne la sua potenza sacrale, che manifesta tramite fenomeni di rilievo, quali la caduta delle slavine, determinata dalla spietatezza di Tanna e del suo dolore; l’Enrosadira (il rossore) della Croda Rossa, generato dalla partecipazione della montagna ai sentimenti di Moltina; il triste canto emesso dalle rocce che è causato dall’ingiusta punizione di Conturina; la luce salvifica di Albolina emanata dalla pietra del monte.

Il passo dalla vivezza alla sacralità a questo punto è breve e diversi sono infatti i monti sacri all’interno dell’area selezionata: i Fanes1919, per il loro popolo omonimo; lo Sciliar per i gardenesi; la Marmolada per i Cajutes (o forse il monte Pore); il Monte Faloria per i Cadubrenes e poi ancora il monte Amariana e probabilmente tanti altri.

La montagna è rappresentata tramite queste figure divine:

1) le Comelles2020, che agiscono durante l’Enrosadira e fanno perdere il senno agli uomini;
2) i Crodères, i figli delle rocce, che abitano sulle Marmarole2121;
3) una regina/dea, Tanna, la regina dei Crodères e delle Marmarole, la regina dell’inverno che ha il potere di trattenere o di lasciare andare le valanghe o i massi2222. Sono assenti divinità maschili che rappresentino la montagna.
b) L’acqua e le sue divinità L’acqua, elemento originario per eccellenza, non che talmente presente nelle Dolomiti

da esserne una caratteristica peculiare, occupa all’interno della mitologia ladina un ruolo molto particolare: da una parte, essa è la creatura della montagna - l’acqua sgorga dalle rocce, come un mammifero nasce dalla sua mamma e come esso è viva, si muove; dall’altra è l’elemento che collega tutto e tutti: l’acqua serve all’uomo come alle bestie che egli caccia e alleva per vivere, l’acqua nutre i fiori, le piante e i campi. Infine si trasforma in pioggia, neve o ghiaccio. Non sorprende quindi che un elemento così importante venga costantemente citato (non c’è leggenda in cui non ci sia un riferimento chiaro all’acqua, sia esso ruscello, lago o fonte con poteri particolari) e che essa venga rappresentata con diverse divinità2323, quali:

1) le anguane, donne savie e benigne, sicuramente le più citate nelle leggende2424;
2) le Jarines2525, che hanno a che fare con la rugiada e di conseguenza i fiori;
3) le Mjanines2626;
4) le Ondine2727.

Sono assenti divinità maschili che rappresentino l’acqua. c) La neve e il ghiaccio Ambasciatori dell’inverno, la stagione dove tutto si ferma, dove tutto in qualche modo muore per poi ripartire, la neve e il ghiaccio sono le forme più temute dell’acqua. Col loro arrivo, si segnala il ritorno della stagione zero, della stagione che segna il punto di arrivo e di partenza della ciclicità dell’esistenza umana2828. La neve, il ghiaccio, il gelo, le slavine, sono elementi naturali inquietanti perché mettono in rilievo l’impotenza dell’uomo nei confronti della natura. Vengono temuti, perché generano morte e desolazione e l’uomo li eviterebbe tanto volentieri, come racconta la leggenda di Tanna2929. Eppure proprio questa leggenda insegna come essi vadano accettati invece nella loro interezza perché anch’essi fanno parte della ciclicità della natura e della vita e l’eliminarli non farebbe che guastare un movimento circolare fondamentale per l’esistenza di tutti all’interno di questo sistema.

La neve ha delle regine/dee:

1) Tanna, di cui abbiamo già parlato e la Samblana;
2) la Samblana, una figura molto simile a Tanna, in cui la Kindl, considerati gli innumerevoli paralleli, ha brillantemente scorto una possibile sovrapposizione delle figure.

Di lei si sa poco, piuttosto tanti frammenti3030:

a - si sa che era la principessa dell’inverno;
b - che aveva scelto come dimora l’Antelao3131 (per altro attaccato alle Marmaroles);
c - era benigna perché avvisava sempre gli uomini dei pericoli che li minacciano3232, anche se aveva un lato capriccioso3333;
d - aveva donato agli uomini la cipolla per curare i loro mali3434;
e - forse il faggio era il suo albero sacro, pianta da cui scaturiva una sorgente con proprietà terapeutiche3535;
f - alcuni dicono che governava sul popolo dei Maoi;
g - aveva un velo lunghissimo che si trasforma in ghiaccio e che necessita dell’aiuto di tante bambine per essere trasportato3636;
h - come Tanna, aveva una pietra azzurra3737 con la quale lei però si fece fare uno specchio misterioso con il quale dirigere la luce del sole invernale fino negli angoli estremi della valle. Questo è il “ray”, il raggio azzurro della Samblana3838.
3) Le Yemeles, le gemelle. Sono le aiutanti della Samblana:
a - “sono due bambine che si somigliano perfettamente e mano nella mano camminano sui costoni franosi e attraverso pascoli alpini. Le si incontra specialmente il mattino presto, quando l’erba è bagnata di rugiada. Alla vista di queste sorelle, bisogna fermarsi e salutarle molto gentilmente”3939;
b - anche loro avvisano gli uomini di pericoli come l’ombra, ovvero l’arrivo della poiana, l’avvoltoio degli agnelli. Lo fanno tramite un forte urlo e dei lampi, prodotti con uno specchio d’ottone, finché l’uccello non si allontana (gli uomini ringraziano indicando dei posti dove si trovano delle belle fragole4040);
c - sono loro che hanno donato la pietra azzurra alla Samblana4141.

4) L’Om da la Jacia, l’uomo del ghiaccio, per altro incontrato una sola volta, ne Le due madri. Di lui si sa che:

a - abita sul monte Aut sòra dona;
b - ruba i bambini, ma non più d’uno per famiglia;
c - li trasforma in pernici bianche4242.
d) Il sole

Altro elemento naturale di primaria importanza di cui però ci sono pervenuti purtroppo pochi elementi, la maggior parte contenuta nel ciclo (così definito dal Wolff) I figli del sole, di tradizione fassana, all’interno del tomo: I monti pallidi; altri invece provengono dalla leggenda Le nozze di Merisana, ampezzana, anch’essa contenuta nello stesso tomo citato qui sopra e infine qualcosa arriva addirittura dal ciclo dei Fanes.

La peculiarità di questa figura, che per altro rimane abbastanza defilata, è il fatto di essere l’unica maschile con una certa Ausstrahlung (è proprio il caso di dirlo) e di avere progenie non solo femminile. Purtoppo a causa della scarsità degli elementi a disposizione risulta difficile un’analisi più dettagliata di questa figura decisamente interessante.

Dal ciclo dei Fanes apprendiamo che: gli si rivolgeva un rito, probabilmente personale e propiziatorio che si faceva prima delle guerre.

Ne Il regno dei Fanes, infatti, Ey de Net compie il suo saluto al sole4343, per altro sul monte (sacro) Amariana, patria di Merisana, la regina delle acque e dei fiori (cfr. paragrafo g).

Dal ciclo fassano apprendiamo che:

1) è presente, ma non si manifesta mai;
2) tramite l’unione di Elba, sua figlia4444 con Bolpin (in apparenza un povero pastorello orfano, e invece di nobili natali4545 e dotato di

poteri anche lui, ovvero quello di conoscere il linguaggio delle volpi) ha un nipote Tjan Bolpin e una nipote, sua sorella Soreghina, anche se lei ha un altro padre4646;

3) tramite il nipote, va in sposo a una regina/ dea4747: Donna Chenina4848, probabilmente la dea dell’estate, cfr. paragrafo 13.

Dalla tradizione ampezzana, invece si sa che:

a - aveva un vero e proprio nome il re de Rajes, il re dei raggi;
b - va sposo a Merisana, la dea dei fiori e delle - ha un regno vastissimo, che si estende dietro l’Antelao.
e) La luna Sebbene non si siano riscontrati chiari e frequenti riferimenti a questo astro, Ulrike Kindl ha trattato l’argomento, in maniera così approfondita che in questo articolo si rimanda volentieri ai due volumi della professoressa: Miti ladini delle Dolomiti. Ey de Net e Dolasilla

e Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, entrambi pubblicati dall’Institut Ladina Micurà de Rü4949. f) Il vento e la tempesta Sulla base di quanto pervenutoci, i riferimenti a questi elementi naturali, vento e fulmini sono scarsi e la loro presenza è sporadica. Le loro figure divine sono:

5) Il vento delle tempeste, potentissimo, che tutto sradica5050;
6) i tarluières, i fulmini, che volano veloci e incendiano tutto quello che incontrano5151;
7) il Mortòj, che arriva in concomitanza di un grosso temporale. È una forma confusa e rossastra, che si solleva a mo’ di fantasma5252;
8) il Gigante delle tempeste, che altri non è che un gran vento, visto che il suo compito è strappare gli alberi e ripulire per benino

la casa di Donna Chenina dalla neve accumulata5353. In questo caso non si registrano figure femminili.

g) Fiori ed alberi

Il dato più eclatante tra quelli pervenutici, è il disequilibrio conferito a fiori e piante in merito ad attenzione e importanza: i primi ne ricevono tantissima, mentre i secondi, che per altro erano un elemento fondamentale per la vita dell’uomo, in quanto fornivano materiale per la costruzione, combustibile e base per costruire gli utensili, ebbene non ricevono che blandissimi accenni, anzi, quando ciò avviene, si fa risalire la loro origine ai fiori. La flora (almeno nella tradizione ampezzana) ha una sua regina/dea: Merisana, di cui si sa che:

1) governa anche sulle creature dell’acqua e dei boschi5454;
2) il suo regno si estende dal monte Cristallo fino alle montagne azzurre dei Duranni5555;
3) è una dea benigna;
4) cede il suo velo (elemento che ha in comune con la Samblana e Tanna) al larice per

rinforzarlo5656;

5) va in sposa al Re de Rajes, il re dei raggi (cfr. paragrafo sul sole).

I fiori, invece, come detto sopra, dovevano essere tenuti in alta considerazione, perché di alcuni ci viene tramandata anche la loro valenza:

6) il rododendro bianco, la trosilla in ladino:

estremamente difficile da trovare, ha tuttavia dei grandi poteri: ne La sorgente dell’oblio5757 annulla la ghirlanda incantata e malefica creata dalla streghe; ne La figlia dell’albero5858, dice alla madre senza figli come e cosa deve fare per averne;

7) i colchici, ne Il cavaliere dei colchici5959, sono collegati alla morte;
8) i tulipani, ne Il regno dei Fanes6060, anch’essi

hanno una funzione di oblio o di morte;

9) i non-ti-scordar-di-me: in apparenza non hanno un significato specifico, però un mazzolino

di fiori freschi viene messo nelle mani di Dsòmpo morto e ne I fiori del Lagorai, leggenda non presa in considerazione, dei non specificati “fiori azzurri”, forse i non-tiscordar-di-me, rappresentano le anime dei guerrieri morti. Si può azzardare che questi fiori avessero un legame con la morte6161;

10) i fiori del ferro. L’unico collegamento col significato trovato dal Wolff, ovvero dei fiori che possono indicare dei tesori (cfr. nota 55), lo si può trovare nei fiori del ferro deL’ultima Delibana6262;
11) la stella alpina: dono di una donna che non è umana, sia essa la principessa della

luna, ne I monti pallidi o della Samblana, la potente regina delle nevi6363, non ha però né poteri particolari né altre associazioni. Non finisce qui. I fiori, oltre ad essere una fonte di saggezza, oltre ad avere un collegamento con la morte, oltre ad essere un tramite tra l’uomo e i tesori della montagna, sono forieri di messaggi di pace (Tjan Bolpin, in Tjan Bolpin per segnalare alla moglie il suo ritorno, le mette accanto al letto il vaso coi suoi fiori preferiti; ne La Gamina, il principe che è stato prescelto per parlare con la Gamina che tormenta il paese, si presenta con un mazzo di fiori), ma soprattutto sono così importanti nel regno della flora, che è ad essi che si deve la creazione degli alberi: è il caso ne Le nozze di Merisana, in cui i tanti fiori, danno origine al larice6464 e ne La figlia dell’albero6565, in cui i fiori danno origine ad un particolare alberello che originerà i figli tanto attesi6666: esso partorirà una bambina, una femmina, che una volta adulta partorirà una coppia di gemelli, in questo caso maschi, di cui uno andrà poi restituito all’albero. Questo gesto ricorda molto l’episodio dello scambio delle gemelle con le marmotte ne Il regno dei Fanes, al fine di suggellare un’alleanza.

Nel caso della flora, quindi, c’è una regina dea, non ci sono divinità minori, non ci sono figure maschili.

h) Animali: uccelli

Di tutti gli animali che popolano e popolavano l’area geografica in questione, stupiscono gli scarsi riferimenti che ci sono giunti. Non si parla mai né di orsi né di lupi, né di camosci o stambecchi, né di lepri né di vipere. Ad eccezion fatta per le marmotte, animale totemico per eccellenza di tutto Il regno dei Fanes, di un unico riferimento alle lontre ne La capanna delle miosotidi ed un altrettanto unico riferimento ai pesci, in Erlkönig6767, gli unici animali di cui si parla con una certa diffusione sono gli uccelli. Anche a loro come ai fiori, viene affidato un significato ed una valenza precisa.

A) UCCELLI SAGGI

- il gufo ammonitore di Albolina che cerca di portarla alla ragionevolezza,
- la ghiandaia di Vinella: “Sono uccelli intelligenti che vanno sempre in giro, vedono e odono tante cose; certamente saprebbero dirmi che ne è stato di quel povero Gordo”6868.

B) UCCELLI CHE RAPPRESENTANO DELLE PERSONE

- streghe:
1) il pipistrello che incarna la Slavazza ne La pittrice del monte Faloria;
2) la filadressa (un rapace), che incarna la pittrice stessa;
3) il corvo, che incarna la Tsicuta, ne Il regno dei Fanes;- bambini:
4) le pernici bianche, ne Le due madri (l’Om da la Jacia ruba i bambini e li trasforma in pernici);
5) uccelli non meglio identificati ne La pittrice del monte Faloria: la ragazza si trasforma in avvoltoio, ruba i bambini e li trasforma in uccelli che mette poi in gabbiette.
- un popolo: le aquile dei Fanes;

C) UCCELLI CHE RAPPRESENTANO UN PASSAGGIO, UNA MATURAZIONE

- l’usignolo, ne L’usignolo del Sassolungo, rappresenta la maturazione della principessa che da adolescenziale ed egocentrica, diventa donna, apprendendo l’amara lezione che la crescita è a senso unico;
- la Pelna (una colomba verde) ne Il canto fatale: ninfa trasformata in uccello e costretta a morire non appena apprezza il cambiamento di vita che le è stato imposto per stregoneria6969.
- In questo senso, anche la ghiandaia de Lafonte dell’oblio, copre questo ruolo con Vinella7070:

chiude il ciclo della ragazza disperata, adolescenziale riaprendole quello di donna matura, serena, sicura delle sue scelte.

4. LA FELICITÀ NEGATA: RIFLESSIONE SUGLI UCCELLI E SULLA MORTE

Ulrike Kindl vede negli uccelli invece un chiaro nesso con la morte7171 e la sua affermazione è più che corretta, in quanto poggia su basi solide, di ampi studi condotti soprattutto sulla mitologia nordica che confermano ampiamente quanto da lei dichiarato. Tuttavia si vuole qui cogliere l’occasione per offrire una nuova interpretazione e una nuova riflessione, partendo proprio dell’ultimo punto del paragrafo precedente (ovvero uccelli che rappresentano un passaggio, una maturazione) e affrontare così una tematica ricorrente nella narrativa ladina: la felicità negata.

È il caso della principessa tramutata in usignolo, curiosa di vedere il mondo sotto altri occhi e che invece viene punita e per questo crudelmente condannata alla solitudine, crudelmente perché in maniera spropositata rispetto all’innocenza del suo gesto; è il destino ineluttabile e incomprensibile di Londo e la Pelna; è il marito della Gana che per sbaglio, dopo una vita d’amore, sfiora la moglie nel modo errato ed è costretto a vederla partire senza possibilità d’appello; è Salvanel, il figlio di Tanna, che paga con la vita la curiosità di conoscere suo padre; è Soreghina, muore per aver osato sapere di più e così via.

Tutte queste leggende, tragiche, sarebbero invece potute terminare bene anche con un insegnamento. Invece viene sempre preferito un finale ammonitore e negativo. Si sente come un’attrazione per la malinconia, elemento che permea in maniera palpabile praticamente tutte le leggende ladine. Perché?

Ulrike Kindl, invece vede nella morte la soluzione di un problema che non sarebbe così risolvibile in altro modo e che pertanto le leggende che terminano così si possono raggruppare insieme a tutte quelle che hanno una struttura classica del racconto:

1) situazione iniziale problematica;
2) allontanamento dell’eroe;
3) prova e ottenimento di un aiuto magico;
4) vincita sull’antagonista;
5) ritorno dell’eroe, messa a posto del problema iniziale, il cosiddetto happy end7272.

Nel pieno rispetto per la spiegazione data dall’illustre professoressa, in questo articolo si vuole offrire un’altra interpretazione: che rifletta un’attitudine specifica di un popolo, che preferisce non darsi sbocchi di felicità forse perché abituato ad una vita dura e di poche soddisfazioni quanto invece ammonirsi ad una vita retta, certamente ripetitiva ma sicura perché ben conosciuta7373?

Il dibattito è più che aperto.

5. CONCLUSIONI SUI NUMI DELLA NATURA

A seguito di questa prima galleria di ritratti delle figure che popolano le leggende ladine, troviamo conferma di quanto affermato in partenza, ovvero dello squilibrio tra potere e competenze a favore delle figure femminili. Ad eccezion fatta per l’Om da la Jacia, il Sole (citato, ma mai visto), gli elementi del vento e della tempesta, gli unici elementi maschili e non di particolare rilievo, tutto il resto è nelle mani delle donne.

6. SAGGE, SAGGI, STREGHE E STREGONI

Prendiamo adesso in considerazione una serie di personaggi che non hanno un’attinenza stretta con la natura ma che sanno mettere in comunicazione l’uomo con essa. Si tratta di figure benigne e maligne, le prime dotate di una grande conoscenza, tale da elevarle al di sopra del livello dell’uomo, mentre le seconde sono munite di qualche potere sovrannaturale, anche se in questo caso potrebbe trattarsi di ritocchi più tardi - le uniche figure dotate di “poteri” sono infatti le divinità naturali. La conoscenza delle figure benigne si può declinare nelle seguenti forme:

- a) la preveggenza;
- b) una grande saggezza: sanno ascoltare chi è in difficoltà emotiva e gli sanno spiegare il perché di questo loro momento, anche se non necessariamente sanno la difficoltà: la (grande) lezione ladina è che la vita spesso, a accettata così com’è (cfr. Tanna). Si può provare a capirla e questo può essere un aiuto, ma non si può sempre cambiarla a proprio favore.
- c) una grande conoscenza che deriva da viaggi, dall’anzianità, dall’aver accumulato esperienza e che permette anche in questo caso di aiutare.

Figure femminili benigne

1) Le Gane sono figure benigne, dotate di una conoscenza pratica7474, aiutano gli uomini che le trattano con gentilezza e arrivano persino a sposarli, ma esigono un rispetto ferreo su alcune condizioni che pongono (come quella di non toccarle col rovescio di una mano) pena lo scioglimento del matrimonio. Alton afferma che si possono rendere invisibili, ma non si è riscontrato in alcuna leggenda del Wolff.

2) Le Vivane. Alton le definisce il corrispondente fassano dei Salvans e delle Gane7575: senza nulla contestare a cotanta autorià, dalle leggende si ha più l’impressione che le Vivane, figure anch’esse benigne, siano più abitanti dei boschi che delle caverne e che la loro conoscenza non sia pratica quanto saggia. Insieme alle Anguane e alle Cristanne, si potrebbero quasi definire delle psicologhe ante litteram7676.

3) Le Cristanne. Figure molto simili alle Vivane a tal punto che è difficile distinguerle se non per il nome. Sono creature dei boschi, un po’ selvagge, benigne e dotate di saggezza. Come le Vivane e le Gane, non hanno a che fare con l’acqua7777.

4) Le Anguane divinità dell’acqua, viste nel paragrafo 2b. Sono figure benigne, pronte ad ascoltare gli uomini e a fornire consigli7878.

5) La Woedla, la vecchia della montagna Figura trovata unicamente ne Il bambino dell’ombra7979, e che trova il suo corrispettivo nel il Vögl de le Velme, fondamentalmente una vecchia saggia8080.

Figure femminili maligne

6) Le streghe8181 sono in genere vecchie, cattive, amano fare gli scherzi e stregare le persone (portarle alla pazzia). Si radunano periodicamente ma raramente ed con l’unico scopo di fare delle ridde selvagge o per prendere delle decisioni importanti. In questi casi è meglio girare alla larga se non si vuole fare una brutta fine. Alton spiega che “a preferenza sono donne, che si abbandonano all’odioso mestiere di strega, il che è però assai naturale, venendo attribuita la magia già nell’antichità quasi esclusivamente alle donne”8282.

7) La striona8383 è il capo delle streghe. È lei che le raduna oppure è a lei che si rivolgono le altre streghe quando non vengono a capo di una situazione difficile. Ne La fonte dell’oblio, ci viene detto che la striona cavalca una scopa di betulla e ne Le due madri, ci viene detto che è addirittura più cattiva de l’Om da la Jacia, l’uomo del ghiaccio.

8) Le bregostene: sono figure difficilmente distinguibili dalle streghe. Alton dichiara che sono la variante negativa e fassana delle Vivane, già definite come figure proprie della Val di Fassa8484.

Tra le varie streghe, spiccano:

9) La strega del Masaré: fugace apparizione, incontrata ne Il lago dell’arcobaleno, ma molto importante ai fini della nostra ricerca. La leggenda narra, infatti, di come lo stregone innamorato della bella ondina che non riesce a conquistare, si rivolga infine alla Strega del Masaré, che abita sul Vajolon, la quale lo sfotte un po’: “Vuoi essere un Mago e ti fai canzonare da una piccola Ninfa? Sei un gran Mago davvero! Un bambino sarebbe più furbo di te”. Lo stregone, indispettito, le rispose che la cosa non era tanto facile, che egli aveva già consultati altri due maghi e che, tutti e tre insieme, non aveva saputo trovare niente di meglio di quel che aveva fatto”. Ovvero c’è un uomo (maschio) potente messo in scacco da una ragazzina (non solo più giovane di lui, ma anche femmina) e che nonostante l’aiuto di altri due commilitoni (maschi) deve andare da una donna per venirne a capo - invano, perché la ragazzina la spunta comunque. La strega del Masarè la troviamo anche in Albolina (e ne Le bambole del Latemar, sebbene non sia una delle leggende prese in considerazione).

10) La Trude: strega incontrata solo ne Il bambino dell’ombra. Dall’aspetto di una bambina, essa è molto potente: sa rarefarsi per passare attraverso i buchi della serratura e il suo potere è quello di soffocare e spaccare le ossa di qualsiasi essere maschile - non femminile. Questo potere tremendo la Trude lo esercita però solo quando viene fatta prigioniera.

11) Ergobanda, incontrata solo ne Il cavaliere dei colchici, viene definita maga. In qualche modo è in contatto con la Samblana, visto che sa come inviarle le bambine in eccesso8585 e conosce incantesimi come: la dormya, il sonnifero che vale solo sulle donne; l’uso della timpena, la campanella che stordisce chi la ascolta e il frutto speciale, la mela che odora di fragola chiamata pitz de mayostra, kolm de frayes (colmo di fragole) che è il frutto della vita e chi ne mangia resta per sempre attaccato a chi gliel’ha donata.

12) La Slavazza, incontrata solo ne La pittrice del Monte Faloria. Si tramuta in pipistrello; sa confezionare un vestito magico, che trasforma la pittrice in avvoltoio (vestito che si trova nell’acqua del Lago Costalarghes - l’acqua è sempre presente) e probabilmente insegna alla pittrice come stregare i bambini e trasformarli in uccelli.

14) La Tsicuta. Sorella del terribile Spina de Mul, la troviamo ne Il regno dei Fanes. Persona lunatica, scontrosa e vendicativa, che va avvicinata con cautela, come ci ammonisce la cornacchia8686, conosce il potere obnubliante dei papaveri e abita sull’oscuro monte Migogn, in mezzo ad un campo di papaveri ed esce quando c’è temporale. Forse sa anche trasformarsi in cornacchia, l’animale che l’accompagna sempre. Il suo potere nasce dalla combinazione di tanto sapere e tanta cattiveria.

A conclusione di questa ricca e variopinta parata al femminile, è importante notare come il legame tra donne e streghe sia rilevante:

1) la dormya funzione solo con le donne - se un uomo beve la dormya ne muore8787;

2) la timpena il cui suo suono magico funziona anch’esso solo con le donne8888.

3) confidenza le donne preferiscono confidarsi con altre donne e anche gli uomini.

Qualche volta capita che ci si rivolga ad un salvan, ma in questo caso sono uomini che lo fanno.

Figure maschili benigne

Il mondo delle figure maschili benigne non è così ampio come quello femminile. Soprattutto due sono le caratteristiche che spiccano: ad esclusione dei Salvans, non ci sono figure positive e, sempre ad esclusione fatta per il Salvan, è molto raro che ci si rivolga ad un uomo per risolvere un problema. Andiamo a vedere chi sono, sulla falsa riga dello specchietto creato per le figure femminili.

Figure benigne

1) I Salvans, figure benigne, dotate soprattutto di un sapere pratico8989, ascoltano alla bisogna gli uomini e li aiutano come possono, anche se solo per indirizzarli a persone più comptetenti di loro. In genere sono gli uomini che si confidano con loro9090. Alton li definisce il corrispettivo maschile delle Gane9191 - sempre senza contraddire cotanta autorità, ciò un po’ stupisce, perché l’impressione generale che si ha è che le Gane siano figure femminili anche di una certa piacevolezza mentre i Salvans risultano più selvaggi, più rozzi e vengono spesso associati ai nani, per manipolazione del Wolff che li scambia, erroneamente, con molta disinvoltura9292;

2)i Vivani. Sempre secondo Alton, essi sono i mariti o i corrispondenti maschili delle Vivane9393, ma non sono stati mai riscontrati, né nelle leggende selezionate, né nelle altre;

3)i Cristanni. Non si riscontrano figure maschili corrispettive alle Cristanne;

4)gli Anguani. Non si riscontrano figure maschili corrispettive alle Anguane, né ad alcuna delle altre divinità dell’acqua, come “Ondini”, “Mjanini”, “Yarini”9494;

5)il Vögl delle Velme incontrato solo nel ciclo dei Fanes9595. È un vecchio saggio, che sa tanto perché ha viaggiato tanto e ha imparato tanto, anche cosa dicono le onde9696 (ancora una volta l’acqua, come ne La figlia dell’albero, funge da foriera di sapienza). A lui si rivolge Ey de Net, dietro suggerimento di un anguana, che lo reputa più sapiente di lei. Tante cose però neanche lui le sa, per esempio non se ne intende di magia e messo alle strette da Ey de Net, è costretto a rinviarlo alla Tsicuta (una donna);

6)il Matte de Adam, “un Fassano, del quale si diceva che sapesse dar consigli contro streghe, maghi e spiriti maligni”9797. Fugace ma solida apparizione di un saggio (lo si incontra solo ed unicamente ne Il canto fatale) che effettivamente sa tante cose e riesce a spiegare a Londo chi è la Pelna. E con questo abbiamo esaurito le figure maschili benigne, confermando quanto detto in apertura paragrafo: che il mondo maschile non è così ricco e variegato come quello femminile.

Passiamo adesso in rassegna le figure negative, sempre sulla falsa riga dello specchietto fatto per le donne:

Figure maschili maligne

7)Stregoni. Come già aveva spiegato Alton9898, le streghe sono essenzialmente donne, tranne che nel Livinallongo: “ (…) è un onore speciale di Livinallongo, che anche i maschi di quella popolazione si sien dati ad esercitare tale professione”9999. Ai fini di questa ricerca non si può fare a meno di notare la parola: onore.

Tra di essi spiccano:

8)lo Stregone del lago di Carezza, Il lago arcobaleno100100, che però fa decisamente più ridere che paura visto quanto è facile ingannarlo;

9)il Mago di Donna Dindia, Donna Dindia101101;

Si tratta di una figura potente, che si palesa a noi però attraverso i racconti della castellana che non per una sua effettiva presenza (comparirà fugacemente solo al termine del racconto). Lungi poi dal commettere atti efferati, sembra essere un mago che esercita piuttosto una forte pressione psicologica.

Di lui si sa che:

- vuole in sposa Donna Dindia ma che lei ha orrore di lui e lo respinge più volte;
- le regala lo “specchietto verde: uno specchio magico, che aveva il potere di svelare tutti i pensieri dell’uomo che vi si guardasse. (…)”102102;
- fa apparire fantasmi;
- le regala la Rajetta, dicendo che ha un valore inestimabile: la donna che la possiede rende suoi schiavi tutti gli uomini che le si avvicinano;
- pone la pietra sotto un drago. Se un cavaliere uccide il drago e prende la Rajetta entro un certo tempo, Donna Dindia sarebbe

stata libera, altrimenti sarebbe andata in sposa a lui;

- ammonisce invano il giovane cavaliere

inesperto;

10) il Numa de “L’ultima Delibana”103103: “un uomo pratico di magia”. A conti fatti nè non un mago né uno stregone, quindi. Infatti lui sa:

- il significato della parola misteriosa incisa sulla porta della miniera di Fursill, detta parola magica;
- conosce tutto il rituale del giorno dell’ingresso della Delibana nella montagna (compresa la posizione del corpo: “(…) Egli

stava a braccia aperte, immobile davanti al portone e sembrava che osservasse qualcosa. Improvvisamente si giò, gli sguardi erano tutti puntati su di lui ed egli disse: (…)”104104;

- non sa però come si confeziona il vestito della Delibana, indispensabile per la ricerca e la creazione del ferro all’interno della

montagna, perché questo invece appartiene alle donne;

11) l’Om da la jàcia, Due madri105105, che ruba i bambini e li trasforma in uccelli;

12) Tjé de Lu, “Due madri”:106106 “(…) Vedendolo ora in faccia si accorsero con terrore che non aveva viso umano: sotto il cappello rotondo sporgeva un muso di lupo. Era dunque Ce-de-lu, l’Uomo lupo, l’Inesorabile”. Nonostante la ferocia del suo aspetto, egli non ha che un ruolo più marginale nel racconto107107;

13) Spina de Mul108108: “(…) Era un potente e temibile mago, il quale, quando s’aggirava pei monti, prendeva l’abitudine e l’aspetto di un mulo mezzo putrefatto. La testa, il collo e le gambe anteriori erano ancora ricoperte di pelle, mentre di tutte le altre parti, rimanevano soltanto le ossa. Spina trottava sulle zampe anteriori e si trascinava dietro lo scheletro e ogni tanto emetteva quel tremendo grido che si era udito prima”. Incontrato solo nel ciclo dei Fanes, di lui si sa che:

- è un mago potentissimo, anche se non lo si vede mai all’opera;
- è il fratello della Tsicuta; - abita sul monte Formin, nel territorio dei Lastjères;
- si traveste o si trasforma, non è chiaro, con la pelle di un mulo putrefatto o in un mulo in decomposizione;
- si può abbattere con arco e con frecce oppure con una pietra.
- è lui che, grazie al suo sapere, riesce a confezionare le frecce mortali che bucheranno la corazza fatata di Dolasilla, resistente a tutto e la farà uccidere.
- è lui che dà il nome a Ey de Net109109.

7. CONCLUSIONI SULLE SAGGE, SAGGI, STREGHE E STREGONI

Spina de Mul è decisamente la figura di maggior spicco tra quelle negative maschili, anche perché a differenza di tutte le altre, gioca un ruolo narrativo consistente all’interno della saga dei Fanes. Per il resto, anche in questo caso, si appalesa come il mondo maschile, benigno o maligno, è un ambito più ristretto, meno sfaccettato e potente rispetto a quello femminile. Non solo, mentre le figure benigne femminili sono delle costanti all’interno della mitologia ladina, ovvero le si incontra ripetutamente in diverse leggende, non funziona così sul versante maschile, dove invece i personaggi sono legate unicamente alla leggenda che li presenta.

8. LA POTENZA DELLA FIGURA FEMMINILE

Mettendo insieme i dati fino adesso raccolti, passiamo adesso ad esaminare più nel dettaglio le caratteristiche di queste donne, regine, dee, sagge o streghe che siano e vedremo come il quadro che ne risulterà, presenterà una situazione ben diversa a quella a cui è abituato il lettore contemporaneo, imbibito di cultura patriarcale discendente dalla mitologica greco-romana e vivente in una società che si definisce paritaria.

Nella mitologia ladina, le figure femminili:

a) sono molto spesso le protagoniste del racconto - dal greco: protos, primo e agonista, lottatore. L’azione ruota attorno a loro a tal punto che spesso intitolano la leggenda stessa;110110

b) sono forti. Sono donne che, sebbene possano essere impaurite perché devono affrontare situazioni che portano conseguenze gravi, anche estreme, una volta decise, non si tirano dietro anzi affrontano tutto con grande determinazione. È del tutto assente l’immagine della damigella impaurita o in difficoltà;

c) dettano precise condizioni: ti aiuto/ti sposo solo se:

1 - tu mi prometti che non vorrai mai sapere il mio nome;111111
2 - non mi toccherai mai in questo modo;112112
3 - non mi chiederai mai la provenienza o una caratteristica fisica;113113
4 - se ti trasferisci dove vivo io e segui le regole del mio popolo;114114

d) esigono un rispetto ferreo e inderogabile per queste condizioni. I sentimenti per i loro uomini e per i figli che hanno con loro, per quanto essi profondi siano, vengono in seconda battuta e vanno sacrificati in onore della salvezza delle regole,115115 che poi corrispondono alla tradizione del loro gruppo di appartenenza;

e) sono spesso in funzione di comando supremo. Sebbene la narrativa ladina sia disseminata di figure femminili di tutti i tipi, dalle bambine alle donne molto vecchie, non è affatto infrequente incontrare regine, sia umane che dee. Eccole:

1) La regina dei Fanes
2) La regina dei Paghini
3) La regina dei Bedoyères
4) Tanna, la regina delle nevi
5) Moltina, la prima regina dei Fanes
6) Merisana, la regina delle Ondine
7) La regina dei Landrines
8) Donna Chenina
9) La principessa Dolasilla e sua sorella a gemella Lujanta
10) La regina madre di Cadina
11) La regina che istitutì l’ultima Delibana
12) La regina Lidia, l’ultima dei Cajutes, regina dei Fodomi
13) La principessa Ilda sua figlia, l’ultima Delibana
14) La regina del popolo delle Betulle
15) La Samblana, la regina dell’inverno.

f) a differenza degli uomini, solo (alcune di) loro si possono trasformare in animali;116116

g) sono le depositarie del sapere antico, che sia un linguaggio magico (la regina dei Fanes parla con le marmotte in una lingua diversa) o di come si confeziona un vestito con poteri particolari (L’ultima Delibana)117117;

h) aiutano chi è in difficoltà118118. Uomo o donna che sia, ci si rivolge alle in caso di problemi; non ci si rivolge praticamente mai ad un uomo;

i) sono figure sfaccettate, ricche di sfumature. Possono essere sia buone che cattive. Spaziano all’interno della società, dalla regina alla contadina, dalla giovane sposa alla vedova, dalla buona fata alla strega cattiva. Riflettono quindi i tanti aspetti dell’umanità.

j) hanno un nome che si ricorda119119.

La forza emanata da queste donne è tale da colpire il lettore odierno, che vive, almeno in occidente, in società che si definiscono paritarie ma che si sono lasciate da poco alle spalle il patriarcato.

Colpisce perché proprio al giorno d’oggi, ovvero quando la parità dovrebbe essere non solo la norma ma anche ben acquisita da tempo, si discute invece ancora molto sul fatto che le donne non occupino posti chiave, né all’interno di aziende, né in politica.

Addirittura si è presa in considerazione l’ipotesi di creare delle quote rosa per proteggere le donne che vogliono farsi avanti.

Le antiche donne ladine non avevano, come abbiamo visto, di questi problemi. Il loro potere e la forza era a tutto tondo, a cominciare dalla scienza, della conoscenza, di cui erano le depositarie.

E questo, si sa, da sempre è la forma di potere più forte. Probabilmente è proprio grazie a questa conoscenza che esse, a differenza degli uomini, sanno trasformarsi in altri esseri, dimostrando così inoltre di saper andare oltre i limiti dell’umano.

Sono quindi regine, ma anche fate, streghe. Il loro sapere spazia dal bene al male, dal terreno al divino. E chi è più potente può dettare le condizioni. O può anche aiutare gli altri, rendendosi ancora più prezioso. Sono riuscite a mantenere il loro status a lungo, anche quando ai bordi del Mediterraneo, civiltà altamente progredite come quella degli Egizi, professavano la parità120120 - che in realtà era nulla. Poi, inevitabilmente, col contatto con altre civiltà il matriarcato è venuto meno.

9. LA FIGURA MASCHILE NELLA MITOLOGIA LADINA

In una società così fortemente matriarcale, come si presenta l’uomo?

Egli è fondamentalmente una figura d’azione.
È concreto.
È contraddistinto da una professione chiara: un soldato (un arimanno), un boscaiolo, un cacciatore, un pastore, un contadino, un ambulante, un mercante.
Costruisce, munge, caccia, combatte, arrampica, accudisce le bestie121
Vuole delle cose: armi, tesori, pascoli per le sue bestie. Fa il burro o il formaggio. Oppure cerca moglie.

Esaminiamolo però più attentamente, sulla falsa riga dello specchietto stilato per le caratteristiche date per le donne:

a) tendenzialmente è coprotagonista, tranne in rari casi122 in cui è invece protagonista a pieno titolo;
b) è forte, ma viene sottolineato l’aspetto fisico della forza, non quello interiore;
c) non detta condizioni;
d) non avendo dato condizioni, non esige un rispetto ferreo123;
e) raramente è in funzione di comando supremo - a meno che non si tratti di leggende già medievali, dove possiamo trovare dei conti o dei signori, ma mai un re124;
f) non si trasforma in nessun animale;125
g) non è depositario di nessun sapere antico, a meno che non si tratti di una conoscenza pratica, inerente al lavoro;
h) non ci si rivolge a loro se si è in difficoltà;
i) non è una figura sfaccettata. È come si presentano;
j)

10. LA DEBOLEZZA DELLA FIGURA MASCHILE

Per il lettore odierno, imbibito di letteratura e cultura patriarcale, derivante soprattutto dalla mitologia greca, è una grandissima sorpresa incontrare delle donne forti - non tanto dal punto di vista fisico ma interiore (sapere e potere), così come lo è incontrare degli uomini che sono l’esatto opposto: forti solo fisicamente ma che per il resto sono drammaticamente, sorprendentemente, tristemente, perfidamente deboli.

Con l’unica eccezione di Tjàn Bolpin, unica figura maschile di eroe che riesce a superare tutte le difficoltà e a ricongiungersi con la sua amata, la mitologia ladina non offre altri eroi. Peggio: in tutte quelle situazioni in cui la posizione della donna è in un equilibrio instabile e per cui l’aiuto esterno e maschile è fondamentale (fondamentale perché in questi casi sono gli unici a conoscere bene la situazione e ad avere di conseguenza, tutti gli elementi necessari per la risoluzione di essa), ecco che di fronte alla nostra costernazione di lettori che osserviamo impotenti gli astanti, questi uomini, questi maschi ladini che potrebbero cambiare drasticamente le sorti della vicenda, migliorarla, ebbene essi sembra che non possano far altro che cadere irresistibilmente nell’accidia più profonda, come per incanto. Non riescono ad agire. E subiscono impotenti insieme a noi il decadere violento ed impetuoso della situazione.

È il caso eclatante di:

1) Il principe ne L’ultima Delibana. Sebbene profondamente addolorato di inviare una fanciulla nel ventre della montagna, tutta sola per ben 7 anni e nonostante egli abbia chiaro che unicamente lui la può liberare in uno specifico giorno ogni sette anni, e anche se questo sia il suo chiodo fisso, ebbene egli riesce magistralmente per ben 4 volte a mancare all’appuntamento126 rendendosi conto (con infinito rammarico, per carità) che dopo aver abbandonato per ben 28 anni una persona in fondo ad una montagna, essa probabilmente è morta.

2) Ne Il regno dei Fanes:

a - Il re dei Fanes tradisce il suo popolo. Non solo lo vende al suo proprio fratello, ma per raggiungere il suo scopo, non esita a mandare sua figlia a morire in battaglia insieme alla sua gente, mentre lui si nasconde sul Lagazuoi;

b - Il principe aquila. Figlio del re dei Fanes, su di lui poggia la cruciale rinascita del popolo sterminato. Egli è ben cosciente del suo ruolo e ne accetta l’incarico. Eppure in lui non c’è alcuna energia e infatti fallirà nel suo intento: dapprincipio cade vittima di un sortilegio della moglie, che lo fa addormentare per tre anni. Al suo risveglio, invece di adirarsi con lei per avergli fatto perdere un sacco di tempo, per aver perso le chiamate da parte delle aquile, si limita ad esprimere un certo rammarico ma nulla più (come il re de L’ultima Delibana). Finalmente riesce a partire, sebbene gli è chiaro che non tornerà mai più, che questa sarà la sua ultima battaglia: egli parte come se fosse un giorno qualsiasi, senza né un pensiero di più, senza un briciolo di forza in più;

c - Lidsanèl. Una Vivana spiega a Lidsanel che lui può diventare il re dei Fanes, ma avrebbe dovuto per tre volte reprimere il suo più grande desiderio. E Lidsanèl? Al momento buono, quando per tre volte gli si chiede quale sia il suo desiderio più grande, egli invece di rispondere che voleva le frecce infallibili ne dice un altro, dimentico del suo dovere e fallendo così completamente la sua missione;

d - Ey de Net, l’eroe in pectore del grande epos dei Fane, si rivela invece essere un ragazzotto di moderate ambizioni e permaloso, che invece di ambire ad offrire il massimo della protezione alla sua amata e a dimostrare al suo futuro popolo il suo valore, gioca di modestia127 e di pignoleria128, perdendo tempo a chiedere il perché del comportamento di Dolasilla invece di correre a salvarla. Risultato: Dolasilla muore tradita dal padre e abbandonata dal promesso sposo.

Questi sono i casi più eclatanti. Ma non è finita qui. Cosa dire di quei tre mariti129, a cui le mogli hanno detto chiaramente che non potranno mai sapere il loro nome o la loro provenienza, pena la separazione per sempre e che invece non appena per caso apprendono il nome della moglie e non vedono l’ora di correre a casa e dirglielo? Il terzo arriva addirittura ad implorare la moglie di rivelarglielo, perché lui non riesce più a vivere bene.

Essi mandano a monte tutto. Scientemente e inspiegabilmente, perché sembravano amare molto le loro mogli. Al di là delle facili battute che si possono fare oggi (erano mariti che si erano stancati delle loro mogli, altroché!), c’è del fascino in queste situazioni inspiegabili e angoscianti, dove c’è una chiara scelta di correre verso il baratro sebbene sembra che nessuno lo voglia. Perché lo fanno? Forse perché sono i primi germi della decadenza del matriarcato? Si sentono le prime spallate degli uomini che vogliono limitare le loro mogli e il loro dominio? Anche in questo caso il dibattito è più che aperto, ma la costernazione davanti a queste situazioni rimane grande. Seguono poi dei casi di debolezza di maggior ordinaria amministrazione, come:

1) Il padre di Albolina130: non riesce ad im porsi alla figlia capricciosa e quando viene incatenata dalle streghe, più che cercarla in lungo e in largo nei boschi non fa. Non riesce a trovarla, ma non gli viene mai in mente di rivolgersi direttamente alle streghe, per esempio, per chiedere come fare per riavere sua figlia.

2) Gordo131: per pura curiosità, decide di affrontare le streghe per poi esserne immediatamente catturato e fatto prigioniero da loro. Verrà salvato dalla donna che l’ha sempre amato, Vinella, l’unica persona di tutto il villaggio, per altro che si sia messa in gioco per lui - e lui non riesce a ricambiarla, perché dopo le streghe, cade vittima di sua zia, un’altra strega anche lei che non tiene Vinella in gran conto.

3) Il cantore di Donna Dindia132, giovane, confuso ed inesperto, palesemente non idoneo all’impresa (la leggenda insiste sulla sua giovinezza, anche per contrasto con Donna Dindia e il mago, due persone chiaramente più grandi di lui), ma sicuramente l’eroe della storia, fallisce miseramente nella sua impresa.

4) Il marito di Miola133 si accorge che la moglie favorisce anche ingiustamente la sua figlia di primo letto rispetto al fratellino appena nato, ma sebbene lanci qualche blando commento, non interviene mai veramente.

5) Il cavaliere de L’usignolo del Sassolungo134, invece di battersi per capire chi si cela dietro l’usignolo di cui lui si è perdutamente innamorato, muore (si suicida? si lascia morire? non è chiaro, ma è certo che che si lascia semplicemente andare al dolore invece di partire, per esempio, al fine di dimenticare questa situazione).

6) Londo135: si lascia morire anche lui, incapace di risollevarsi davanti ad una sorte avversa che si impersona sia in un padre che gli intima di fare cose che non gli piacciono a cui lui non riesce a ribellarsi che in un amore impossibile, a cui lui non riesce a sottrarsi e per cui addirittura muore di dolore.

7) Loogut136: un vero eroe - in partenza. Si tratta infatti di un figlio che si ribella al padre che cerca di imporgli una vita che ha scelto per lui mentre il giovane vuole cercare la sua strada. E così lascia la casa paterna. Lungo il suo cammino farà diversi incontri, alcuni belli, altri brutti, ma nonostante una partenza così promettente, ovvero di una persona matura, in grado di assumersi le sue responsabilità, orgoglioso e contento di affrontare il rischio dell’ignoto, ecco che invece poi si ripiega su sé stesso, si amareggia e scende vorticosamente in spirale fino addirittura arrivare al suicidio (unico caso in tutte le leggende - e lo dicono i personaggi stessi di Bedoyela).

Uniche eccezioni sono:

1) Tjan Bolpin137: scacciato dalla moglie, la potente donna Chenina, ritrova da solo la difficile strada per tornare da lei138.

2) Ghedìn139, il povero cacciatore, timido e taciturno, che non ha mai dimenticato la bella pittrice, sebbene sia andata in sposa un altro. Quando poi la ragazza sparisce misteriosamente, a differenza del marito, non smette di cercarla e quando, dopo anni, la ritrova sotto forma di strega crudele, capisce che la ragazza è solo vittima di un incantesimo ma che grazie all’amore, tutto potrà tornare come prima, anzi meglio di prima140. E così infatti succede.

3) Va aggiunto per correttezza, anche se è decisamente molto poco eclatante anche il caso del marito di Borina141. Il figlio del signore di Tires si innamora perdutamente di una figlia del legno, la più umile donna che potesse esistere. Nonostante la madre faccia di tutto per impedire il matrimonio, egli la sposa lo stesso. Quando nasceranno i nipotini, gemelli, la cattiva madre scaccerà la nuora e i piccolini dal castello. Il figlio, irritato con la madre, “resistette per sette giorni (sic) ma poi ordinò che fosse sellato il suo cavallo” e va a recuperare la moglie.

11. CONCLUSIONI SULLA DEBOLEZZA MASCHILE

È palese che la figura maschile si decisamente più limitata e più debole rispetto a quella femminile, tuttavia le conclusioni tratte nel precedente paragrafo vanno oltre ad un concetto di debolezza. L’accidia riscontrata da parte delle figure maschili richiama nella sua tragicità la tematica della felicità negata di cui nel paragrafo 4. Questi uomini, infatti, non sono affatto contenti di non riuscire ad intervenire. Sono disperati. Non sanno come fare né a risolvere la situazione, né a superare le loro stesse barriere. Si lasciano andare alla disperazione, alla negatività, alla passività. Il passare all’azione non viene mai preso in considerazione.

Perché?

Che queste leggende tramandino la secolare sfiducia di questi popoli nei confronti di una possibile azione dopo aver subito secoli e secoli di invasioni e sottomissioni? Perché si scegli di non dare speranza alle giovani generazioni che ascoltano queste leggende e imparano? Anche in questo caso il dibattito è più che aperto.

12. L’IMPORTANZA DEL NOME

I nomi, in tutto questo sono un dato importante. Ci sono nomi di personaggi così importanti che danno il titolo alla leggenda142, ci sono nomi così importanti che non vanno rivelati143 (donne) mentre ci sono personaggi che nonostante una certa loro importanza all’interno del racconto il nome non ce l’hanno affatto (uomini). Il nome è importante. È il nostro primo segno identificativo. È la prima domanda in assoluto che si pone a chi non si conosce; il primo dato riportato su qualsiasi documento. È col proprio nome che si passa alla storia, che si viene ricordati. Chi ha un nome e chi no, all’interno della mitologia ladina e perché?

Dati alla mano, in realtà i nomi pervenuti delle donne144 sono leggermente inferiori numericamente di quello degli uomini145: 31 a 34. Tuttavia dei 34 nomi maschili, 20 sono di personaggi che praticamente vengono solo menzionati e che morranno a breve nel racconto, mentre per quello che riguarda i personaggi femminili la situazione è ben diversa: sono attribuiti a personaggi che giocano un ruolo importante e anche se devono morire, la loro morte è foriera di significato e riflessione (cfr. per esempio Dolasilla). Con l’unica eccezione: Ey de Net, sorprende invece che quando i personaggi maschili svolgono un ruolo di rilievo nel racconto, può capitare che essi rimangano senza nome e che si preferisca invece descriverli in base al loro ruolo sociale: il principe, il padre, il re, il marito. Ey de Net non è nessuno, fino a quando non avrà un nome: il rito di passaggio del suo clan, dei Duranni, ha come scopo ultimo quello di conferire al futuro guerriero non solo una collocazione sociale chiara (diventare un guerriero), ma soprattutto di identificarlo, di dargli un’identità. Lo fa nascere ufficialmente. Allo stesso modo, ma per inverso, il re dei Fanes non ha un nome: egli non merita di essere ricordato, di passare alla storia. Tutto quello che l’eternità dovrà sapere di lui è che era “falso”. Stessa sorte tocca alla regina dei Fanes sua moglie, uno dei rari casi in cui una donna non ha un nome, forse perché è stata incapace di opporsi al marito trascinando così il suo stesso popolo alla rovina: neanche di lei si deve sapere il nome, deve essere dimenticata dentro una montagna.

Nemmeno del principe de L’ultima Delibana sappiamo come si chiama, né ne Il cavaliere dei colchici, si conosce il nome del principe erede tanto atteso né dei due terribili cavalieri a lui asserviti (si sa solo che sono il signor di Cambriath e il signore di Peutelstein); La croda rossa, non ci tramanda il nome del marito di Moltina, colui che è stato pronto ad abban donare il suo popolo e la sua terra pur di stare con l’amata moglie, colui che insieme alla sua sposa fonderà niente po po’ di meno che la stirpe dei Fanes. Di lui si sa solo che viene dal lago di Ladro ma egli è e resta il Principe. Piuttosto che il principe dei Paghini, che va sposo a Inugalda, in Erlkönig, non ha nome eppure compie gesta a non finire.

Perché?

In alcuni casi, come abbiamo visto, sono figure negative e vanno puniti con l’oblio, ma in altri casi, come ne La croda rossa? La conclusione a cui si è qui giunti è la seguente: anche quando gli uomini hanno un ruolo narrativo di una certa importanza, essi non hanno nome perché in realtà le vere protagoniste di tutti questi racconti, sono sempre e comunque le donne: ne Il cavaliere dei colchici sono la regina ed Ergobanda che organizzano tutto; ne La croda rossa è Moltina, quella che ha il vero potere (sa trasformarsi in marmotta a suo piacimento; è un tutt’uno con la montagna, che sebbene di pietra, “sente” come lei), ne L’ultima Delibana sono Lidis e sua figlia Ilda le vere protagoniste della storia e così via. Il matriarcato quindi dell’antica società ladina si riflette nella narrativa ladina non solo conferendo alle donne ruoli di maggior importanza ma permettendo soprattutto a loro di passare all’eternità conferendogli un nome.

13. LE TRE DEE: PRIMAVERA, ESTATE, INVERNO

Avvicinandoci al termine della nostra ricerca, prima di tirarne le conclusioni e sulla base di quanto elaborato finora ci piacerebbe azzardare un’ipotesi che concerne le divinità degli antichi ladini.

Ripensando alle tre regine/dee che abbiamo incontrato: Tanna, donna Chenina e la Merisana, alle loro competenze, sebbene sia ben chiaro che esse vivevano in tre aree diverse (Tanna sulle Marmaroles, donna Chenina sul Sella, Merisana sotto il monte Formin) si è pensato che potessero fare parte di una trilogia (o forse erano di più?) di divinità che organizzassero il tempo e le stagioni dell’uomo.

1) Tanna, la regina dell’inverno, che indossa la sua corona con la pietra azzurra e domina le slavine, i massi che crollano, il tempo che si ferma. Non ha marito.

2) Merisana, la regina del risveglio, della primavera, quindi, dei fiori che sbocciano, delle pieante che germogliano. Va in sposa al Sole, perché senza di lui tutto non ci può essere una rinascita, dopo il gelo dell’inverno.

3) Donna Chenina, la regina dell’estate, la regina che dorme durante tutto l’inverno146 e si sveglia quando i fiori sono già sbocciati e torna a dormire quando l’estate è finita. Anch’ella va sposa col Sole (o un suo parente, nel suo caso) perché anche lei ha bisogno di lui affinché la sua stagione si sviluppi appieno.

Una dea del risveglio, della primavera, così come una dea dell’inverno, della morte facevano molto probabilmente parte della mitologia ladina, visto che divinità simili erano presenti anche in altre culture147. Magari non erano in tre, magari non erano loro tre insieme, ma ne avevano altre, tuttavia ci piace offrire questo spunto di riflessione, considerato che i dati che abbiamo ricavato lasciano aperta questa possibilità

14. LA MUSICA, IL CANTO, IL CANTORE E IL MUSICO

Anche nel corso di queste ricerche si è rilevata la costante e importante presenza della musica e del canto.

Gli stessi testi che Wolff trascrisse, molto probabilmente erano originariamente opere cantate148, narrate per l’appunto da cantastorie - l’esposizione di cui tra l’altro, come per il ciclo dei Fanes ci volevano ben tre appuntamenti e si organizzavano dei teatri all’aperto per rappresentarli149.

Si è voluto esaminare anche questo aspetto delle leggende ladine dal punto di vista femminile e maschile e ne sono risultate delle osservazioni interessanti.

La più eclatante concerne il fatto che mentre il canto è appannaggio di entrambi i sessi, il suonare uno strumento invece appartiene solo all’uomo. Anzi, di più: può essere che l’eroe del racconto alle volte è proprio il musico e che non sempre egli è un uomo “forte” (come il cantore di Donna Dindia, o il Matte di Adam, ma non è invece il caso del principe di Erlkoenig o di Odolghes).

Ciò colpisce perché nella visione paternalistico/paritaria attuale, il canto, la musica in un uomo sono segni di cultura, di classe ma non generalmente attribuiti all’eroe, per cui invece si preferisce fondamentalmente la forza fisica e il coraggio. Tra le figure maschili troviamo:

1) Oswald von Wolkenstein in Mano di ferro150: “Osvaldo, divenuto giovanotto, venne a conoscere alcuni musicisti e fu preso da un grande amore per la musica. Ma nessuno poteva insegnargli a suonare”.

2) Odolghes, ne Il regno dei Fanes151: “Odolghes non era soltanto un prode guerriero, ma anche un cantore: dalla sua arpa non si separava mai, neppure in guerra”.

3) Il principe dei Paghini, in Erlkönig, altro prode (senza nome, al contrario di sua moglie, la principessa Inugalda), canta e suona152. (Il testo non è tradotto in italiano): “Was macht er?”; “Eigentlich gar nichts, erwiderte der Prinz”; “seine liebste Beschäftigung ist das werfen von Speeren; er wirft sie so geschickt, daß alle Zuschauer staunen; unter dem Kriegern der Lapònis gibt es keinen, der das Werfen von Speeren so trefflich verstünde”. “Sehr gut!” sagte di Königin; “und was versteht er sonst?”.

“Ich wüßte nicht”, versetzte der Prinz; er ist so faul und gedankenlos, daß man ihn nirgends brauchen kann; meist sitzt er am Seeufer und dichtet und singt”.

4) Il cantore di Donna Dindia, che non solo canta benissimo, ma sa anche suonare il liuto153.

5) Londo, ultimo dei nostri prodi, ha delle caratteristiche diverse: non suona alcuno strumento, ma sa cantare benissimo.154

Quando invece sono le donne a cantare, è proprio il caso di dirlo, è tutta un’altra musica. Ad eccezion fatta per l’Ondina che canta spensierata nel lago di Carezza e ha tutti gli uccelli raccolti intorno a lei per imparare a cantare, per tutte le altre figure femminili il canto è connesso a qualcosa di bellissimo ma tristissimo:

1) la principessa trasformata in usignolo, che canta la sua sventura: ha dovuto pagare un prezzo altissimo per la sua curiosità e ora è costretta a rimanere usignolo, L’usignolo del Sassolungo155;

2) Conturina, infitta nella roccia su di una rupe che domina il Passo di Ombretta, canta la sua triste sorte: la cieca gelosia di una madre che l’ha costretta ad un’eternità di pietra, Conturina156;

3) la Pelna, che canta la sua triste sorte di non poter mai godere della vita che sta vivendo e della morte che incombe su di lei, in Il canto fatale157;

4) la Filadressa, che col suo canto, tranquillizza e trasforma in uccellini i bambini che ha rapito e che poi metterà in gabbia, in La pittrice del monte Faloria158;

5) l’ultima Delibana, abbandonata nel ventre della montagna, deve vagare per gli antri oscuri cantando il canto magico che serve per trovare il ferro, in L’ultima Delibana159. Trarre delle conclusioni sul matriarcato attraverso la dimensione delle musica è difficile e forse anche inutile, mentre per quello che riguarda il suo ruolo all’interno dell’antica civiltà si possono forse invece azzardare delle ipotesi di un certo interesse.

Sebbene infatti le quattro figure di musici presentateci dalle leggende siano sicuramente rimaneggiamenti tardivi si può ipotizzare che essi si rifacessero a personaggi reali e che il canto e la musica fossero una presenza costante anche nell’antica civiltà, soprattutto in fase di rito160. Forse tramite di essi ci si metteva in contatto con le divinità161, forse, il ruolo di “sacerdote” era in realtà appannaggio delle donne che, come le Gane, le Silvane e le Anguane, erano le più sagge e conoscevano tutto il patrimonio antico e quindi tutti i canti, magari anche dei canti speciali, con valenza propiziatoria o di transfer mentre gli uomini l’accompagnavano con gli strumenti.

CONCLUSIONE

La ricerca svolta ha raggiunto l’obiettivo che si era posta: porre le prime basi di una riflessione circa la figura femminile all’interno della mitologia ladina.

Sono così state illustrate sia le figure femminili che maschili, risaltandone le differenze in ambito matriarcale; si sono aggiunte nuove chiavi di lettura, come la debolezza maschile, la felicità negata, e si è dedicato uno spazio proprio al ruolo della musica. Si è proposta una classificazione di dee per quanto riguarda la gestione della ciclicità della natura e delle vita.

Sarebbe interessante proseguire lo studio della figura femminile in tutte quelle favole successive, non più ladine, definite oggi “classiche” perché a ben guardare, anche in esse, sebbene non più generate da una società matriarcale, esse sono spesso protagoniste e forniscono il titolo alla storia: Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Biancaneve, Raperonzolo, La Bella Addormentata nel bosco, La Bella e la Bestia, Pelle d’Asino e molte altre ancora. 3 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum 1989, pag. 26;

4 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum 1989, pag. 27;

5 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 819: “Weil nun aber manche der in diesem Buche dargestellten Sagenmotive bis in die Zeit des Mutterrechtes zurückreichen und nur aus dem Zusammenstoß von Muterrecht un Vaterrecht verstanden werden können […]”;

6 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum 1989, pag. 826: “Der Untergang des Mutterrechts kann für Mitteleuropa und für das Mittelmeergebiet auf 2000 vor Christo angesetzt werden, also lange vor dem Auftreten der Griechen und der Römer. Darum besitzen wir auch vom Mutterrecht und den mutterrechtliche Gesellschaftsgruppen nur äußerst spärliche geschichtliche Angaben. Aus diesen Angaben, und aus den sozialen Zuständen bei einigen heute noch mutterrechtlich oder halbmutterrechtlich lebenden Naturvölkern haben die Rechtshistoriker, Soziologen und Ethnologen allmählich durch mühsame Vergleiche das absolute Mutterrecht erschlossen”;

7 Contemporaneamente al Wolff troviamo un altro grande autore e ricercatore, purtroppo morto prematuramente in guerra, il fassano Hugo von Rossi (1875-1940), che scrisse Fiabe e leggende della Val di Fassa, parte I del 1912 a cui avrebbe dovuto aver seguito la seconda parte, ma che resta purtroppo incompiuta; Karl Staudacher (1875- 1944), pusterese autore del Fanneslied, un poema in rime che racconta la leggenda dei Fanes; Angel Morlang, (1918 - 2005) ladino, Pieve di Marebbe, autore del testo teatrale Fanes da Zacan, che riprende sempre la leggenda dei Fanes. Sebbene non sia stato un autore specificamente letterario, è comunque doveroso citare anche Giovanbattista Alton, detto Tita (1845 - 1900) ladino di Colfosco. Egli passa alla storia soprattutto in qualità di grande linguista - il suo saggio: Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden, Fassa, Buchenstein, Ampezzo, Innsbruck, Wagner, 1879, viene considerato a tutt’oggi un importante testo di riferimento. Alton mostra uno scarso interesse per le leggende della sua terra, tuttavia compilò i Proverbi, tradizioni ed anneddoti (sic) delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni Editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, in cui fornisce cenni e dettagli sulla mitologia ladina. Ulrike Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Institut Ladina Micurà de Rü, 2013, pag. 199, cita anche don Giuseppe Brunel (1826-1892), di Soraga, val di Fassa, che non si dedicò solo alla stesura di testi dal contenuto religioso, ma fu anche autore di dialoghi, commedie e racconti. In particolare, il suo “Grottol, ossia dialoghi e scene pastorecce in Fucchiada di Soraga” (1869-1893) non rappresenta solo una felice pagina di letteratura ladina ottocentesca, ma anche un importante documento per la conoscenza del teatro popolare fassano.

8 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladina Micurà de Rü, 2013, pag. 200

9 M.A. Ferrari, In viaggio sulle Alpi, Torino, Einaudi, 2009, pag. 199: “Un tempo la Ladinia occupava una vasta area geografica, dall’Adriatico al Lago di Garda e su fino al Danubio. Poi, varie pressioni della storia l’hanno progressivamente ristretta fino a formare tre isole linguisticamente distinte: una nei Grigioni, con cinquantamila parlanti; un’altra nel Friuli, settecentomila; e una qui, nelle valli intorno al Sella, con trentamila persone che si definiscono ladini”. W. Pescosta, Storia dei Ladini delle Dolomiti, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2010, pag. 5: “I Ladini vivono in cinque valli periferiche della vecchia contea del Tirolo - Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e Ampezzo. […] In ambito scientifico, si distinguono i ladini delle cinque valli, chiamati ladini brissino-tirolesi (o anche sellano-ampezzani), dai gruppi neoladini del Veneto”.

10 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladina Micurà de Rü, 2013, pag. 200: “(Wolff) non si limitò a trascrivere i racconti uditi dagli anziani e dai pastori, ma cercò di sistemarli in organici studi di storia e mitologia, purtroppo secondo criteri spesso non consoni alla tradizione ladina, bensì presi a prestito dalla cultura germanica, a lui più famigliare”;

11 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, Nachträge pag. 669;

12 In esse compaiono figure , medievali, come l’Arimanno (La moglie dell’Arimanno, Bedoyela, la figlia della Betulla), o il tenzone del XIII sec. dalle parti di Braies raccontato poi ne Il cavaliere dei colchici, o la strutturata assemblea di Schöneck ne Il bambino dell’ombra;

13 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti, Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, pag. 80: “Il racconto, in origine sotto il titolo Die weißen Berge, ossia I monti bianchi, cambiato ben presto nella più ben fortunata formula de I monti pallidi, era composto secondo il gusto tardo romantico in auge all’epoca, narrando una storia d’amore un po’ kitsch, senza però alterare il motivo centrale, tanto scarno quanto sorprendente, senza alcun riscontro nei racconti eziologici limitrofi”;

14 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti, Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, pag. 70, considera anche questa leggenda antica perché la riallaccia al mito greco di Atalanta ed Ippomene: “Capofila delle numerose storie che hanno per tema l’immagine di una vergine, fiera e inavvicinabile, prima o poi vinta dalle leggi del fato, è la vicenda di Atalanta ed Ippomene, con ogni probabilità una variante della ricca mitologia, sorta attorno alla figura della dea Artemide”. Nel pieno rispetto per il giudizio della professoressa, in questo articolo invece si è preferito scartarla.

15 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti, Le signore del tempo, Istitut Ladin Micurà de Rü, pag. 74: “Wolff (…) era convinto, come si evince dalle sue annotazioni, che la tradizione deve essere stata diffusa in tutta l’area retoromanza, dai Grigioni svizzeri fino al Cadore. Si sentì quindi autorizzato a prendere molte singole storie, raccolte in varie parti dell’arco alpino e di farne una novella composita, inserendo liberamente motivi e strutture narrative in origine non appartenenti alle leggende riferente alla Layadira. L’autore stesso ammise candidamente di aver lasciato libero sfogo alla sua fantasia poetica, indicando expressis verbis le sue divagazioni (…)”.

16 Tramite le leggende di Wolff, sappiamo infatti che i territori esaminati erano abitati da diversi clan, tra cui: i Fanes, i Cajutes (sotto la Marmolada), i Lastojères (monte Formin), i Peleghetes, i Bedoyères (pusteresi), i Landrines (lago di Landro), i Cadubrènes (cadorini), i Paghini, e i loro nemici giurati i Laponis (che abitavano la Silliwena), i Duranni (bellunese), i Trusani (Treviso). Inoltre, come spiega bene Werner Pescosta nel suo Storia dei Ladini delle Dolomiti, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2010, pag. 5, è difficile parlare di Ladini perché: “La ladinità si cristallizza dunque partendo dalle differenze e dalle peculiarità che essa rappresenta rispetto alle culture circostanti. L’identità dei Ladini non trova alcun appoggio in una nazione e la sua origine non è riconducibile ad un preciso momento storico a ad una particolare evento epico, ma esiste di fronte alla presenza di alcune identità dalle quali si distingue”;

17 U. Tecchiati (a cura di), Sotciastel. Un abitato fortificato dell’età del Bronzo. Istitut Ladina Micurà de Rü, 1983, pag. 285: nel capitolo dedicato ai resti faunistici, Tecchiati parla a lungo della macellazione degli animali a scopo nutritivo, ma mai a scopo sacrificale;

18 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 200: “L’immagine stessa della montagna è associata al concetto del sublime in quanto rivelazione del divino e tutti i popoli residenti in zone montuose conoscono una particolare montagna sacra, cardine del mondo, venerata con profondo rispetto religioso. Che nell’ambito delle Dolomiti qualche montagna avesse goduto di questa particolare attenzione, non lo si può affatto escludere, tutt’altro: le leggende localizzate con cura in luoghi precisi per esempio nel gruppo delle Marmarole, sull’Antelao, sull’Altipiano di Fanes forniscono chiari indizi sulla percezione dell’ambiente. Ed è in questo contesto che va studiato il ruolo del paesaggio nell’immaginario ladino, indizio di un particolarissimo rapporto tra le gente del luogo e la natura de «I Monti pallidi»”. S. Vassalli, Terre selvagge, Rizzoli, 2014, pag. 9: “C’era nel centro-sud dell’Europa, una montagna che si vedeva da lontano nella pianura sottostante e che gli abitanti della regione dove si svolge la nostra storia, i Celti, consideravano la dimora delle loro divinità maggiori. Un luogo sacro [questa montagna si chiamava] il monte Ros”. C. Malaparte, Kaputt, Milano, Adelphi, 2009, pag. 372: “[…] L’isoletta sacra dei Làpponi, l’Ukonsari, il santuario pagano più celebre di tutta la regione di Inari. Là, in quell’isoletta a forma di cono, che il sole notturno tinge di rosso come il cono di un vulcano, gli antichi làpponi convenivano, in primavera e in autunno, per sacrificare le renne e i cani ai loro dèmoni. E ancora oggi i Làpponi hanno un timor sacro dell’Ukonsari, non vi approdano che in certe ricorrenze, mossi da un ricordo inconscio, forse da un’oscura nostalgia, delle antiche cerimonie pagane”. La stessa catena montuosa dell’Himalaya è considerata dai popoli che abitano lì vicino, la dimora degli dei e la montagna più sacra del mondo.

19 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La croda rossa, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 233. Nella bellissima leggenda de La croda rossa, in cui si racconta l’origine di questo popolo, viene ben evidenziato lo stretto rapporto di questa gente con la “loro” montagna grazie e soprattutto al loro animale totemico: la marmotta, animale che vive dentro la montagna. Lo stesso scambio delle gemelle, in: K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Le gemelle, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 14, sicuramente sanciva un patto con il loro animale totemico, ma si può anche intendere come uno scambio con la roccia (le marmotte, che abitano dentro la montagna, avrebbero portato la gemella a vivere con loro all’interno di essa) al fine di mantenere vivo il rapporto tra i Fanes, le marmotte e la montagna, così com’era avvenuto con Moltina. L’atto del mantenere “viva” la montagna lo si ritrova anche in: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’ultima Delibana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 34, in cui è necessario depositare una vergine nel ventre della montagna affinché quest’ultima possa generre del ferro e la conseguente prosperità per la popolazione che dipende dalla montagna e dal metallo.

20 K.F. Wolff, I monti pallidi. La capanna delle miosotidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 100: “A quest’ora, dalle grotte del loro altipiano, le Comèlles salgono sul campo ghiacciato della Fradusta e scherzano con la ragione degli uomini; molti che ora ragionano come noi, domattina avranno perduto la mente e il loro spirito sarà nella notte”;

21 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 106: “I Crodères, figli delle rocce, erano in tutto uguali agli uomini, ma non provavano mai né gioia né dolore ed era sempre tranquilli e indifferenti a tutto. Non facevano male a nessuno senza ragione, ma se un uomo chiedeva loro aiuto non c’era speranza che si muovessero, nemmeno se alzando un dito avessero potuto salvargli la vita. Non potevano sentire né odio né amore perché i loro cuori erano di pietra”.

22 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 105;

23 Su questo argomento è già stato detto tanto e bene che a scanso di ripetizioni, ci si limita ad elencare le divinità e a rimandare agli interessanti lavori di Ulrike Kindl e A. Vanin, citati nella bibliografia;

24 La capanna delle miosotidi, La croda rossa, La fontana dell’oblio, Il cavaliere dei colchici, La pittrice del monte Faloria, Il regno dei Fanes (Ey de Net cerca un’anguana per un consiglio);

25 K.F. Wolff, I monti pallidi. Albolina, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 151: “Ci chiamiamo Jarines e abitiamo nelle acque. Ma quando piove a dirotto, come oggi, ci piace uscire fuori e andare a guardare i fiori che crescono sulle rive. Senza di noi non ci sarebbero tanti fiori. (…) Questi calici sono pieni di rugiada: l’abbiamo raccolta per te questa mattina: sentirai com’è buona e quanta forza di darà”;

26 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, La risposta delle silfidi, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 65: “Ivi si trova un piccolo specchio d’acqua, che ora si chiama lago di Ghedina, dal nome dei proprietari, ma dagli antichi ampezzani veniva chiamato Lago Caldàra e dai Fanes Lec de Lunèdes (lago delle apparizioni). Se, in una notte di luna nuova, si batte con la tjatarula (bacchetta magica) l’acqua di questo lago, ne emergono le Mjanines: piccole e luminose figurine di silfidi, che si tengono per mano e camminano sull’acqua come su un terreno solido”.

27 K.F. Wolff, I monti pallidi. Il lago dell’arcobaleno, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 69: “In un tempo molto lontano, nel lago di Carezza, viveva una bellissima Ondina (…)” e anche in: Le nozze di Merisana, pag. 121: “Poco lontano scorre il Ru de ra Vèrgines, il torrente delle Vergini: i vecchi Ampezzani raccontavano che al torrente era stato dato quel nome perché era abitato dalle ondine”, e anche in K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, Erlkönig, pag. 669: “Eine Überlieferung berichtete, das Volk der Paghinis stamme von einem Prinzen ab, der vo Jahrtausenden in die Siliwéna gekkommen sei und am Ufer des großen Sees eine Wasserjungfrau kennengelernt habe, die er sich zur Gattin erkor”.

28 M.A. Ferrari, Dolomiti, rocce e fantasmi, Excelsior 1881, 2009, pag. 49: “In quest’idea del tempo, non come flusso di un costante progresso ma come circolarità sempre uguale (…)”, “Tutta la vita era proiettata in un ciclica ed incessante esistenza all’interno di un tempo circolare, il tempo dell’eterno ritorno”;

29 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1989: “I pastori si lamentavano che la loro vita e quella dei loro animali fosse sovente messa in pericolo dai sassi, grandi e piccoli, che si staccavano dai monti:

Tanna ebbe pietà e proibì ai sassi di cadere. I contadini che d’inverno andavano a far legna nei boschi avevano gran paura delle valanghe e Tanna proibì alle valanghe di rotolare. Anche i torrenti che si precipitavano furiosamente giù per i fianchi delle montagne minacciavano spesso la vita degli uomini e Tanna ordinò a tutti i torrenti del suo regno di scorrere lentamente e con calma. Dove una volta c’erano solo rocce inaccessibili e sentieri ripidissimi, Tanna per amore degli uomini fee crescere morbidi prati di erbe dolci e succose, splendidi pascoli per il bestiamo. E gli uomini erano felici e portavano alle stelle la generosa Rèina de li sCrodères e la colmavano di lodi e di ringraziamenti ogni volta che la vedevano”. Ma ogni gesto ha delle conseguenze: “(…) sulle punte (delle Marmaroles) si accumulavano immense masse di neve e di ghiaccio che andavano sempre crescendo”. I Crodères, imbufaliti contro la loro regina che non ha dimostrato di saper gestire il suo ruolo, le tolgono il potere di comandare alla neve. E quando Tanna ne ha bisogno per salvare suo figlio va dai Crodères: “(Tanna) descrive la condizione della montagna che è sovraccarica di ghiaccio e di neve e non può restare a lungo così: riconosce che la colpa è tutta sua, ma un tempo non capiva queste cose perché era giovane e inesperta. Ora comprende che la massa enorme di neve e di ghiaccio sfonderà prima o poi la montagna che dentro è vuota”. Intanto il ghiaccio cresce e comincia a coprire il pascoli e i pastori che prima osannavano Tanna, adesso la maledicono e la chiamano la Stria de la djassa (la strega del ghiaccio). Solo con la morte del suo adorato figlio, Tanna sblocca le montagne: “Tanna (dice parlando ai pastori) torna al suo popolo: tutte le forze della montagna, che furono tenute a freno per il vostro bene, vengono rimesse in libertà; tutti i miei antichi divieti, che servivano a proteggervi sono ora revocati”.

30 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 28: “Di Samblana, la severa regina dell’inverno, la tradizione ladina non racconta un’unica grande storia, bensì tanti piccoli particolari significativi. Forse si è perso il mito originario, forse non è mai esistito, forse l’immagine della dea primigenia è stata velata dietro la pia leggenda della “Madonna della Neve”;

31 L’Antelao e la Samblana, in K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 14;

32 Ibidem;

33 Ibidem: “(Si dice anche che) aveva voluto sottomettere anche i popoli vicini. Che era stata dissipatrice ed ogni anno si era fatta fare un vestito di velo e questo era sempre più sontuoso e sempre più lungo. (…) Per le non era mai abbastanza bello e sfarzoso pertanto faceva pagare sempre nuove imposte, finchè i suoi sudditi ne ebbero abbastanza. Allora essi si ribellarono, fecero prigioniera la principessa e la confinarono tutta sola lassù, sui monti di vetro”.

34 Non a causa di questa leggenda, è stato riscontrato che la cipolla abbia delle straordinarie proprietà terapeutiche;

35 Ibidem, pag. 15;

36 Ibidem: “(Quando gli uomini la confinarono sui monti di vetro, la Sabmlana stette). Lassù molti anni, isolata e dimenticata e sul suo lungo velo, disteso nei campi, cominciò a scendere il ghiaccio. Allora fece penitenza (…)”;

37 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 106: “(…) È seduta una donna vestita di un abito scuro, con un velo che le copre il viso e una corona azzurra sulla testa”, La corona azzurra è quella che conferisce il potere delle valanghe a Tanna: “(… sulle) Marmaroles si accumulavano immense masse di neve e di ghiaccio che andavano sempre crescendo, perché Tanna non permetteva che rotolassero giù in forma di valanghe. I Crodères erano indispettiti di vedere il loro inviolabile regno cadere a poco a poco in mano degli uomini, ma non potevano fare nulla: perché era Tanna che portava la corona azzurra e suo era il potere”.


38 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Antelao e la Samblana, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 14;

39 Ibidem;

40 Ibidem;

41 Ibidem;

42 U. Kindl, I miti delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 128, vede in lui un possibile emissario della Samblana;

43 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, La battaglia di Fiammes, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 39: “Il giorno precedente Ey de Nèt era salito prima dell’alba, sul sacro monte Amariana e aveva salutato il sole nascente, come soleva fare all’inizio di ogni guerra”. Per inciso, si noti anche la sacralità di un altro monte: il monte Amariana;

44 K.F. Wolff, I monti pallidi. Elba, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 159: “La fanciulla le raccontò che si chiamava Elba e che era una figlia del Sole”;

45 K.F. Wolff, I monti pallidi. Elba, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 160: “(Bolpin) era un trovatello, che alcuni cacciatori avevano scovato ancor bambino, in una tana di volpe, dove viveva d’amore e d’accordo coi volpacchiotti (… invece) doveva essere figlio d’un uomo di buona famiglia che abitava lassù, nel paese dei Cajutes, di là dal Vernel”. Bolpin ha il potere di conoscere la lingua delle volpi ed è sopravvissuto nonostante l’abbandono.

46 Molto interessante l’intuizione di U. Kindl, circa la possibilità che Albolina e Soreghina siano in realtà la stessa persona: l’area della leggenda è la stessa; il padre cattivo che però è preoccupato per la salute della figlia e disposto ad aiutarla con qualunque mezzo è decisamente simile; la malattia delle fanciulle e il rimedio è altrettanto decisamente parallelo. “Il nome della protagonista (Albolina) allude alla figura di Elba/Alba, l’argenta madre di Soreghina, la delicata figlia del sole, ambientata come pure Albolina, nell’Alta Val di Fassa. In origine, forse, i nomi di “Elba” come anche “Albolina” erano semplicemente degli appellativi per invocare la fulgente ninfa dei raggi del sole (…)”. “Come Soreghina, che può vivere soltanto quando splende il sole, la pallida Albolina rischie di morire del mal di notte (…)”, in U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013;

47 Anche donna Chenina è difficile che sia solo una donna: gestisce il Gigante delle tempeste, che le ripulisce la casa dalla neve ogni notte; dorme per nove mesi all’anno e non sembra invecchiare;

48 U. Kindl, op, cit. pag. 94, vede nel nome di donna Chenina una variazione di “chelina”, derivazione di aquila; in questo articolo invece si vuole leggere invece un collegamento alla parola “cane”, “canina”, che si riallaccia al tema del cane di Bolpin e del figlio;

49 Sicuramente I monti pallidi sono una leggenda che è incentrata sulla luna, ma a parte questa, che per altro ha degli elementi che non la rendono veramente ladina, almeno per come è giunta a noi, non si sono riscontrati altri riferimenti alla luna. Né sono stati riscontrati particolari riferimenti al numero 13, che spiega la Kindl, sono un indice del calendario lunare mentre innumerevoli sono stati i riferimenti la numero 7 - che può avere a che fare con la luna e la sua ciclicità di 28 giorni, così come può essere un numero aggiunto posteriormente, essendo altamente presente anche nella Bibbia. Del numero 7 e del numero 13: Conturina, ci vogliono 7 anni per liberarla; La moglie dell’Arimanno: un delitto commesso 7 anni prima; La Salvaria: vivono 7 anni d’amore e d’accordo; La capanna delle miosotidi: Jendsana si lamenta che deve aspettare 7 anni prima di riavere Dsòmpo (che poi diventano 13); La regina dei Crodères: Tanna vuole andare a vivere cogli uomini e ci sta per 7 anni; Le nozze di Merisana: il Re Rajes chiede in sposa Merisana il settimo giorno; Albolina: ci sono 7 bregostene; Elba: ad Elba viene tolto Tjan Bolpin e buttato in mezzo ai cani e passano 7 settimane prima che il cattivo re la convochi di nuovo al suo cospetto e le proponga di cambiare la situazione; Tjan Bolpin: impiega 7 ore di cammino per raggiungere il regno di Donna Chenina e poi passano 9 mesi in cui Tjan Bolpin vaga cercando di capire come può ritrovare il sentiero perduto per raggiungere sua moglie; La pittrice del monte Faloria: passano 49 mesi (7x7) da quando la povera pittrice, tradita dal marito, cambia vita e si trasforma in strega, dedicandosi unicamente alla vendetta così come passano 7 giorni da quando

ei lancia l’avvertimento all’ex marito Verloj e poi gli ruba il figlio; Dona Dindia vive d’amore d’accordo con Zan de Rame per 7 anni; Le due madri: passano 7 anni da quando Miola ha parlato con la Vivana, ma la sua figlia adottiva, Mèina ha da vivere 13 anni (le dice la madre defunta); La figlia dell’albero: la coppia vive 13 anni senza figli, ma devono passare 7 estati da quando la donna avrebbe dovuto fare la cerimonia dell’albero per avere un figlio così come 7 giorni dopo le nozze arrivano le fate a predire il futuro del bambino; L’ultima Delibana: la ragazza può essere liberata dal suo triste destino ogni 7 anni; Lidis impiega 13 anni per apprendere la storia della Delibana; Il cavaliere dei colchici: Ergobanda spiega alla regina che dovranno passare altre 7 settimane prima di rivedere un’arco lunare speciale; La gamina: ha 49 anni anni (7x7); Il bambino nell’ombra: la regina ha passato i primi 7 anni di matrimonio tristemente; per 7 volte in una notte Sharhart crede di soffocare e per 7 notti ha la stessa sensazione; Erlkönig: Inugalda ha 13 anni più del suo sposo. Altra leggenda in cui si fa un riferimento alla Luna, senza però che poi venga approfondito è Il cavaliere dei colchici, in K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Cappelli, 1989, pag. 104: dentro un arco lunare speciale, Ergobanda invia le anime delle bambine morte alla Samblana.

50 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 108: “Un bel giorno accadde che mentre Tanna passeggiava su un prato, il vento delle tempeste passò di lì per caso e la vide: colpito dalla sua bellezza, volò subito in cima al monte e domandò ai Crodères, che erano suoi buoni amici, se conoscessero un’affascinante fanciulla (…)”, e poi ancora: “E ogni giorno tornò a soffiare sul prato, dove per la prima volta aveva visto la regina, senza preoccuparsi né punto né poco dei danni che produceva agli uomini scotendo le loro case e sradicando gli alberi, finchè incontrò un’altra volta Tanna”;

51 K.F. Wolff, I monti pallidi. Tian Bolpin, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 180;

52 Ibidem, pag. 184;

53 Ibidem, pag. 188;

54 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Antelao e la Samblana, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 14: “Queste gentili abitatrici delle acque (le Ondine) e dei boschi ebbero una volta una regina, che si chiamava Merisana. Ella possedeva tutto quel che si poteva desiderare: erbe e fiori, cespugli ed alberi s’inchinavano a lei, le onde si abbassavano quando ella si avvicinava (…)”;

55 Ibidem;

56 Ibidem: “E quando in primavera il larice comincia a destarsi dal sonno invernale, è facile distinguere intorno ai suoi rami, rivestiti di sottilissimi aghi, il tessuto lieve del velo da sposa”, in K.F. Wolff, I monti pallidi. Le nozze di Merisana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 125, nota che conferisce un valore eziologico alla leggenda;

57 K.F. Wolff, I monti pallidi. La sorgente dell’oblio, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 263;

58 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La figlia dell’albero, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 201;

59 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 101;

60 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 47;

61 Interessante la nota di Wolff (non tradotta nella versione italiana) su i non-ti-scordar-di-me che inserisce all’interno della leggenda La capanna delle miosotidi: egli ne spiega il valore simbolico all’interno della tradizione leggendaria ladina, eppure nel racconto, i non-ti-scordar-de-me non hanno affatto il significato che lui descrive, né si trova in altre leggende. “Das Vergißmichnicht spielt in der Sagenwelt eine große Rolle. Es gehört (mit der Schlüsselblume und der Tulpe) zu den sogenannten Wunderblumen. Wer solche Blumen auf dem Hute trägt, findet der Eingang su den in den Bergen verschlossenen Schätzen und kann die Schätze heben. Er muß sich aber davor hüten. während dieser Handlung die Wunderblumen zu verlieren oder wegzulegen, denn sonst mißlingt ihm schließlich alles. Das Vergißmichnicht ist nun unter den Wunderblumen die Brauchbarste: denn wenn der Schatzsucher es liegenlassen sollte, so ruft es him zu: «Vergiß mein nicht!». Daher kommt auch der Name”.

62 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti. L’ultima Delibana, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 34: “In un luogo ormai dimenticato del monte Pòre c’era una conca tetra e paludosa chiamata Lyubàn che appariva spoglia. Talvolta, quando la sera era particolarmente bella, le alte rocce del monte Civita risplendevano di luce dorata. Ed allora, la notte seguente a Lyuban spuntavano i cosiddetti fiori del ferro (flores de fyèr) i cui steli contenevano sottili fili di ferro e d’oro. (…) Li usavano per uno scopo particolare: (intessevano una vesta per la Delibana e ciò conferiva al vestito) proprietà magiche: brillava, frusciava, suonava e tinttinava ed inoltre possedeva altre incredibili virtù (non specificate). (…) (Inoltre) per mezzo di una tjatarula (bacchetta magica) che doveva essere intrecciata con gli steli dei fiori di ferro, (la Delibana) avrebbe avuto buona speranza di scoprire un nuovo filone, aiutando così i minatori e tutto il paese”.

63 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Antelao e la Samblana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 17: “L’antica popolazione del Cadore pare abbia attribuito la nascita di questo fior alla Samblana. A Sèrdes, però, dove concorrono influssi ampezzani, mi descrissero (scrive il Wolff) il fatto come segue: Presso i nostri vecchi la stella alpina passava per il fiore più bello di tutti e credevano che la stella alpina fosse giunta dalla luna, da dove l’aveva portata la figlia del re della luna”.


64 K.F. Wolff, I monti pallidi. Le nozze di Merisana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 124: “(…) le piante avrebbero fatto sbocciare il loro fiori più belli e gli uomini e gli animali li avrebbero raccolti per portarli a lei. Nel giorno delle nozze v’era una quantità così smisurata di mazzi di fiori, che Merisana e le sue donne non sapevano più dove metterli. Allora due nani, venuti dal bosco di Amarida, dissero che con trante fronde e tanti fiori si poteva fare un albero e fecero il larice”. Leggenda a carattere eziologico, in cui in questo modo spiega il fatto che il larice sia l’unica conifera che perde gli aghi d’inverno: “È un albero strano, il larice. È una conifera e ne ha tutto l’aspetto, ma i suoi aghi non sono sempre verdi come quelli delle altre conifere e in autunno ingialliscono e cadono come le foglie degli alberi latifogli: questo accade appunto perché è un albero fatto con piante di ogni specie. E quando in primavera, il larice comincia a destarsi dal suo sonno invernale è facile distinguere intorno ai suoi rami, rivestiti di sottilissimi aghi, il tessuto del velo da sposa”.

65 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La figlia dell’albero, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 201;

66 Ibidem, pag. 202: “Erano veramente, quelli ricevuti dalla donna consigli un po’ strani. Un ramoscello di rododendri bianchi le aveva dapprima sussurrato di recarsi nel bosco e cercare un leggiadro alberello; rami ed erbe le avevano poi detto d’incoronare ogni giorno quell’alberello con ventisette fiori; le sorgenti le avevano ancora consigliato di far ciò durante sette estati; infine una grande sorgente, sgorgata fuori da un crepaccio della roccia le aveva gridato che giunta la fine della settima estate, ella avrebbe dovuto con un’ascia tagliare i rami dell’alberello e spaccarne poi il tronco”;

67 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, pag. 669;

68 K.F. Wolff, I monti pallidi. La fontana dell’oblio, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 223;

69 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti. Il canto fatale, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 185: “In realtà le Pelne non sono vere colombe, ma ninfe delle acque trasformate in uccelli per stregoneria. Sono timide, pronte a fuggire: non possono però allontanarsi troppo dalle acque alle quali appartengono e non possono volare molto in alto. Se qualcuno le insegue fino alle prime rocce, devon fermarsi e riprendere la loro figura di fanciulla e allora si può parlare con loro. Infine ogni Pelna ha un proprio canto fatale che le porta alla morte”.

70 Brillante davvero l’intuizione della Kindl, in U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Institut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 170 in cui riscontra un parallelismo tra le due leggende: L’usignolo del Sassolungo e Il canto fatale, ovvero il parallelismo della storia di due ragazze che vengono interrotte nel loro percorso della crescita, proprio quando, va notato, incontrano l’amore. La Kindl però riporta tutto invece all’ambito della morte: “Effettivamente, le due figure rilevate della ziriola (l’usignolo) gardenese-fassana e della “colomba verde” fodoma sono strettamente imparentate, ma ricoprono due ruoli ben distinti nella ricca immaginazione legata al mondo degli Inferi”;

71 Ulrike Kindl apporta un’altra osservazione circa gli uccelli: il loro forte nesso con la morte. “Che nell’ambito della tradizione ladina esistesse con ogni probabilità un nesso tra le anime morte e determinate visualizzazioni ornitoformi, lo suggeriscono molte leggende, troppe, per addebitare l’osservazione ad una pura coincidenza”. U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 140. E ancora: “Che i corvi, emanazioni teriomorfe delle divinità degli Inferi, accompagnassero le anime morte verso l’Aldilà, è un elemento ampiamente diffuso nella mitologia nordica presente pure nella tradizione ladina, visto che figure ambigue come la maga Tsicuta è accompagnato da un corvide, cornacchia o gazza che sia”, U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 128. Avremmo quindi: a. la filadressa, già citata, che ruba i bambini; b. il Variul, l’avvoltoio che si nutre di carogne e compare dopo il primo sterminio dei Fanes; c. il corvo della Tsicuta.

72 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomitensagen, Bd. 1, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 1983, pag. 41: “Erzählungen mit märchentypischen Sequenzen, also mit der typischen Abfolge: Anfängliche Notsituation (in Propps Formelsprache: i) - Ausfahrt des Heldens (x, X), - Probe und gewinn der magischer Hilfe (DEZ) - Überwindung der Antagonisten (LV) - Rückkerher des Helden, Behebung der Notsituation (Rm), das allbekannte glückliche Ende”, e poi, pag. 42: “(…) zu diesen typischen Märchen auch alle jene Erzählungen gezählt werden, die zwar eine lupenreine Märchensequenz haben, die als Schluß, als Behebung der Notsituation, den Tod oder eine Entrückung aufscheinen lassen, die dem Tod sehr ähnlich ist. In diesem Fall muß aber, damit die Märchenhaftigkeit stimmig bleibt, der Tod nicht als tragisch gesehen werden, sondern als Lösung einer Situation, die im Diesseits nicht mehr lösbar ist”.

73 AAVV, Gli eredi della solitudine, Verona, Ci Erre Edizioni, 1976;

74 La migliore descrizione delle Gane è stata fatta da G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, pagg. 8 e 9;

75 Op. cit., pag. 10;

76 Figura trovata in La moglie dell’Arimanno, La fontana dell’oblio, Le due madri. Interessante l’osservazione del Wolff, in: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 838: “Zu den Vivènes. Einer des vornehmsten Helden aus der Tafelrunde des Königs Artus ist der Ritter «Lancelot vom See», dessen väterlichen Abstammung man nicht kennt. Seine Mutter heißt aber «die Frau vom See» und wird “Viviàna” genannt”;

77 Figura trovata in Mano di ferro, Donna Dindia, Le due madri;

78 Figura trovata in La pittrice del monte Faloria, La fontana dell’oblio, La croda rossa, Il regno dei Fanes;

79 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il bambino dell’ombra, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 153;

80 Apparentemente abbiamo qui solo un fugace esempio di donna molto saggia ma che a ben guardare aggiunge invece importanti elementi alla nostra ricerca: la sua apparizione finale nel racconto, un donna, preannuncia la vittoria del duello a favore di Marhild, altra donna, contro Scharhart, uno sbruffone aiutato da una strega, donna, che però non si batte contro altre femmine, umane o animali che siano. L’elemento femminile ha decisamente il sopravvento;

81 Figura trova in Il lago dell’arcobaleno, Albolina, La fonte dell’oblio, Il bambino dell’ombra;

82 G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, pag. 14;

83 Figura trovata in Albolina, La sorgente dell’oblio, Le due madri;

84 G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, pag. 11. Figura trovata in Albolina, leggenda ambientata nella Val di Fassa, appunto.

85 “(Questi fiori) li chiamano Mirandoles o colchici; appartengono al giardino della Samblana e vi abitano le anime delle bambine che stanotte abbiamo spinto sotto l’arco della luna”. K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Cappelli, 1989;

86 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 48;

87 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 116. La dormya de lus, un sonnifero per mezzo del quale si restava storditi per lungo tempo. Ergobanda, spiega che “questa Dormya poteva essere pericolosa solo per gli uomini (è mortale), ma non per le donne”. La dormya viene citata anche in Erlkönig, in K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia, Spectrum, 1989, pag. 680: “Vor allem gebe ich (eine Alte, wieder eine Frau) Euch eine Dormya (ein Schlafmittel), das Ihr Eurer Gemahlin beim Abendessen irgendwie beibringen müßt; es ist ganz unschuldig, aber man schläft darnach sieben Stunden wie ein Stein”. Nella versione tedesca de La fonte dell’oblio, c’è un passaggio non tradotto in italiano, in cui si parla di una pozione magica (Zaubertrunk), distinguendolo bene quindi dalla Dormya (Schlafmittel), che viene infatti dato a Gordo, un uomo (se avesse bevuto una Dormya, ne sarebbe morto): “Als sie aber sah, daß Gordo keine rechte Lust hatte, mische sie ihm einen Zaubertrunk und schickte ihn schlafen; der Trunk sollte ihn gefügig machen”, in: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 266;

88 La timpena la troviamo ne: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Bologna, Cappelli, 1987 pag. 122, la troviamo anche ne: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Uomo sul ponte, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 235. Sebbene si tratti di una leggenda non presa in considerazione, è interessante comunque leggere la spiegazione di cos’è la timpena e di come questa abbia potere sulle donne: “La timpena è uno strumento musicale con il quale un giovane può conquistare il cuore di una fanciulla, sia che lei lo voglia o no”;

89 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomiten Sagen von K.F. Wolff, Bd 2, San Martino in Badia, Istitut Ladina Micurà de Rü, 1997 pag. 157: “Da sind die Salvans mit ihren zottigen Bärten, mit Kleidern aus Baumrinde und Fichtenflechte, mit ihren knorrigen Stöcken und ihrer brummigen Freundlichkeit. Sie treiben sich im Wald herum, aber hüten gerne die Tiere der Bauern auf der Weide. Sie wissen um die Geheimnisse der Käsezubereitung, scheinen aber selber keine Sennen zu sein. Auch Bauern sind es nicht, aber vom Bauernwetter verstehen sie eine Menge, und man tut gut daran, ihren Ratschläge zu folgen. Ob die Ganes ihrerseits mit ihnen verwandt sind, ob es ihre Mütter, Schwestern und Gattinen sind, das ist nicht klar”.

90 Come in: L’usignolo del Sassolungo, Dona Dindia, Il canto fatale;

91 G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, A. Forni Editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck, 1881, pag. 8;

92 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomiten Sagen von K.F. Wolff, Istitut Ladina Micurà de Rü;

93 Alton, op. cit., pag. 10;

94 Unico caso in cui si trova una divinità dell’acqua al maschile è ne Il genio del torrente, in K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 128 in cui la vecchia vestita di verde non meglio specificata, salva la ragazzina dalla violenza dell’acqua e la porta con se, dove c’è suo figlio e dice che essi “abitano nel torrente”. Proprio per quest’aspetto così singolare, ovvero di unico caso di divinità maschile dell’acqua, questa leggenda non è stata presa in considerazione;

95 Il Wolff, spiega: Der Alten von den Grün-Erlen, non tradotto in italiano. In: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 500;

96 “(…) Va a cercare il Vögl delle Velme, che ne sa più di me e potrà consigliarti. È un principe dell’antico regno dell’Aurona, il quale però, dopo aver girato molto il mondo, è tornato nel Padon per vivervi da mendicante, disprezzando oro e ricchezze. (…) Spesso scende al Ru d’Aurona, con i piedi nell’acqua ad ascoltare quello che dicono le onde; per questo sa tante cose”, in: K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 46.

97 Il canto fatale, in: K.F. Wolff L’anima delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 188;

98 G. Alton, op. cit., pag 14;

99 Ibidem;

100 K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 69;

101 Op. cit., pag. 245; 102 Op. cit., pag. 251;

103 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 34;

104 Op. cit. pag. 39;

105 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 138;

106 Op. cit., pag. 140;

107 Peccato che in italiano non sia stata tradotta l’interessate nota di approfondimento del Wolff su questa figura metà uomo/metà animale che ci introduce a Spina de Mul, di cui qui ne riportiamo solo una parte: “«Tjè-de-Lù», d.h. er Wolfskopf oder Wolfsmensch, ist ein Faturek (ein Gespenst), das in winterlichen Nächten auf den hohen Bergen umgeht. Man sieht ihn besonders vor dem Beginn eines Scheesturms. Niemand, auch der Mutigste nicht, mag mit Tjè-de-Lù zusammentreffen, denn dieser ist nicht nur boshaft und grausam, sondern auch sehr verschlagen. Deshalb nennt man ihn ‘den Unerbittlichen’ (…)”, in K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 283/4;

108 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Spina de Mul, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 18;

109 A questo proposito, è interessante riportare l’intuizione di A. Vanin, che vede nel duello tra Spina ed Ey de Net un passaggio rituale, che culmina colla nomina del giovane guerriero: “L’intera sequenza di combattimento altro non è che una cerimonia di iniziazione: il ragazzo deve sconfiggere le più ancestrali paure ed abbattere il fantasma della morte per ricevere il nome che lo ammette nella società degli uomini. È chiaro poi che lo stregone si “maschera” da mostro per incutere timore al fanciullo, ma in realtà oppone una resistenza soltanto simbolica. Il carattere “non-morto” del mostro è connesso al simbolismo di morte e rinascita legato al rituale iniziatico”. A. Vanin, Il regno dei Fanes. Analisi di una leggenda delle Dolomiti, Il Cerchio, 2013;

110 La moglie dell’Arimanno, Cadina, La Salvaria, La regina dei Croderes, Elba, Soreghina, Albolina, Die Frau des Wassermannes (impropriamente tradotto in: Il genio del torrente), Le nozze di Merisana, La figlia dell’albero, Due madri, La pittrice di Faloria, Dona Dindia, La fanciulla di Giralba, L’ultima Delibana, La moglie paziente, La moglie ubbidiente, La Gamina. Sebbene non tutte queste leggende vengono prese in considerazione, tuttavia è interessante la visione d’insieme: su 51 leggende, 18 hanno una donna nel titolo e di queste 18, 12 sono tra quelle prese in considerazione;

111 In K.F. Wolff, I monti pallidi. La Salvaria, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 79: “Allora il contadino tornò nel bosco e chiese alla fanciulla se voleva battezzarsi e sposarlo. Ella disse di sì, a condizione che promettesse di non domandarle mai il suo nome”. Ancora in op. cit., pag. 55, “Mano di ferro”: “Come io mi chiami non te lo dirò mai, perché se tu lo venissi a sapere dovremmo separarci per sempre. Ma qual è il mio luogo d’origine te lo posso dire: venni qui dal Rosengarten, il bel giardino delle rose che ora non esiste più”.

112 La ganna (sic), G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, A. Forni Editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck 1881, pag. 67: “Convien sapere, che ella lo aveva preso solo a condizione, che egli non la toccherebbe mai sul viso col rovescio della mano, giacchè in quel caso ella avrebbe dovuto andarsene”;

113 In K.F. Wolff, I monti pallidi. La capanna delle miosotidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 97: “Ci sono tre cose che non devi mai domandarmi e che non ti dirò mai: donde vengo, dove vado e che cosa ho sul braccio sinistro. (…) E lo pregò ancora una volta e con grande insistenza, di non chiederle più nulla, se voleva evitare una grande disgrazia che poteva colpirli tutti e due”. Interessante come alcune donne dicono il nome ma non la provenienza, altre dicono la provenienza ma non il nome. Qualcosa va tenuto celato.

114 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La croda rossa, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 245: (Dice Moltina): “Io mi sono vergognata così tanto da sentirmi morire; non ho il coraggio di tornare al castello; rimani tu piuttosto con me. Questa parve al Principe una strana proposta, ma siccome non voleva perdere Moltina, egli acconsentì a rimanere con lei sulla montagna”;

115 Le sovracitate Lonka, Antermoja, Jendsàna, la Ganna interromperanno bruscamente i loro matrimoni proprio per questo motivo: i loro mariti non hanno rispettato le condizioni richieste;

116 È il caso, per esempio, di Moltina, La croda rossa, che si trasforma in marmotta e poi di nuovo in donna a suo piacimento oppure di Jendsàna, La capanna delle miosotidi, che si trasformarsi anche in lontra o della pittrice del monte Faloria, La pittrice del monte Faloria, che si trasforma in filadressa, un piccolo falco e poi di nuovo in donna. Unico caso maschile, invece come abbiamo visto è Spina de Mul. Unica eccezione, di uomo/animale è l’Aquila de Il regno dei Fanes, che racconta di essere stata un tempo un uomo e di aver cambiato sembianze, per noia, ma di non poter più tornare alle sue fattezze originarie. Spina de Mul e Tjé de Lu appaiono con sembianze animali, ma neanche nel loro caso abbiamo assistito alla loro trasformazione, né da uomo ad animale né in senso contrario, così come di Tjan Bolpin si sa solo che sa parlare la lingua dei cani e delle volpi, ma non si trasforma mai in essi.

117 L’antico sapere proprio delle donne, arriva addirittura in Sarnthal/Sarentino. In uno dei magnifici Nachträge del Wolff, Der Schatz am Goldegg, non tradotto in italiano, una storia chiaramente di epoca medievale, si dice: “(…) Inzwischen hatte ein Knappe der Brautmutter Rita von Ravenstein ein Schriftstück überreicht, das sie langsam öffnete, um es vorzulesen. Denn es war dazumal Brauch, daß die Damen lesen und schreiben lernten, die Herren aber nicht (mit Ausnahme der Geistlichen)”, in: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 746. Sempre in un altro dei Nachträge, Die Sängerin von Karneid, pag. 805, neanche questo tradotto in italiano, si legge: “(…) Sie ist ein sehr nettes Mädchen und jetzt 16 jahre alt (…). Sie war neulich mit ihrer Mutter hier und brachte etwas Schönes mit, woran sie arbeitet: es handelt sich um ein von einem Bozener Buchbinder mit Kunst und Geschmack hergestelltes großes Buch aus Pergament mit starken und schön verzierten Deckeln. Ingildis, so heißt sie, hat sich nun daran gemacht in dieses Prunkbuch mit viel Aufwand von Fleiß und Geschiklichkeit die Lieder eines alten, fast vergessene Sänger einzutragen; in der Vorlage sind sie sehr schlecht geschrieben, fast unerleserslich, aber in den klaren Schrift von Ingildis und in dem herrlichen Buche, werden sie ganz vortrefflich ausnehmen”.

118 Gli esempi sono innumerevoli: ne La Val da la Salyèryes, il pastore della che non trova l’acqua per le sue greggi ma viene aiutato da una gana; in Albolina, Albolina che aiuta l’Armanno in difficoltà sulla roccia; in Soreghina, Soreghina che recupera Ey de Net svenuto sulle rocce, ne L’ultima Delibana, Ilda che grazie al suo sacrificio aiuta il padre, attaccato da tutta la popolazione;

119 Sarebbe bello poter aggiungere un’altra caratteristica: “Non temono di sfidare l’intera società, se ritengono di essere nel giusto”, come da splendido ritratto di Marhild di Haydeshaus, ne Il bambino dell’ombra;

120 L’Egitto ha conosciuto donne di grande influenza, di cui si dice che abbiano anche regnato per qualche tempo. In realtà se hanno avuto accesso al potere è stato perché accanto al loro marito, padre o figli, com’è il caso di Cleopatra o di Nefertiti. La manciata di donne regnanti, come Nicotris, Arsinoe II, hanno avuto una vita politica molto breve e che finisce nel nulla, senza lasciare praticamente traccia;

121 Nelle fiabe più tarde egli sarà anche un uomo di potere (un conte, un signore);

122 Più le leggende sono tarde, più il matriarcato viene meno, più gli uomini sono protagonisti: La Salvaria, Mano di ferro, Cian Bolpin, Il canto fatale, Il bambino nell’ombra, Il cavaliere dei colchici, La capanna delle miosotidi, Il regno dei Fanes;

123 Troviamo dei re infastiditi per aver delle figlie come eredi, ne Il cavaliere dei colchici in K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 101, oppure o ne Il regno dei Fanes, ma i mariti non avevano mai posto delle condizioni a questo proposito. Anche ne Gli stregoni del bosco Delamis, in K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 213, leggenda che non è stata selezionata, si trova un marito geloso, ma non che avesse posto condizioni prima del matrimonio.


124 Tranne il re dei Fanes, messo in ombra dalla figlia; il re dell’Ultima Delibana, che non è che una marionetta nelle mani della moglie e della figlia; il Re Raies, di Merisana, che ha un ruolo del tutto marginale nel racconto e infine il re dell’Ultima Delibana, che però è una marionetta tra le mani di sua moglie Lidis, prima e in quelle di sua figlia Ilda poi;

125 Tjan Bolpin conosce il linguaggio dei cani e delle volpi (ma perché ha una mamma speciale, la figlia del sole), ma non si sa trasformare;

126 Il primo appuntamento lo manca perché è suo padre che gli proibisce di lasciare la casa, inchiodandogli degli assiti a porte e finestre, ma non solo una volta liberato fa praticamente un plissé, ma i successivi appuntamenti li manca tutto da solo!;

127 Memorabile il colloquio tra la Tsicuta e Ey de Net. “Ey de Net spiegò che non se la prendeva a cuore per il re dei Fanis, ma desiderava far parte dei guerrieri di Dolasilla soltanto per proteggere lei, che era una vittima innocente dell’ambizione paterna”. La Tsicuta squadrò da capo a piedi, con uno sguardo ironico, il suo interlocutore e poi gli disse: “Ho capito, tu ti contentera di tenerle la staffa. Benissimo. Vi sono uomini che hanno grandi ideali, altri che mantengono le loro aspirazioni in limiti modesti: è affare di gusti”, in K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Sull’oscuro Migògn, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 50.

128 “(…) Ey de Net le pregò (le Mjanines) di dirgli perché Dolasilla non avesse mantenuto la sua promessa (di non andare a combattere senza di lui). Perché non poteva fare altrimenti, risposero le silfidi. Ma tu avresti dovuto avere fiducia in lei”, in K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, La risposta delle Silfidi, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 65;

129 Oswald von Wolkenstein, Dsòmpo e il contadino de La Salvaria;

130 K.F. Wolff, I monti pallidi. Albolina, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 141;

131 K.F. Wolff, I monti pallidi. La sorgente dell’oblio, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 223;

132 K.F. Wolff, I monti pallidi. Donna Dindia, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 245;

133 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Le due madri, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 129;

134 K.F. Wolff, I monti pallidi. L’usignolo del Sassolungo, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 45;

135 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il canto fatale, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 185;

136 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bedoyela, la bimba della betulla, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 22;

137 K.F. Wolff, I monti pallidi. Tjan Bolpin, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 171;

138 K.F. Wolff, I monti pallidi. Tjan Bolpin, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 189: “Povero Tjan Bolpin - dice donna Chenina - l’ho trattato troppo duramente; in verità mi ha fatto andare in collera una volta sola e la sua colpa non era poi molto grave. Gli uomini non possono essere perfetti… Bisogna che io lo mandi a cercare. Certamente da solo non può trovare la strada”. A questo punto Tjan Bolpin saltò fuori dal suo nascondiglio, esclamando: “Eccomi, sono qui. E ho trovato da solo la strada per tornare da te”.

139 K.F. Wolff, I monti pallidi. La pittrice del monte Faloria, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 191;

140 K.F. Wolff, I monti pallidi. La pittrice del monte Faloria, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 201: “Giovane, cosa fai su queste rocce?” - gli chiese la filadressa - son venuto per rivederti” rispose Ghedin - e per chiederti ancora una volta se vuoi essere mia moglie. Sei tanto bella [Ghedin sta parlando con un falchetto] che vorrei guardarti sempre. Sei un po’ cambiata, è vero, ma io so che è opera d’incanto; vedo bene che sei sotto il dominio di una cattiva strega e te ne voglio liberare”.

141 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La figlia dell’albero, Bologna, pag. 201;

142Cfr. con la nota 101;

143 Lonka, Antermoja e Jendsana. Anche ne Il bambino dell’ombra, in K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 164 c’è un accenno all’importanza del nome, al fatto che non è un dato che si dia via così facilmente. Quando Marhild infatti incontra Scharhart, lui non le piace. Sente la sua arroganza. Pertanto quando lui le chiede il suo nome, lei non glielo dice. Gli dirà solo come si chiama il maso. “Ohi” - chiamò (Scharhart) - ragazza o come ti chiami, dimmi: come si chiama questo maso?”. La giovane si raddrizzò e disse: “Questo maso si chiama Haydeshaus

144 1) Conturina, omonima; 2) Lonca, La Salvaria; 3) Jendsàna, La capanna delle miosotidi; 4) Tanna e Marcòra, La regina dei Crodères; 5) Merisana, Le nozze di Merisana; 6) Albolina, omonima; 7) Elba, omonima; 8) Soreghina, omonima; 9) Donna Chenina, Tjan Bolpin; 10) Filadressa, La pittrice del monte Faloria; 11) Vinella, La fontana dell’oblio; 12) Donna Dindia, omonima; 13) Miola e Mèina, Due madri; 14) Borina, La figlia dell’albero; 15) Molta, Moltina, La croda rossa; 16) Cadina, omonima; 17) Lidis, Ilda, L’ultima Delibana; 18) Gamina, omonima; 19) Ergobanda, Il cavaliere dei colchici; 20) Marhild, la Trude, Il bambino dell’ombra; 21) Dolasilla, Lujanta, la Tsicuta, Sommavida Il regno dei Fanes; 22) Antermoja, Osvaldo von Wolkenstein; 23) Pelna, Il canto fatale; 24) Inugalda, Erlkönig;

145 1) Verrènes, Cadina, il guerriero fidanzato con lei, il cui destino è quello di venir dimenticano tra le mani dei nemici Trusani (e la leggenda si intitola come la sua fidanzata); 2) Dsòmpo/Ciompo, La capanna delle miosotidi; 3) Salvanel, La regina dei Crodères, il figlio di Tanna, il cui destino è di morire; 4) Rèi de Rajes, Le nozze di Merisana, (la leggenda però si intitola come da sua moglie); 5) Tjan Bolpin/Cian Bolpin; 6) Verloj e Ghedin, La pittrice di Faloria, (ma la leggenda si chiama come la donna); 7) Gordo, La sorgente dell’oblio; 8) Tita, Le due madri, il bambino che poi morirà; 9) Scharhart, Heriprecht, Hildebolt, Adalprecht von Anerberg (questi tre muoiono subito), Walafried di Fröllerberg, Aza-Man, Isamhart, Paldwin von Puren, Immo von Kyènes, Volkart von Pfalenz, Reginald von Reyprechting, Pering il Ploner, Baldram von Bandhäusl, Gezo von Gifen, Gisalolt von Getzenberg (gli ultimi otto solo menzionati, ma non hanno alcun ruolo attivo nel racconto), in: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il bambino nell’ombra, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 180 e al; 10) Londo e Matte de Adam in: K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il canto fatale, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 185; 1) Ey de Net e Spina de Mul, Lidsanèl, Odolghes, Il Tarlui, Sabia de Fek, Vögl delle Velme, Il regno dei Fanes; 12) Osvaldo von Wolkenstein, in: K.F. Wolff, I monti pallidi. Mano di ferro, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 53;

146 K.F. Wolff, I monti pallidi. Tjan Bolpin, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 176: “Ogni notte quassù dura nove mesi. Noi dormiamo sempre per tre stagioni e siamo desti solamente d’estate”. Si può supporre che se una notte da donna Chenina dura nove mesi, allora un giorno ne può durare tre, la durata dell’estate.

147 Anche se più tarda, si pensi alla storia di Proserpina e di Cerere e del cambio delle stagioni;

148 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomitensagen, Bd. 1, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 1983, pag. 31: “Wolff hörte immer wieder, daß es über die Sagenkerne, die er aufschnappte, «Lieder» gegeben habe, und das ist nun in der Tat das ein Problem: jahrhundertealtes, vor allem balladenartiges Liedgut - wie es zu erwarten wäre - ist nicht überliefert”, e ancora, pag. 31: “Es ist nun also keineswegs ausgeschlossen, daß es zu den Sagentrümmern früher auch Lieder gegeben hat, und Wolff füllte seine frühen Notizhefte (bis 1906) auch noch mit einigen Strophen”.

149 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 14: “Eine wichtige Rolle spielten einst im öffentlichen Leben der Dolomiten-Ladiner die Frelicht - Bühnen auf denen sonnigen Wintertagen mehrstündige Vorstellung gegeben wurden. Man kehrte den Schnee weg, legte Bretter auf den Boden, und die Zuschauer standen so, daß sie die Sonne im Rücken hatten. Die Darsteller spielten im vollen Sonnenschein. Während der Pausen (aber nicht während des Spieles) wurde stehen gegessen. Besonders ergreifende Auftritten mußten merhmals wiederholt werden. Bei Sonnenuntergang (kan sorèdl va florì, d. h. wenn die Sonne blühen geht) eilte man in die Häuser, und nun erst wurde gekocht. Die Bühnenkunstler verstande sich meist auf das Vortragen von Liedern und auf das Erzählen. Diese wurde in den Spinnstuben geübt”.

150 K.F. Wolff, I monti pallidi. Mano di ferro, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 53;

151 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 110;

152 K.F. Wolff, in Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 672;

153 “Una sera si presentò al castello un giovanissimo cantore, con un viso roseo da fanciulla. Naturalmente nessuno lo prese sul serio, ma fu lui che vinse il torneo e quando la sera nella sala del castello egli cantò accompagnandosi al liuto, tutti furono presi d’ammirazione”, in K.F. Wolff, I monti pallidi. Donna Dindia, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 246;

154 “La musica era la sua compagnia, il suo conforto e anche nella notte di veglia presso le magiche fonti passò le lunghe ore ripetendosi mentalmente le sue melodie preferite”, in K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il canto fatale, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 189;

155 K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1989;

156 Ibidem;

157 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1989;

158 K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1989;

159 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1989;

160 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 835: “Die Cantastorie oder Filìpes (Erzähler, Spielmänner) bildeten einen eigenen Stand, der sehr angesehen war und wahrscheinlich aus heidnischen Priestern (rituelle Sängern) hervorgegangen ist”;

161 C. Pinkola Estés, Women Who Run With Wolves, London, Rider, 1992, pag. 157: “In mythos, singing is considered to issue from a mysterious source, one that enwisess the whole creation, all the animals and the humans and the trees and plants and all who hear it”; pag. 158: “Song is a special kind of language that accomplihes this in a way the spoken voice cannot. Since time out of mind, the song, like the drum, has been used to create a non ordinary consciousness, a trance state, a prayer state. All human and many animals are susceptible to having their consciousness altered by sound”

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  1. U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 108: “La Grande strada delle Dolomiti, viene inaugurata nel 1907 dopo anni di difficilissimi lavori. La strada, ancora oggi una delle vie panoramiche più suggestive d’Europa, fu progettata su iniziativa di Vienna, capitale della monarchia asburgica, per scopi strategico militari. Lo stato maggiore austriaco, che osservava con crescente preoccupazione l’irridentismo italiano alla frontiera meridionale del vasto impero, decise di rafforzare le retrovie e di attrezzare il territorio impervio delle Dolomiti con infrastrutture moderne. Il progetto della “Grande strada” fu immediatamente sostenuto con entusiasmo dall’imprenditoria turistica d’avanguardia e si rivelò vitale per lo sviluppo del territorio. Wolff, scrittore e giornalista, lavorò allora a pieno ritmo per la promozione delle Dolomiti appena scoperte dai viaggiatori di fine secolo. Tra le sue opere più notevoli va ricordata, appunto, la “Grande strada delle Dolomiti” (Monographie der Dolomitenstraße, Bozen, 1908), un testo assai particolare, vero e proprio documento del nascente turismo alpino”.
  2. proprio documento del nascente turismo alpino”. 2 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 1983, Bd. 1, pag. 5: “Das ist Wolffs Arbeitsweise: er sammelte keineswegs volkskundlich korrekt, sondern bearbeitete das jeweils vorgefundene Erzählgut mehr oder weniger frei”. Per chi volesse approfondire l’argomento, rimandiamo ai paragrafi: 2. Anmerkung zur Rezeptionsgeshichte des Buches, pag. 13, op. cit. e al 3. Das Problem der kiritischen Definition der Dolomitensagen, pag. 21, op. cit.
  3. K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum 1989, pag. 26
  4. K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum 1989, pag. 27;
  5. 5 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 819: “Weil nun aber manche der in diesem Buche dargestellten Sagenmotive bis in die Zeit des Mutterrechtes zurückreichen und nur aus dem Zusammenstoß von Muterrecht un Vaterrecht verstanden werden können […]”;
  6. K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum 1989, pag. 826: “Der Untergang des Mutterrechts kann für Mitteleuropa und für das Mittelmeergebiet auf 2000 vor Christo angesetzt werden, also lange vor dem Auftreten der Griechen und der Römer. Darum besitzen wir auch vom Mutterrecht und den mutterrechtliche Gesellschaftsgruppen nur äußerst spärliche geschichtliche Angaben. Aus diesen Angaben, und aus den sozialen Zuständen bei einigen heute noch mutterrechtlich oder halbmutterrechtlich lebenden Naturvölkern haben die Rechtshistoriker, Soziologen und Ethnologen allmählich durch mühsame Vergleiche das absolute Mutterrecht erschlossen”; 7
  7. 7 Contemporaneamente al Wolff troviamo un altro grande autore e ricercatore, purtroppo morto prematuramente òin guerra, il fassano Hugo von Rossi (1875-1940), che scrisse Fiabe e leggende della Val di Fassa, parte I del 1912 a cui avrebbe dovuto aver seguito la seconda parte, ma che resta purtroppo incompiuta; Karl Staudacher (1875- 1944), pusterese autore del Fanneslied, un poema in rime che racconta la leggenda dei Fanes; Angel Morlang, (1918 - 2005) ladino, Pieve di Marebbe, autore del testo teatrale Fanes da Zacan, che riprende sempre la leggenda dei Fanes. Sebbene non sia stato un autore specificamente letterario, è comunque doveroso citare anche Giovanbattista Alton, detto Tita (1845 - 1900) ladino di Colfosco. Egli passa alla storia soprattutto in qualità di grande linguista - il suo saggio: Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden, Fassa, Buchenstein, Ampezzo, Innsbruck, Wagner, 1879, viene considerato a tutt’oggi un importante testo di riferimento. Alton mostra uno scarso interesse per le leggende della sua terra, tuttavia compilò i Proverbi, tradizioni ed anneddoti (sic) delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni Editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, in cui fornisce cenni e dettagli sulla mitologia ladina. Ulrike Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Institut Ladina Micurà de Rü, 2013, pag. 199, cita anche don Giuseppe Brunel (1826-1892), di Soraga, val di Fassa, che non si dedicò solo alla stesura di testi dal contenuto religioso, ma fu anche autore di dialoghi, commedie e racconti. In particolare, il suo “Grottol, ossia dialoghi e scene pastorecce in Fucchiada di Soraga” (1869-1893) non rappresenta solo una felice pagina di letteratura ladina ottocentesca, ma anche un importante documento per la conoscenza del teatro popolare fassano. 8
  8. U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladina Micurà de Rü, 2013, pag. 200;
  9. 9 M.A. Ferrari, In viaggio sulle Alpi, Torino, Einaudi, 2009, pag. 199: “Un tempo la Ladinia occupava una vasta areageografica, dall’Adriatico al Lago di Garda e su fino al Danubio. Poi, varie pressioni della storia l’hanno progressivamente ristretta fino a formare tre isole linguisticamente distinte: una nei Grigioni, con cinquantamila parlanti; un’altra nel Friuli, settecentomila; e una qui, nelle valli intorno al Sella, con trentamila persone che si definiscono ladini”. W. Pescosta, Storia dei Ladini delle Dolomiti, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2010, pag. 5: “I Ladini vivono in cinque valli periferiche della vecchia contea del Tirolo - Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e Ampezzo. […] In ambito scientifico, si distinguono i ladini delle cinque valli, chiamati ladini brissino-tirolesi (o anche sellano-ampezzani), dai gruppi neoladini del Veneto”.
  10. 10 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladina Micurà de Rü, 2013, pag. 200: “(Wolff) non si limitò a trascrivere i racconti uditi dagli anziani e dai pastori, ma cercò di sistemarli in organici studi di storia e mitologia, purtroppo secondo criteri spesso non consoni alla tradizione ladina, bensì presi a prestito dalla cultura germanica, a lui più famigliare”;
  11. K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, Nachträge pag. 669;
  12. In esse compaiono figure , medievali, come l’Arimanno (La moglie dell’Arimanno, Bedoyela, la figlia della Betulla), o il tenzone del XIII sec. dalle parti di Braies raccontato poi ne Il cavaliere dei colchici, o la strutturata assemblea di Schöneck ne Il bambino dell’ombra;
  13. 3 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti, Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, ag. 80: “Il racconto, in origine sotto il titolo Die weißen Berge, ossia I monti bianchi, cambiato ben presto nella più ben fortunata formula de I monti pallidi, era composto secondo il gusto tardo romantico in auge all’epoca, narrando una storia d’amore un po’ kitsch, senza però alterare il motivo centrale, tanto scarno quanto sorprendente, senza alcun riscontro nei racconti eziologici limitrofi”; 1
  14. U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti, Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, pag. 70, considera anche questa leggenda antica perché la riallaccia al mito greco di Atalanta ed Ippomene: “Capofila delle numerose storie che hanno per tema l’immagine di una vergine, fiera e inavvicinabile, prima o poi vinta dalle leggi del fato, è la vicenda di Atalanta ed Ippomene, con ogni probabilità una variante della ricca mitologia, sorta attorno alla figura della dea Artemide”. Nel pieno rispetto per il giudizio della professoressa, in questo articolo invece si è preferito scartarla
  15. U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti, Le signore del tempo, Istitut Ladin Micurà de Rü, pag. 74: “Wolff (…) era convinto, come si evince dalle sue annotazioni, che la tradizione deve essere stata diffusa in tutta l’area retoromanza, dai Grigioni svizzeri fino al Cadore. Si sentì quindi autorizzato a prendere molte singole storie, raccolte in varie parti dell’arco alpino e di farne una novella composita, inserendo liberamente motivi e strutture narrative in origine non appartenenti alle leggende riferente alla Layadira. L’autore stesso ammise candidamente di aver lasciato libero sfogo alla sua fantasia poetica, indicando expressis verbis le sue divagazioni (…)”.
  16. 6 Tramite le leggende di Wolff, sappiamo infatti che i territori esaminati erano abitati da diversi clan, tra cui: i Fanes, i Cajutes (sotto la Marmolada), i Lastojères (monte Formin), i Peleghetes, i Bedoyères (pusteresi), i Landrines (lago di Landro), i Cadubrènes (cadorini), i Paghini, e i loro nemici giurati i Laponis (che abitavano la Silliwena), i Duranni (bellunese), i Trusani (Treviso). Inoltre, come spiega bene Werner Pescosta nel suo Storia dei Ladini delle Dolomiti, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2010, pag. 5, è difficile parlare di Ladini perché: “La ladinità si cristallizza dunque partendo dalle differenze e dalle peculiarità che essa rappresenta rispetto alle culture circostanti. L’identità dei Ladini non trova alcun appoggio in una nazione e la sua origine non è riconducibile ad un preciso momento storico a ad una particolare evento epico, ma esiste di fronte alla presenza di alcune identità dalle quali si distingue”;
  17. U. Tecchiati (a cura di), Sotciastel. Un abitato fortificato dell’età del Bronzo. Istitut Ladina Micurà de Rü, 1983, pag. 285: nel capitolo dedicato ai resti faunistici, Tecchiati parla a lungo della macellazione degli animali a scopo nutritivo, ma mai a scopo sacrificale
  18. 8 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 200: “L’immagine stessa della montagna è associata al concetto del sublime in quanto rivelazione del divino e tutti i popoli residenti in zone montuose conoscono una particolare montagna sacra, cardine del mondo, venerata con profondo rispetto religioso. Che nell’ambito delle Dolomiti qualche montagna avesse goduto di questa particolare attenzione, non lo si può affatto escludere, tutt’altro: le leggende localizzate con cura in luoghi precisi per esempio nel gruppo delle Marmarole, sull’Antelao, sull’Altipiano di Fanes forniscono chiari indizi sulla percezione dell’ambiente. Ed è in questo contesto che va studiato il ruolo del paesaggio nell’immaginario ladino, indizio di un particolarissimo rapporto tra le gente del luogo e la natura de «I Monti pallidi»”. S. Vassalli, Terre selvagge, Rizzoli, 2014, pag. 9: “C’era nel centro-sud dell’Europa, una montagna che si vedeva da lontano nella pianura sottostante e che gli abitanti della regione dove si svolge la nostra storia, i Celti, consideravano la dimora delle loro divinità maggiori. Un luogo sacro [questa montagna si chiamava] il monte Ros”. C. Malaparte, Kaputt, Milano, Adelphi, 2009, pag. 372: “[…] L’isoletta sacra dei Làpponi, l’Ukonsari, il santuario pagano più celebre di tutta la regione di Inari. Là, in quell’isoletta a forma di cono, che il sole notturno tinge di rosso come il cono di un vulcano, gli antichi làpponi convenivano, in primavera e in autunno, per sacrificare le renne e i cani ai loro dèmoni. E ancora oggi i Làpponi hanno un timor sacro dell’Ukonsari, non vi approdano che in certe ricorrenze, mossi da un ricordo inconscio, forse da un’oscura nostalgia, delle antiche cerimonie pagane”. La stessa catena montuosa dell’Himalaya è considerata dai popoli che abitano lì vicino, la dimora degli dei e la montagna più sacra del mondo.
  19. 9 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La croda rossa, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 233. Nella bellissima leggenda de La croda rossa, in cui si racconta l’origine di questo popolo, viene ben evidenziato lo stretto rapporto di questa gente con la “loro” montagna grazie e soprattutto al loro animale totemico: la marmotta, animale che vive dentro la montagna. Lo stesso scambio delle gemelle, in: K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Le gemelle, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 14, sicuramente sanciva un patto con il loro animale totemico, ma si può anche intendere come uno scambio con la roccia (le marmotte, che abitano dentro la montagna, avrebbero portato la gemella a vivere con loro all’interno di essa) al fine di mantenere vivo il rapporto tra i Fanes, le marmotte e la montagna, così com’era avvenuto con Moltina. L’atto del mantenere “viva” la montagna lo si ritrova anche in: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’ultima Delibana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 34, in cui è necessario depositare una vergine nel ventre della montagna affinché quest’ultima possa generre del ferro e la conseguente prosperità per la popolazione che dipende dalla montagna e dal metallo
  20. 0 K.F. Wolff, I monti pallidi. La capanna delle miosotidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 100: “A quest’ora, dalle grotte del loro altipiano, le Comèlles salgono sul campo ghiacciato della Fradusta e scherzano con la ragione degli uomini; molti che ora ragionano come noi, domattina avranno perduto la mente e il loro spirito sarà nella notte”;
  21. molti che ora ragionano come noi, domattina avranno perduto la mente e il loro spirito sarà nella notte”; 21 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 106: “I Crodères, figli delle rocce, erano in tutto uguali agli uomini, ma non provavano mai né gioia né dolore ed era sempre tranquilli e indifferenti a tutto. Non facevano male a nessuno senza ragione, ma se un uomo chiedeva loro aiuto non c’era speranza che si muovessero, nemmeno se alzando un dito avessero potuto salvargli la vita. Non potevano sentire né odio né amore perché i loro cuori erano di pietra”
  22. 2 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 105;
  23. 3 Su questo argomento è già stato detto tanto e bene che a scanso di ripetizioni, ci si limita ad elencare le divinità e a rimandare agli interessanti lavori di Ulrike Kindl e A. Vanin, citati nella bibliografia;
  24. La capanna delle miosotidi, La croda rossa, La fontana dell’oblio, Il cavaliere dei colchici, La pittrice del monte Faloria, Il regno dei Fanes (Ey de Net cerca un’anguana per un consiglio);
  25. K.F. Wolff, I monti pallidi. Albolina, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 151: “Ci chiamiamo Jarines e abitiamo nelle acque. Ma quando piove a dirotto, come oggi, ci piace uscire fuori e andare a guardare i fiori che crescono sulle rive. Senza di noi non ci sarebbero tanti fiori. (…) Questi calici sono pieni di rugiada: l’abbiamo raccolta per te questa mattina: sentirai com’è buona e quanta forza di darà”; 2
  26. 6 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, La risposta delle silfidi, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 65: “Ivi si trova un piccolo specchio d’acqua, che ora si chiama lago di Ghedina, dal nome dei proprietari, ma dagli antichi ampezzani veniva chiamato Lago Caldàra e dai Fanes Lec de Lunèdes (lago delle apparizioni). Se, in una notte di luna nuova, si batte con la tjatarula (bacchetta magica) l’acqua di questo lago, ne emergono le Mjanines: piccole e luminose figurine di silfidi, che si tengono per mano e camminano sull’acqua come su un terreno solido”.
  27. K.F. Wolff, I monti pallidi. Il lago dell’arcobaleno, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 69: “In un tempo molto lontano, nel lago di Carezza, viveva una bellissima Ondina (…)” e anche in: Le nozze di Merisana, pag. 121: “Poco lontano scorre il Ru de ra Vèrgines, il torrente delle Vergini: i vecchi Ampezzani raccontavano che al torrente era stato dato quel nome perché era abitato dalle ondine”, e anche in K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, Erlkönig, pag. 669: “Eine Überlieferung berichtete, das Volk der Paghinis stamme von einem Prinzen ab, der vo Jahrtausenden in die Siliwéna gekkommen sei und am Ufer des großen Sees eine Wasserjungfrau kennengelernt habe, die er sich zur Gattin erkor”.
  28. M.A. Ferrari, Dolomiti, rocce e fantasmi, Excelsior 1881, 2009, pag. 49: “In quest’idea del tempo, non come flusso di un costante progresso ma come circolarità sempre uguale (…)”, “Tutta la vita era proiettata in un ciclica ed incessante esistenza all’interno di un tempo circolare, il tempo dell’eterno ritorno”;
  29. 9 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1989: “I pastori si lamentavano che la loro vita e quella dei loro animali fosse sovente messa in pericolo dai sassi, grandi e piccoli, che si staccavano dai monti:Tanna ebbe pietà e proibì ai sassi di cadere. I contadini che d’inverno andavano a far legna nei boschi avevano gran paura delle valanghe e Tanna proibì alle valanghe di rotolare. Anche i torrenti che si precipitavano furiosamente giù per i fianchi delle montagne minacciavano spesso la vita degli uomini e Tanna ordinò a tutti i torrenti del suo regno di scorrere lentamente e con calma. Dove una volta c’erano solo rocce inaccessibili e sentieri ripidissimi, Tanna per amore degli uomini fee crescere morbidi prati di erbe dolci e succose, splendidi pascoli per il bestiamo. E gli uomini erano felici e portavano alle stelle la generosa Rèina de li sCrodères e la colmavano di lodi e di ringraziamenti ogni volta che la vedevano”. Ma ogni gesto ha delle conseguenze: “(…) sulle punte (delle Marmaroles) si accumulavano immense masse di neve e di ghiaccio che andavano sempre crescendo”. I Crodères, imbufaliti contro la loro regina che non ha dimostrato di saper gestire il suo ruolo, le tolgono il potere di comandare alla neve. E quando Tanna ne ha bisogno per salvare suo figlio va dai Crodères: “(Tanna) descrive la condizione della montagna che è sovraccarica di ghiaccio e di neve e non può restare a lungo così: riconosce che la colpa è tutta sua, ma un tempo non capiva queste cose perché era giovane e inesperta. Ora comprende che la massa enorme di neve e di ghiaccio sfonderà prima o poi la montagna che dentro è vuota”. Intanto il ghiaccio cresce e comincia a coprire il pascoli e i pastori che prima osannavano Tanna, adesso la maledicono e la chiamano la Stria de la djassa (la strega del ghiaccio). Solo con la morte del suo adorato figlio, Tanna sblocca le montagne: “Tanna (dice parlando ai pastori) torna al suo popolo: tutte le forze della montagna, che furono tenute a freno per il vostro bene, vengono rimesse in libertà; tutti i miei antichi divieti, che servivano a proteggervi sono ora revocati”. 3
  30. 0 U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 28: “Di Samblana, la severa regina dell’inverno, la tradizione ladina non racconta un’unica grande storia, bensì tanti piccoli particolari significativi. Forse si è perso il mito originario, forse non è mai esistito, forse l’immagine della dea primigenia è stata velata dietro la pia leggenda della “Madonna della Neve”;
  31. L’Antelao e la Samblana, in K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 14;
  32. 2 Ibidem;
  33. Ibidem: “(Si dice anche che) aveva voluto sottomettere anche i popoli vicini. Che era stata dissipatrice ed ogni anno si era fatta fare un vestito di velo e questo era sempre più sontuoso e sempre più lungo. (…) Per le non era mai abbastanza bello e sfarzoso pertanto faceva pagare sempre nuove imposte, finchè i suoi sudditi ne ebbero abbastanza. Allora essi si ribellarono, fecero prigioniera la principessa e la confinarono tutta sola lassù, sui monti di vetro”.
  34. Non a causa di questa leggenda, è stato riscontrato che la cipolla abbia delle straordinarie proprietà terapeutiche;
  35. Ibidem, pag. 15;
  36. 6 Ibidem: “(Quando gli uomini la confinarono sui monti di vetro, la Sabmlana stette). Lassù molti anni, isolata e dimenticata e sul suo lungo velo, disteso nei campi, cominciò a scendere il ghiaccio. Allora fece penitenza (…)”; 37
  37. K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 106: “(…) È seduta una donna vestita di un abito scuro, con un velo che le copre il viso e una corona azzurra sulla testa”, La corona azzurra è quella che conferisce il potere delle valanghe a Tanna: “(… sulle) Marmaroles si accumulavano immense masse di neve e di ghiaccio che andavano sempre crescendo, perché Tanna non permetteva che rotolassero giù in forma di valanghe. I Crodères erano indispettiti di vedere il loro inviolabile regno cadere a poco a poco in mano degli uomini, ma non potevano fare nulla: perché era Tanna che portava la corona azzurra e suo era il potere”.
  38. 7 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 106: “(…) È seduta una donna vestita di un abito scuro, con un velo che le copre il viso e una corona azzurra sulla testa”, La corona azzurra è quella che conferisce il potere delle valanghe a Tanna: “(… sulle) Marmaroles si accumulavano immense masse di neve e di ghiaccio che andavano sempre crescendo, perché Tanna non permetteva che rotolassero giù in forma di valanghe. I Crodères erano indispettiti di vedere il loro inviolabile regno cadere a poco a poco in mano degli uomini, ma non potevano fare nulla: perché era Tanna che portava la corona azzurra e suo era il potere”.38 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Antelao e la Samblana, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 14;
  39. 9 Ibidem;
  40. 0 Ibidem
  41. 1 Ibidem;
  42. U. Kindl, I miti delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 128, vede in lui un possibile emissario della Samblana; 4
  43. 3 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, La battaglia di Fiammes, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 39: “Il giorno precedente Ey de Nèt era salito prima dell’alba, sul sacro monte Amariana e aveva salutato il sole nascente, come soleva fare all’inizio di ogni guerra”. Per inciso, si noti anche la sacralità di un altro monte: il monte Amariana; 4
  44. 4 K.F. Wolff, I monti pallidi. Elba, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 159: “La fanciulla le raccontò che si chiamava Elba e che era una figlia del Sole”;
  45. 45 K.F. Wolff, I monti pallidi. Elba, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 160: “(Bolpin) era un trovatello, che alcuni cacciatori avevano scovato ancor bambino, in una tana di volpe, dove viveva d’amore e d’accordo coi volpacchiotti (… invece) doveva essere figlio d’un uomo di buona famiglia che abitava lassù, nel paese dei Cajutes, di là dal Vernel”. Bolpin ha il potere di conoscere la lingua delle volpi ed è sopravvissuto nonostante l’abbandono
  46. Molto interessante l’intuizione di U. Kindl, circa la possibilità che Albolina e Soreghina siano in realtà la stessa persona: l’area della leggenda è la stessa; il padre cattivo che però è preoccupato per la salute della figlia e disposto ad aiutarla con qualunque mezzo è decisamente simile; la malattia delle fanciulle e il rimedio è altrettanto decisamente parallelo. “Il nome della protagonista (Albolina) allude alla figura di Elba/Alba, l’argenta madre di Soreghina, la delicata figlia del sole, ambientata come pure Albolina, nell’Alta Val di Fassa. In origine, forse, i nomi di “Elba” come anche “Albolina” erano semplicemente degli appellativi per invocare la fulgente ninfa dei raggi del sole (…)”. “Come Soreghina, che può vivere soltanto quando splende il sole, la pallida Albolina rischie di morire del mal di notte (…)”, in U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013; 4
  47. 7 Anche donna Chenina è difficile che sia solo una donna: gestisce il Gigante delle tempeste, che le ripulisce la casa dalla neve ogni notte; dorme per nove mesi all’anno e non sembra invecchiare; 4
  48. U. Kindl, op, cit. pag. 94, vede nel nome di donna Chenina una variazione di “chelina”, derivazione di aquila; in questo articolo invece si vuole leggere invece un collegamento alla parola “cane”, “canina”, che si riallaccia al tema del cane di Bolpin e del figlio;
  49. Sicuramente I monti pallidi sono una leggenda che è incentrata sulla luna, ma a parte questa, che per altro ha degli elementi che non la rendono veramente ladina, almeno per come è giunta a noi, non si sono riscontrati altri riferimenti alla luna. Né sono stati riscontrati particolari riferimenti al numero 13, che spiega la Kindl, sono un indice del calendario lunare mentre innumerevoli sono stati i riferimenti la numero 7 - che può avere a che fare con la luna e la sua ciclicità di 28 giorni, così come può essere un numero aggiunto posteriormente, essendo altamente presente anche nella Bibbia. Del numero 7 e del numero 13: Conturina, ci vogliono 7 anni per liberarla; La moglie dell’Arimanno: un delitto commesso 7 anni prima; La Salvaria: vivono 7 anni d’amore e d’accordo; La capanna delle miosotidi: Jendsana si lamenta che deve aspettare 7 anni prima di riavere Dsòmpo (che poi diventano 13); La regina dei Crodères: Tanna vuole andare a vivere cogli uomini e ci sta per 7 anni; Le nozze di Merisana: il Re Rajes chiede in sposa Merisana il settimo giorno; Albolina: ci sono 7 bregostene; Elba: ad Elba viene tolto Tjan Bolpin e buttato in mezzo ai cani e passano 7 settimane prima che il cattivo re la convochi di nuovo al suo cospetto e le proponga di cambiare la situazione; Tjan Bolpin: impiega 7 ore di cammino per raggiungere il regno di Donna Chenina e poi passano 9 mesi in cui Tjan Bolpin vaga cercando di capire come può ritrovare il sentiero perduto per raggiungere sua moglie; La pittrice del monte Faloria: passano 49 mesi (7x7) da quando la povera pittrice, tradita dal marito, cambia vita e si trasforma in strega, dedicandosi unicamente alla vendetta così come passano 7 giorni da quando ei lancia l’avvertimento all’ex marito Verloj e poi gli ruba il figlio; Dona Dindia vive d’amore d’accordo con Zan de Rame per 7 anni; Le due madri: passano 7 anni da quando Miola ha parlato con la Vivana, ma la sua figlia adottiva, Mèina ha da vivere 13 anni (le dice la madre defunta); La figlia dell’albero: la coppia vive 13 anni senza figli, ma devono passare 7 estati da quando la donna avrebbe dovuto fare la cerimonia dell’albero per avere un figlio così come 7 giorni dopo le nozze arrivano le fate a predire il futuro del bambino; L’ultima Delibana: la ragazza può essere liberata dal suo triste destino ogni 7 anni; Lidis impiega 13 anni per apprendere la storia della Delibana; Il cavaliere dei colchici: Ergobanda spiega alla regina che dovranno passare altre 7 settimane prima di rivedere un’arco lunare speciale; La gamina: ha 49 anni hanni (7x7); Il bambino nell’ombra: la regina ha passato i primi 7 anni di matrimonio tristemente; per 7 volte in una notte Sharhart crede di soffocare e per 7 notti ha la stessa sensazione; Erlkönig: Inugalda ha 13 anni più del suo sposo. Altra leggenda in cui si fa un riferimento alla Luna, senza però che poi venga approfondito è Il cavaliere dei colchici, in K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Cappelli, 1989, pag. 104: dentro un arco lunare speciale, Ergobanda invia le anime delle bambine morte alla Samblana.
  50. 0 K.F. Wolff, I monti pallidi. La regina dei Crodères, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 108: “Un bel giorno accadde che mentre Tanna passeggiava su un prato, il vento delle tempeste passò di lì per caso e la vide: colpito dalla sua bellezza, volò subito in cima al monte e domandò ai Crodères, che erano suoi buoni amici, se conoscessero un’affascinante fanciulla (…)”, e poi ancora: “E ogni giorno tornò a soffiare sul prato, dove per la prima volta aveva visto la regina, senza preoccuparsi né punto né poco dei danni che produceva agli uomini scotendo le loro case e sradicando gli alberi, finchè incontrò un’altra volta Tanna”; 5
  51. 1 K.F. Wolff, I monti pallidi. Tian Bolpin, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 180;
  52. 2 Ibidem, pag. 184
  53. Ibidem, pag. 188;
  54. 54 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Antelao e la Samblana, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 14: “Queste gentili abitatrici delle acque (le Ondine) e dei boschi ebbero una volta una regina, che si chiamava Merisana. Ella possedeva tutto quel che si poteva desiderare: erbe e fiori, cespugli ed alberi s’inchinavano a lei, le onde si abbassavano quando ella si avvicinava (…)”;
  55. 55 Ibidem;
  56. 56 Ibidem: “E quando in primavera il larice comincia a destarsi dal sonno invernale, è facile distinguere intorno ai suoi rami, rivestiti di sottilissimi aghi, il tessuto lieve del velo da sposa”, in K.F. Wolff, I monti pallidi. Le nozze di Merisana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 125, nota che conferisce un valore eziologico alla leggenda;
  57. 57 K.F. Wolff, I monti pallidi. La sorgente dell’oblio, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 263;
  58. 58 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La figlia dell’albero, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 201;
  59. 59 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 101;
  60. 60 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 47;
  61. 61 Interessante la nota di Wolff (non tradotta nella versione italiana) su i non-ti-scordar-di-me che inserisce all’interno della leggenda La capanna delle miosotidi: egli ne spiega il valore simbolico all’interno della tradizione leggendaria ladina, eppure nel racconto, i non-ti-scordar-de-me non hanno affatto il significato che lui descrive, né si trova in altre leggende. “Das Vergißmichnicht spielt in der Sagenwelt eine große Rolle. Es gehört (mit der Schlüsselblume und der Tulpe) zu den sogenannten Wunderblumen. Wer solche Blumen auf dem Hute trägt, findet der Eingang su den in den Bergen verschlossenen Schätzen und kann die Schätze heben. Er muß sich aber davor hüten. während dieser Handlung die Wunderblumen zu verlieren oder wegzulegen, denn sonst mißlingt ihm schließlich alles. Das Vergißmichnicht ist nun unter den Wunderblumen die Brauchbarste: denn wenn der Schatzsucher es liegenlassen sollte, so ruft es him zu: «Vergiß mein nicht!». Daher kommt auch der Name”.
  62. 62 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti. L’ultima Delibana, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 34: “In un luogo ormai dimenticato del monte Pòre c’era una conca tetra e paludosa chiamata Lyubàn che appariva spoglia. Talvolta, quando la sera era particolarmente bella, le alte rocce del monte Civita risplendevano di luce dorata. Ed allora, la notte seguente a Lyuban spuntavano i cosiddetti fiori del ferro (flores de fyèr) i cui steli contenevano sottili fili di ferro e d’oro. (…) Li usavano per uno scopo particolare: (intessevano una vesta per la Delibana e ciò conferiva al vestito) proprietà magiche: brillava, frusciava, suonava e tinttinava ed inoltre possedeva altre incredibili virtù (non specificate). (…) (Inoltre) per mezzo di una tjatarula (bacchetta magica) che doveva essere intrecciata con gli steli dei fiori di ferro, (la Delibana) avrebbe avuto buona speranza di scoprire un nuovo filone, aiutando così i minatori e tutto il paese”.
  63. 63 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Antelao e la Samblana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 17: “L’antica popolazione del Cadore pare abbia attribuito la nascita di questo fior alla Samblana. A Sèrdes, però, dove concorrono influssi ampezzani, mi descrissero (scrive il Wolff) il fatto come segue: Presso i nostri vecchi la stella alpina passava per il fiore più bello di tutti e credevano che la stella alpina fosse giunta dalla luna, da dove l’aveva portata la figlia del re della luna”.
  64. 64 K.F. Wolff, I monti pallidi. Le nozze di Merisana, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 124: “(…) le piante avrebbero fatto sbocciare il loro fiori più belli e gli uomini e gli animali li avrebbero raccolti per portarli a lei. Nel giorno delle nozze v’era una quantità così smisurata di mazzi di fiori, che Merisana e le sue donne non sapevano più dove metterli. Allora due nani, venuti dal bosco di Amarida, dissero che con trante fronde e tanti fiori si poteva fare un albero e fecero il larice”. Leggenda a carattere eziologico, in cui in questo modo spiega il fatto che il larice sia l’unica conifera che perde gli aghi d’inverno: “È un albero strano, il larice. È una conifera e ne ha tutto l’aspetto, ma i suoi aghi non sono sempre verdi come quelli delle altre conifere e in autunno ingialliscono e cadono come le foglie degli alberi latifogli: questo accade appunto perché è un albero fatto con piante di ogni specie. E quando in primavera, il larice comincia a destarsi dal suo sonno invernale è facile distinguere intorno ai suoi rami, rivestiti di sottilissimi aghi, il tessuto del velo da sposa”.
  65. 65 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La figlia dell’albero, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 201;
  66. 66 Ibidem, pag. 202: “Erano veramente, quelli ricevuti dalla donna consigli un po’ strani. Un ramoscello di rododendri bianchi le aveva dapprima sussurrato di recarsi nel bosco e cercare un leggiadro alberello; rami ed erbe le avevano poi detto d’incoronare ogni giorno quell’alberello con ventisette fiori; le sorgenti le avevano ancora consigliato di far ciò durante sette estati; infine una grande sorgente, sgorgata fuori da un crepaccio della roccia le aveva gridato che giunta la fine della settima estate, ella avrebbe dovuto con un’ascia tagliare i rami dell’alberello e spaccarne poi il tronco”;
  67. 67 K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, pag. 669;
  68. 68 K.F. Wolff, I monti pallidi. La fontana dell’oblio, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 223;
  69. 69 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti. Il canto fatale, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 185: “In realtà le Pelne non sono vere colombe, ma ninfe delle acque trasformate in uccelli per stregoneria. Sono timide, pronte a fuggire: non possono però allontanarsi troppo dalle acque alle quali appartengono e non possono volare molto in alto. Se qualcuno le insegue fino alle prime rocce, devon fermarsi e riprendere la loro figura di fanciulla e allora si può parlare con loro. Infine ogni Pelna ha un proprio canto fatale che le porta alla morte”.
  70. 70 Brillante davvero l’intuizione della Kindl, in U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Institut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 170 in cui riscontra un parallelismo tra le due leggende: L’usignolo del Sassolungo e Il canto fatale, ovvero il parallelismo della storia di due ragazze che vengono interrotte nel loro percorso della crescita, proprio quando, va notato, incontrano l’amore. La Kindl però riporta tutto invece all’ambito della morte: “Effettivamente, le due figure rilevate della ziriola (l’usignolo) gardenese-fassana e della “colomba verde” fodoma sono strettamente imparentate, ma ricoprono due ruoli ben distinti nella ricca immaginazione legata al mondo degli Inferi”;
  71. 71 Ulrike Kindl apporta un’altra osservazione circa gli uccelli: il loro forte nesso con la morte. “Che nell’ambito della tradizione ladina esistesse con ogni probabilità un nesso tra le anime morte e determinate visualizzazioni ornitoformi, lo suggeriscono molte leggende, troppe, per addebitare l’osservazione ad una pura coincidenza”. U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 140. E ancora: “Che i corvi, emanazioni teriomorfe delle divinità degli Inferi, accompagnassero le anime morte verso l’Aldilà, è un elemento ampiamente diffuso nella mitologia nordica presente pure nella tradizione ladina, visto che figure ambigue come la maga Tsicuta è accompagnato da un corvide, cornacchia o gazza che sia”, U. Kindl, Miti ladini delle Dolomiti. Le signore del tempo, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013, pag. 128. Avremmo quindi: a. la filadressa, già citata, che ruba i bambini; b. il Variul, l’avvoltoio che si nutre di carogne e compare dopo il primo sterminio dei Fanes; c. il corvo della Tsicuta.
  72. 72 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomitensagen, Bd. 1, San Martino in Badia, Istitut Ladin Micurà de Rü, 1983, pag. 41: “Erzählungen mit märchentypischen Sequenzen, also mit der typischen Abfolge: Anfängliche Notsituation (in Propps Formelsprache: i) - Ausfahrt des Heldens (x, X), - Probe und gewinn der magischer Hilfe (DEZ) - Überwindung der Antagonisten (LV) - Rückkerher des Helden, Behebung der Notsituation (Rm), das allbekannte glückliche Ende”, e poi, pag. 42: “(…) zu diesen typischen Märchen auch alle jene Erzählungen gezählt werden, die zwar eine lupenreine Märchensequenz haben, die als Schluß, als Behebung der Notsituation, den Tod oder eine Entrückung aufscheinen lassen, die dem Tod sehr ähnlich ist. In diesem Fall muß aber, damit die Märchenhaftigkeit stimmig bleibt, der Tod nicht als tragisch gesehen werden, sondern als Lösung einer Situation, die im Diesseits nicht mehr lösbar ist”.
  73. 73 AAVV, Gli eredi della solitudine, Verona, Ci Erre Edizioni, 1976;
  74. 74 La migliore descrizione delle Gane è stata fatta da G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, pagg. 8 e 9;
  75. 75 Op. cit., pag. 10;
  76. 76 Figura trovata in La moglie dell’Arimanno, La fontana dell’oblio, Le due madri. Interessante l’osservazione del Wolff, in: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 838: “Zu den Vivènes. Einer des vornehmsten Helden aus der Tafelrunde des Königs Artus ist der Ritter «Lancelot vom See», dessen väterlichen Abstammung man nicht kennt. Seine Mutter heißt aber «die Frau vom See» und wird “Viviàna” genannt”;
  77. 77 Figura trovata in Mano di ferro, Donna Dindia, Le due madri;
  78. 78 Figura trovata in La pittrice del monte Faloria, La fontana dell’oblio, La croda rossa, Il regno dei Fanes;
  79. 79 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il bambino dell’ombra, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 153;
  80. 80 Apparentemente abbiamo qui solo un fugace esempio di donna molto saggia ma che a ben guardare aggiunge invece importanti elementi alla nostra ricerca: la sua apparizione finale nel racconto, un donna, preannuncia la vittoria del duello a favore di Marhild, altra donna, contro Scharhart, uno sbruffone aiutato da una strega, donna, che però non si batte contro altre femmine, umane o animali che siano. L’elemento femminile ha decisamente il sopravvento;
  81. 81 Figura trova in Il lago dell’arcobaleno, Albolina, La fonte dell’oblio, Il bambino dell’ombra;
  82. 82 G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, pag. 14;
  83. 83 Figura trovata in Albolina, La sorgente dell’oblio, Le due madri;
  84. 84 G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, Arnaldo Forni editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck del 1881, pag. 11. Figura trovata in Albolina, leggenda ambientata nella Val di Fassa, appunto.
  85. 85 “(Questi fiori) li chiamano Mirandoles o colchici; appartengono al giardino della Samblana e vi abitano le anime delle bambine che stanotte abbiamo spinto sotto l’arco della luna”. K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Cappelli, 1989;
  86. 86 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 48;
  87. 87 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 116. La dormya de lus, un sonnifero per mezzo del quale si restava storditi per lungo tempo. Ergobanda, spiega che “questa Dormya poteva essere pericolosa solo per gli uomini (è mortale), ma non per le donne”. La dormya viene citata anche in Erlkönig, in K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia, Spectrum, 1989, pag. 680: “Vor allem gebe ich (eine Alte, wieder eine Frau) Euch eine Dormya (ein Schlafmittel), das Ihr Eurer Gemahlin beim Abendessen irgendwie beibringen müßt; es ist ganz unschuldig, aber man schläft darnach sieben Stunden wie ein Stein”. Nella versione tedesca de La fonte dell’oblio, c’è un passaggio non tradotto in italiano, in cui si parla di una pozione magica (Zaubertrunk), distinguendolo bene quindi dalla Dormya (Schlafmittel), che viene infatti dato a Gordo, un uomo (se avesse bevuto una Dormya, ne sarebbe morto): “Als sie aber sah, daß Gordo keine rechte Lust hatte, mische sie ihm einen Zaubertrunk und schickte ihn schlafen; der Trunk sollte ihn gefügig machen”, in: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 266;
  88. 88 La timpena la troviamo ne: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Il cavaliere dei colchici, Bologna, Cappelli, 1987 pag. 122, la troviamo anche ne: K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, L’Uomo sul ponte, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 235. Sebbene si tratti di una leggenda non presa in considerazione, è interessante comunque leggere la spiegazione di cos’è la timpena e di come questa abbia potere sulle donne: “La timpena è uno strumento musicale con il quale un giovane può conquistare il cuore di una fanciulla, sia che lei lo voglia o no”;
  89. 89 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomiten Sagen von K.F. Wolff, Bd 2, San Martino in Badia, Istitut Ladina Micurà de Rü, 1997 pag. 157: “Da sind die Salvans mit ihren zottigen Bärten, mit Kleidern aus Baumrinde und Fichtenflechte, mit ihren knorrigen Stöcken und ihrer brummigen Freundlichkeit. Sie treiben sich im Wald herum, aber hüten gerne die Tiere der Bauern auf der Weide. Sie wissen um die Geheimnisse der Käsezubereitung, scheinen aber selber keine Sennen zu sein. Auch Bauern sind es nicht, aber vom Bauernwetter verstehen sie eine Menge, und man tut gut daran, ihren Ratschläge zu folgen. Ob die Ganes ihrerseits mit ihnen verwandt sind, ob es ihre Mütter, Schwestern und Gattinen sind, das ist nicht klar”.
  90. 90 Come in: L’usignolo del Sassolungo, Dona Dindia, Il canto fatale;
  91. 91 G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, Bologna, A. Forni Editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck, 1881, pag. 8;
  92. 92 U. Kindl, Kritische Lektüre der Dolomiten Sagen von K.F. Wolff, Istitut Ladina Micurà de Rü;
  93. 93 Alton, op. cit., pag. 10;
  94. 94 Unico caso in cui si trova una divinità dell’acqua al maschile è ne Il genio del torrente, in K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 128 in cui la vecchia vestita di verde non meglio specificata, salva la ragazzina dalla violenza dell’acqua e la porta con se, dove c’è suo figlio e dice che essi “abitano nel torrente”. Proprio per quest’aspetto così singolare, ovvero di unico caso di divinità maschile dell’acqua, questa leggenda non è stata presa in considerazione;
  95. 95 Il Wolff, spiega: Der Alten von den Grün-Erlen, non tradotto in italiano. In: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 500;
  96. 96 “(…) Va a cercare il Vögl delle Velme, che ne sa più di me e potrà consigliarti. È un principe dell’antico regno dell’Aurona, il quale però, dopo aver girato molto il mondo, è tornato nel Padon per vivervi da mendicante, disprezzando oro e ricchezze. (…) Spesso scende al Ru d’Aurona, con i piedi nell’acqua ad ascoltare quello che dicono le onde; per questo sa tante cose”, in: K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 46.
  97. 97 Il canto fatale, in: K.F. Wolff L’anima delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1989, pag. 188;
  98. 98 G. Alton, op. cit., pag 14;
  99. 99 Ibidem;
  100. 00 K.F. Wolff, I monti pallidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 69;
  101. 101 Op. cit., pag. 245; 102 Op. cit., pag. 251;
  102. 102 Op. cit., pag. 251;
  103. 103 K.F. Wolff, I rododendri bianchi delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 34;
  104. 104 Op. cit. pag. 39;
  105. 105 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 138;
  106. 106 Op. cit., pag. 140;
  107. 107 Peccato che in italiano non sia stata tradotta l’interessate nota di approfondimento del Wolff su questa figura metà uomo/metà animale che ci introduce a Spina de Mul, di cui qui ne riportiamo solo una parte: “«Tjè-de-Lù», d.h. er Wolfskopf oder Wolfsmensch, ist ein Faturek (ein Gespenst), das in winterlichen Nächten auf den hohen Bergen umgeht. Man sieht ihn besonders vor dem Beginn eines Scheesturms. Niemand, auch der Mutigste nicht, mag mit Tjè-de-Lù zusammentreffen, denn dieser ist nicht nur boshaft und grausam, sondern auch sehr verschlagen. Deshalb nennt man ihn ‘den Unerbittlichen’ (…)”, in K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 283/4;
  108. 08 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, Il regno dei Fanes, Spina de Mul, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 18;
  109. 109 A questo proposito, è interessante riportare l’intuizione di A. Vanin, che vede nel duello tra Spina ed Ey de Net un passaggio rituale, che culmina colla nomina del giovane guerriero: “L’intera sequenza di combattimento altro non è che una cerimonia di iniziazione: il ragazzo deve sconfiggere le più ancestrali paure ed abbattere il fantasma della morte per ricevere il nome che lo ammette nella società degli uomini. È chiaro poi che lo stregone si “maschera” da mostro per incutere timore al fanciullo, ma in realtà oppone una resistenza soltanto simbolica. Il carattere “non-morto” del mostro è connesso al simbolismo di morte e rinascita legato al rituale iniziatico”. A. Vanin, Il regno dei Fanes. Analisi di una leggenda delle Dolomiti, Il Cerchio, 2013
  110. 110 La moglie dell’Arimanno, Cadina, La Salvaria, La regina dei Croderes, Elba, Soreghina, Albolina, Die Frau des Wassermannes (impropriamente tradotto in: Il genio del torrente), Le nozze di Merisana, La figlia dell’albero, Due madri, La pittrice di Faloria, Dona Dindia, La fanciulla di Giralba, L’ultima Delibana, La moglie paziente, La moglie ubbidiente, La Gamina. Sebbene non tutte queste leggende vengono prese in considerazione, tuttavia è interessante la visione d’insieme: su 51 leggende, 18 hanno una donna nel titolo e di queste 18, 12 sono tra quelle prese in considerazione;
  111. 111 In K.F. Wolff, I monti pallidi. La Salvaria, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 79: “Allora il contadino tornò nel bosco e chiese alla fanciulla se voleva battezzarsi e sposarlo. Ella disse di sì, a condizione che promettesse di non domandarle mai il suo nome”. Ancora in op. cit., pag. 55, “Mano di ferro”: “Come io mi chiami non te lo dirò mai, perché se tu lo venissi a sapere dovremmo separarci per sempre. Ma qual è il mio luogo d’origine te lo posso dire: venni qui dal Rosengarten, il bel giardino delle rose che ora non esiste più
  112. 112 La ganna (sic), G. Alton, Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, A. Forni Editore, ristampa anastatica dell’edizione di Innsbruck 1881, pag. 67: “Convien sapere, che ella lo aveva preso solo a condizione, che egli non la toccherebbe mai sul viso col rovescio della mano, giacchè in quel caso ella avrebbe dovuto andarsene”;
  113. 113 In K.F. Wolff, I monti pallidi. La capanna delle miosotidi, Bologna, Cappelli, 1987, pag. 97: “Ci sono tre cose che non devi mai domandarmi e che non ti dirò mai: donde vengo, dove vado e che cosa ho sul braccio sinistro. (…) E lo pregò ancora una volta e con grande insistenza, di non chiederle più nulla, se voleva evitare una grande disgrazia che poteva colpirli tutti e due”. Interessante come alcune donne dicono il nome ma non la provenienza, altre dicono la provenienza ma non il nome. Qualcosa va tenuto celato.
  114. 114 K.F. Wolff, L’anima delle Dolomiti, La croda rossa, Bologna, Cappelli, 1967, pag. 245: (Dice Moltina): “Io mi sono vergognata così tanto da sentirmi morire; non ho il coraggio di tornare al castello; rimani tu piuttosto con me. Questa parve al Principe una strana proposta, ma siccome non voleva perdere Moltina, egli acconsentì a rimanere con lei sulla montagna”;
  115. 115 Le sovracitate Lonka, Antermoja, Jendsàna, la Ganna interromperanno bruscamente i loro matrimoni proprio per questo motivo: i loro mariti non hanno rispettato le condizioni richieste;
  116. 116 È il caso, per esempio, di Moltina, La croda rossa, che si trasforma in marmotta e poi di nuovo in donna a suo piacimento oppure di Jendsàna, La capanna delle miosotidi, che si trasformarsi anche in lontra o della pittrice del monte Faloria, La pittrice del monte Faloria, che si trasforma in filadressa, un piccolo falco e poi di nuovo in donna. Unico caso maschile, invece come abbiamo visto è Spina de Mul. Unica eccezione, di uomo/animale è l’Aquila de Il regno dei Fanes, che racconta di essere stata un tempo un uomo e di aver cambiato sembianze, per noia, ma di non poter più tornare alle sue fattezze originarie. Spina de Mul e Tjé de Lu appaiono con sembianze animali, ma neanche nel loro caso abbiamo assistito alla loro trasformazione, né da uomo ad animale né in senso contrario, così come di Tjan Bolpin si sa solo che sa parlare la lingua dei cani e delle volpi, ma non si trasforma mai in essi.
  117. 117 L’antico sapere proprio delle donne, arriva addirittura in Sarnthal/Sarentino. In uno dei magnifici Nachträge del Wolff, Der Schatz am Goldegg, non tradotto in italiano, una storia chiaramente di epoca medievale, si dice: “(…) Inzwischen hatte ein Knappe der Brautmutter Rita von Ravenstein ein Schriftstück überreicht, das sie langsam öffnete, um es vorzulesen. Denn es war dazumal Brauch, daß die Damen lesen und schreiben lernten, die Herren aber nicht (mit Ausnahme der Geistlichen)”, in: K.F. Wolff, Dolomitensagen, Bolzano, Athesia Spectrum, 1989, pag. 746. Sempre in un altro dei Nachträge, Die Sängerin von Karneid, pag. 805, neanche questo tradotto in italiano, si legge: “(…) Sie ist ein sehr nettes Mädchen und jetzt 16 jahre alt (…). Sie war neulich mit ihrer Mutter hier und brachte etwas Schönes mit, woran sie arbeitet: es handelt sich um ein von einem Bozener Buchbinder mit Kunst und Geschmack hergestelltes großes Buch aus Pergament mit starken und schön verzierten Deckeln. Ingildis, so heißt sie, hat sich nun daran gemacht in dieses Prunkbuch mit viel Aufwand von Fleiß und Geschiklichkeit die Lieder eines alten, fast vergessene Sänger einzutragen; in der Vorlage sind sie sehr schlecht geschrieben, fast unerleserslich, aber in den klaren Schrift von Ingildis und in dem herrlichen Buche, werden sie ganz vortrefflich ausnehmen”.
  118. 118 Gli esempi sono innumerevoli: ne La Val da la Salyèryes, il pastore della che non trova l’acqua per le sue greggi ma viene aiutato da una gana; in Albolina, Albolina che aiuta l’Armanno in difficoltà sulla roccia; in Soreghina, Soreghina che recupera Ey de Net svenuto sulle rocce, ne L’ultima Delibana, Ilda che grazie al suo sacrificio aiuta il padre, attaccato da tutta la popolazione;
  119. 119 Sarebbe bello poter aggiungere un’altra caratteristica: “Non temono di sfidare l’intera società, se ritengono di essere nel giusto”, come da splendido ritratto di Marhild di Haydeshaus, ne Il bambino dell’ombra;
  120. 120 L’Egitto ha conosciuto donne di grande influenza, di cui si dice che abbiano anche regnato per qualche tempo. In realtà se hanno avuto accesso al potere è stato perché accanto al loro marito, padre o figli, com’è il caso di Cleopatra o di Nefertiti. La manciata di donne regnanti, come Nicotris, Arsinoe II, hanno avuto una vita politica molto breve e che finisce nel nulla, senza lasciare praticamente traccia;
  121. 121.
  122. 122
  123. 123
  124. 124
  125. 125
  126. 126
  127. 127
  128. 128
  129. 129
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  131. 131
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