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Ladin! 2012 2

Ladin !


Vito Pallabazzer


Tre comuni bellunesi non allineati


Notizie di carattere storico e linguistico non esaurienti l’ampio argomento e le sue varie implicazioni

(2003)


Nel quadro del movimento neoladino bellunese il cui inizio si può far risalire al convegno di Belluno del 1983, trentotto Comuni1 hanno chiesto e poi ottenuto un riconoscimento di ladinità ai sensi della legge 482 del 25 novembre 1992 Da quel momento, ma in molti casi anche prima, ha preso l’avvio la costituzione delle “Unioni Ladine” nei singoli paesi con lo scopo precipuo di tutelare la ladinità, quasi improvvisamente scoperta, e riconosciuta ope legis dal Parlamento Italiano che ha voluto estendere senza preclusioni lo status di minoranza a tutti i Comuni che ne facessero richiesta. In tal modo tutta la parte alta della provincia di Belluno, con gli ampi comprensori vallivi del Cadore, del Comelico, dello Zoldano e dell’Agordino, veniva a configurarsi come area abitata da popolazioni ladine portatrici di un diritto di tutela e di riconoscimento a fianco dell’unica minoranza alloglotta fino a quel momento riconosciuta a pieno titolo, la piccola comunità germanofona di Sappada a ridosso del confine italo-austriaco. Pertanto se trentotto Comuni su sessantanove accedevano alla condizione di “minoranza linguistica storica ladina”, il panorama etnico, linguistico e culturale della provincia veniva ad assumere una connotazione diversa rispetto agli standard correnti fino a quel momento, in cui una vasta dialettalità si contrapponeva alla cultura trasmessa dalla scuola, dalla burocrazia e dalle classi dirigenti. C’erano insomma i requisiti per rivendicare in sede regionale il ruolo di “minoranza” esteso a tutta l’area più elevata della provincia e comprendente le Dolomiti così celebrate dall’alpinismo e dagli sport invernali da più di un secolo a questa parte. Non c’è dubbio che la spinta principale per questo allargamento della ladinità proveniva da un confronto tra la realtà bellunese e quella della adiacente Regione del Trentino-Alto Adige, dove il ladino era assurto fin dal secondo dopoguerra al ruolo di “terza lingua” a fianco dell’italiano e del tedesco con tutte le implicazioni che ne potevano derivare in sede legislativa, scolastica, finanziaria e culturale in generale. Nei trentotto Comuni della provincia di Belluno che hanno ottenuto la patente di ladinità rientrano anche Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia nell’alto Vito Pallabazzer Tre comuni bellunesi non allineati Notizie di carattere storico e linguistico non esaurienti l’ampio argomento e le sue varie implicazioni (2003) bacino del Cordevole e Cortina d’Ampezzo nel bacino del Boite, espressione di una autentica ladinità atesina i primi due, di lontana ascendenza cadorina Cortina d’Ampezzo, che passò al Tirolo e a Massimiliano d’Asburgo in seguito alla guerra della Lega di Cambrai contro Venezia (1508). Quattro secoli di appartenenza al Tirolo hanno inciso nella mentalità degli abitanti, nei costumi e nella parlata suscitando molte simpatie per l’antica patria tirolese malgrado l’enorme afflusso di turisti e di Italiani di varie regioni che hanno scelto di insediarsi stabilmente nella cosiddetta conca d’oro delle Dolomiti.

All’epoca dell’Austria i tre Comuni, per la loro eccentricità rispetto al resto del Tirolo, costituivano un distretto giudiziario a sé stante ma anche sotto altri profili, come ad esempio nel campo dell’organizzazione pompieristica procedevano su binari paralleli con frequenti contatti fra di loro.

Pertanto i tre Comuni di Colle Santa Lucia, di Livinallongo e di Cortina d’Ampezzo, plasmati dalla lunga sudditanza tirolese, non si considerano equiparabili agli altri Comuni ladini della provincia per una congenita diversità culturale che li accosta alla Union Generela di Ladins dles Dolomites nella quale sono confluiti i Comuni delle Valli di Fassa, Gardena e Badia.

Le loro affinità con i Ladini delle tre valli sono sentite più storicamente radicate di quelle con gli altri Comuni bellunesi, per quanto il secolare confine politico non sia mai stato una barriera insormontabile per la penetrazione della cultura veneta, presente nelle parlate e in molti tratti del costume, nelle usanze calendariali, nella cucina e nell’abbigliamento.

La funzione storica dei tre Comuni nel corso dei secoli è stata quella di essere l’anello di congiunzione tra la cultura tedesco-tirolese e quella veneta risalente dal Bellunese e dalla pianura.

Probabilmente ancor più profonda fu l’azione esercitata dalla diocesi di Bressanone sul costume e gli orientamenti morali e le scelte di vita in cui confluiva il rigore del Concilio Tridentino (1545-1563), che convogliò verso il seminario di Bressanone centinaia di giovani dei tre paesi che scelsero la via del sacerdozio.

Per quanto riguarda le festività si pensi anche ai tre giorni di adorazione a Pentecoste e alla festa del Cuor di Gesù fortemente sentita in Tirolo e risalente al voto formulato nel 1796 per stornare l’invasione napoleonica attraverso la valle dell’Adige che avrebbe comportato ruberie e devastazioni di ogni genere.

Sul piano scenografico grande rilievo hanno sempre assunto le processioni, di chiara derivazione barocca, con il trasporto delle immagini dei Santi e dei gonfaloni su itinerari prestabiliti.

Per tutte queste ragioni le popolazioni dei tre Comuni di Colle Santa Lucia, di Livinallongo e di Cortina d’Ampezzo non dimenticano facilmente il loro passato e nel vasto risveglio della ladinità di questi ultimi decenni chiedono una posizione a sé stante per questa ladinità, intrisa di molti elementi culturali provenienti da un passato abbastanza diverso rispetto a quello degli altri Comuni bellunesi. Il peso del passato e delle tradizioni avite non viene facilmente assorbito da nuovi modelli culturali ed esperienze esistenziali come provano per es. anche i Còrsi e i Ticinesi che pur rientrando nel dominio linguistico italiano non si sono mai pronunciati a favore di un ritorno all’Italia malgrado gli sforzi del fascismo di suscitare fermenti nazionalistici. Vero è anche che l’Italia, come la conosciamo oggigiorno nella sua realtà nazionale e territoriale, non era mai esistita fino alla seconda metà del sec. XIX e alle vicende risorgimentali.

Così era anche per le popolazioni dei tre Comuni di Colle, Livinallongo e Cortina che confinavano con la Repubblica di Venezia ma non con una nazione italiana che costituisse per loro un punto di riferimento politico e nazionale.

Tuttavia non va neppure dimenticato che le parlate dei tre Comuni come quelle delle altre valli sellane rappresentano la propaggine estrema verso Nord del dominio linguistico italiano e che la lingua italiana fu usata nella scuola fin dalla sua fondazione (1785) per iniziativa del governo illuministico di Maria Teresa d’Asburgo.

L’insegnamento del tedesco era limitato a qualche ora settimanale ma non poteva mancare in considerazione del fatto che la manodopera eccedente si riversava nelle campagne e nelle città del Tirolo tedesco, a parte il lungo servizio militare che rafforzava in tutti gli uomini la loro qualità di bilingui.

L’artigianato e il diffuso bilinguismo rappresentavano il contrassegno pratico e culturale più forte per le popolazioni dei tre Comuni inserite nel complesso territoriale del principato vescovile di Bressanone e dell’impero degli Asburgo.

In un italiano regionale e spesso approssimativo venivano anche redatti i documenti, sia di carattere pubblico sia privato.

Nella predicazione religiosa più si risale indietro nel tempo e più frequente deve essere stato l’uso di un italiano fortemente dialettalizzato se non dello schietto ladino, anche con riguardo all’origine e alla formazione dei sacerdoti, molti dei quali, nei primi tempi dopo la fondazione delle “curazie” e delle parrocchie, erano di disparata provenienza.

Un significativo tentativo di koinè ladina si riscontra in alcuni proclami emanati dal governo vescovile tra la seconda metà del 1600 e l’inizio del 1700, per i sudditi delle valli ladine i quali non avevano dimestichezza né con il tedesco né con l’italiano ma non per questo potevano essere trascurati.

Nei Comuni di Livinallongo e di Colle Santa Lucia tratti di feudalesimo nella gestione delle proprietà agricole e nella mentalità degli abitanti sono sopravvissuti fino quasi al nostro tempo e trovano ampia conferma e giustificazione nello statuto del castello di Andraz del 1541, che codificava sicuramente consuetudini precedenti.

L’amministrazione feudale durata fino alla caduta dei principati ecclesiastici nel 1804 non impedì però l’introduzione a Colle Santa Lucia nel 1618 di un’istituzione libertaria come quella delle “regole” nella gestione delle proprietà boschive; né l’annessione di Cortina d’Ampezzo al Tirolo e all’impero di Massimiliano intaccò i secolari “diritti regolieri” della popolazione ampezzana che fino al 1420 rientrava nel vasto Patriarcato di Aquileia, dopo la fine del quale subentrò per quasi un secolo la dominazione veneziana (1420-1508). Il Patriarcato di Aquileia confinò per circa un millennio con la diocesi di Sabiona/ Bressanone lungo il Codalonga e la Fiorentina al di là dei quali, a cominciare dal Comune di Selva di Cadore, vigoreggiava la ladinità friulana e aquileiese risalente appunto alla grande città di Aquileia, fondata nel 183-181 a.C. nel territorio dei Galli Carni.

Si tratta di una ladinità più antica e abbastanza diversamente caratterizzata nel lessico e nelle costumanze rispetto a quella retico-atesina che trae inizio dalla conquista della Rezia da parte di Druso e Tiberio nel 15 a.C. sotto l’impero di Augusto.

Il latino importato dai fondatori di Aquileia, che in età augustea costituirà con il suo territorio la Regio X Italica: Venetia et Histria, non era identico a quello provinciale introdotto nella Rezia, tenendo anche presente che la Val Badia con Livinallongo e Colle Santa Lucia, come si rileva anche dagli atlanti storici, sono solitamente assegnate al Norico piuttosto che alla Rezia, nel quale è probabile che ci fossero forti comunità di matrice gallica, come provano toponimi sicuramente gallici come Vindobona e Carnuntum.

Perciò ci sono delle differenze sul piano storico-linguistico che trovano un’origine e una spiegazione in un lontano passato. Anche la toponomastica accanto a moltissime affinità e convergenze rivela significative differenze tra le Dolomiti orientali appartenenti in altri tempi al Patriarcato di Aquileia e quelle occidentali.

Una recente indagine lessicale di Giovan Battista Pellegrini e Enzo Croatto, impostata soprattutto su un confronto tra elementi ampezzani e ladino-atesini, mette bene in evidenza sul piano cronologico la diversità dei due processi di latinizzazione nonché quella dei sostrati. Rilevante è stata anche l’influenza del tedesco sul ladino atesino ed, entro certi limiti, anche sul ladino cadorino e agordino. Una prima ondata di tedeschismi come vara “maggese”, vélma “mucchio conico di fieno”, lana “slavina, valanga”, ghirlo “gorgo, vortice”, risale molto indietro nel tempo e si spiega con un contatto precoce delle popolazioni cadorine e agordine con il mondo tedesco. Naturalmente l’appartenenza dei paesi ladini a un principato feudale che usava quasi esclusivamente la lingua tedesca, ha trasmesso alle parlate un gran numero di elementi alloglotti, variamente sedimentati nel tempo. Vi sono peraltro indizi toponimici che Colle Santa Lucia rientrava in un primo momento nell’area di espansione cadorina perché toponimi come Fursìl, Pore e Val Ciarnara sembrano mancare nell’area retico-atesina mentre riemergono in altre zone, a Sud e a Oriente.

In altri tempi la dominazione tirolese attraverso il castello di Andraz si estendeva anche al Comune di Rocca Pietore, la cui parlata ha chiaramente un’impronta ladina come si riscontra nel lessico e nella fonetica oltre che nella toponomastica. Caprile e Velin nel Comune di Rocca Pietore sono chiaramente due avamposti della pastorizia atesina che trovano i loro corrispondenti nel Livinallongo, nella Val Badia e nelle aree intedescate della provincia di Bolzano.

Rocca Pietore si sottrasse alla sudditanza feudale del castello di Andraz verso il 1350, e dopo aver costituito una piccola repubblica autonoma si orientò verso Venezia di cui seguì le sorti fino alla sua caduta nel 1797.

Ma nel secolo XIII il confine della giurisdizione livinallese verso sud è dato dalla Pettorina che non a caso costituisce anche oggigiorno un confine dialettale nei confronti del vicino paese di Pezzè, a circa mezzo chilometro di distanza e sempre in territorio di Rocca Pietore.

Per queste premesse storiche e linguistiche che meritano considerazione, l’Unione dei Ladini di Rocca è orientata verso l’instaurazione di legami sempre più stretti con l’Union Generela, e nel contesto vallivo alto agordino con i Comuni di Livinallongo e Colle Santa Lucia, con i quali le affinità sono indiscutibili. Se Selva di Cadore è storicamente la punta più avanzata verso Occidente della ladinità friulana, nei paesi agordini, anch’essi inquadrati nelle varie Unioni Ladine, si riscontrano molte sopravvivenze del bellunese arcaico il quale è eccellentemente rappresentato dalla poesia petrarcheggiante di Bartolomeo Cavassico, notaio del sec. XVI. Nessuna conseguenza ebbe sui tre Comuni di Colle Santa Lucia, Livinallongo e Cortina la loro breve aggregazione al Regno Italico e alla diocesi di Belluno (1809-1814).

Questo vasto movimento di rivendicazione linguistica e culturale che coinvolge tutta la parte superiore della provincia di Belluno, se sotto qualche aspetto può rivelare atteggiamenti effimeri e opportunistici come si è insinuato da qualche parte, è anche segno di autoconsapevolezza e di una presa di coscienza dei pericoli che incombono sulle nostre piccole culture, depauperate dalla denatalità, dalla fine dell’economia agro-pastorale e da uno sfruttamento turistico individualistico che nessun contributo offre alla soluzione dei problemi occupazionali dei residenti. Per il breve periodo di qualche mese, una comunità insediata in ville e condomini, si affianca a quella dei residenti con i quali non si amalgama né potrebbe pervenire a tal soluzione sia per questioni di ordine temporale sia per una sostanziale diversità di interessi. Anche per tali ragioni le comunità locali ricercano una difesa e un punto di forza nelle Unioni Ladine le quali, facendosi interpreti delle spinte vitali dei residenti, hanno una fondamentale funzione da svolgere per la sopravvivenza delle nostre piccole culture e la loro trasmissione alle future generazioni.

È augurabile che in questo processo non intervengano conflittualità e che sia riconosciuta e difesa la specificità storica di ogni singolo paese; eventuali attriti che turbino le libere iniziative di tanti paesi che hanno alle spalle eventi storici, consuetudini e influssi culturali diversi non sono consoni allo spirito della nuova Europa. Nello stesso tempo l’isolamento, la mancanza di dialogo e di comprensione delle reciproche differenze sono fattori di debolezza. Molte iniziative nei Comuni di Livinallongo e di Colle Santa Lucia hanno trovato attuazione, come il recupero del castello di Andraz (tuttora in corso), quello della Strada de la vena che dal centro di produzione del Fursìl convogliava il minerale di ferro ai forni di Valparola, il ripristino da parte della Forestale di alcune gallerie minerarie affinché il vecchio giacimento di ferro denso di storia e di memorie sia sempre localizzabile. Si tratta di realizzazioni importanti che onorano il riconoscimento da parte del Consiglio Provinciale che la ladinità dei tre Comuni “è più radicata e attiva” e storicamente determinata, rispetto a quella che si è andata profilando e organizzando in quest’ultimo ventennio negli altri paesi. Per il sostegno e la promozione della ladinità dei tre Comuni si guarda ovviamente ai traguardi conseguiti nelle valli di Gardena, Fassa e Badia che appartengono alla Regione Trentino-Alto Adige e quindi alle relative Province Autonome di Trento e Bolzano. Manca fra l’altro nell’ambito della ladinità bellunese un Istituto del livello di quelli di Fassa e di Badia (Majon di Fashègn e Micurà da Rü), è assente anzi - al di fuori delle Unioni Ladine - qualsiasi tipo di organizzazione culturale, perciò la richiesta primaria rivolta alla Giunta Regionale del Veneto e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri è quella dell’istituzione di una Casa della cultura ladina in uno dei paesi che fecero parte del Tirolo e della vecchia Austria e nei quali la ladinità è la prosecuzione del latino della Rezia.

Ma se si volessero colmare le distanze tra la realtà presente e le “provvidenze” emanate a favore della ladinità delle valli sellane adiacenti, altri interventi sarebbero necessari per la tutela della lingua e della toponomastica, interventi che passano attraverso la scuola e l’istituzione di Musei e Biblioteche. Dietro tutti gli sforzi profusi per il salvataggio di queste pericolanti culture, stanno gli studi dei pionieri della ricerca linguistica e dialettologica come i poderosi Saggi Ladini di Graziadio Isaia Ascoli del 1873, le acquisizioni di Carlo Battisti, Carlo Tagliavini, Giovan Battista Pellegrini, Johannes Kramer e di tanti altri investigatori italiani e tedeschi. Tuttavia il buon esito dei movimenti ladini non dipende tanto dalle disposizioni legislative e dall’impegno dei pochi intellettuali che coordinano tali movimenti, quanto dalla partecipazione popolare, senza la quale a lungo andare ogni iniziativa viene a cadere. Comunicazione tratta da “Miscellanea di studi in Memoria di Vito Pallabazzer”, Istituto di Studi per l’Alto Adige - Firenze 2011, pp. 14-21, p.g.c. del prof. Carlo Alberto Mastrelli, Presidente dell’Istituto di Studi per l’Alto Adige, che si ringrazia per la cortesia.

Alcune osservazioni sul lessico del dialetto ladino di Selva di Cadore 1 G.M. Longiarù-Luigi Nicolai, Selva di Cadore - Notizie storiche, Treviso 1983 (I ediz. 1943), p. 12. 2 Giuseppe Richebuono, Le antiche pergamene di S. Vito di Cadore, Istituto Bellunese Ricerche Sociali e Culturali, Belluno 1980, p. 66. 3 Idem, p. 70. 4 Vito Pallabazzer, I nomi di luogo dell’Alto Cordevole, DTA, vol. III, parte V, Firenze 1972, p. 124. S ulla colonizzazione antica della Val Fiorentina possediamo scarsissime informazioni, anche se possiamo fondatamente ipotizzare un qualche tipo di frequentazione in epoca antica, soprattutto sulla base di alcuni importanti ritrovamenti avvenuti non lontano dalla nostra Valle. Ci riferiamo alla epigrafe venetica mutila su pietra rinvenuta nell’estate del 1866 sul Monte Pore, in comune di Colle S. Lucia e alle ben note iscrizioni confinarie romane su roccia alla base del Monte Civetta. È assai probabile che l’origine di Selva, come paese, sia legata alla scoperta o forse meglio alla “riscoperta” intorno al 1000, delle miniere di ferro collesi del Fursìl, forse già note alle popolazioni paleovenete. La prima menzione delle miniere è comunque fissata al 1177, come risulta dalle pergamene del convento brissinese di Novacella. Il più antico documento finora noto, che nomina Selva, non è quello dell’11 febbraio 1257: in furno Silvae Cadubrii1 , ma quello del 15 febbraio 1226 di S. Vito, che tratta di una divisione di beni2 . Del 1234 è invece la prima menzione di una prima chiesa a Selva, dedicata a S. Lorenzo, protettore dei carbonai, evidente legame con le attività minerarie e metallurgiche che si svolgevano in loco3 . Quanto alla cadorinità di Selva, essa risale, come si sa, all’antica ripartizione amministrativa romana, cioè al Municipium di Julium Carnicum che abbracciava, oltre al Friuli, i nostri territori, come attestato dalle iscrizioni confinarie del Civetta. Pallabazzer tuttavia afferma che ci sono ignote le regioni per cui il territorio di Selva, allora pressoché disabitato, venne incluso dai Romani nel Catubrium4 . Questa tarda colonizzazione, unita ad un isolamento geografico dovuto alla localizzazione oltre lo spartiacque BoitePiave, ben definita dalla denominazione Ultramonte o Soramonte (secondo l’uso dialettale d’Oltrechiusa) per indicare i territori cadorini della Val Fiorentina, è certamente all’origine delle peculiarità di questo dialetto, che ha notevoli affinità, per esempio con quelli di Zoppè di Cadore e Zoldo. Sull’appartenenza storico-amministrativa al Cadore, come si è detto, non c’è alcuna obbiezione o perplessità, essendoci una ricca documentazione d’archivio che attesta peraltro la medievale appartenenza di Selva e Pescul (con Caprile) al Centenaro di S. Vito, fino al 1511, quando il distacco di Ampezzo a seguito delle guerre con l’imperatore Massimiliano impose la formazione di un Centenaro a sé, chiamato “d’Oltremonti”.

La storia linguistica di questa Valle è invece piena d’ombre e piuttosto misteriosa, come succede spesso per molti dei nostri dialetti alpini, specie se parlati in valli appartate.

Noi non sappiamo realmente com’era il cadorino intorno al 1000, né sappiamo con certezza che tipo di dialetto parlassero i primi colonizzatori cadorini e da dove provenissero, giacché i dati linguistici che ci trasmette il lessico selvano sono talvolta contraddittori e lasciano adito a molteplici interpretazioni.

Il linguista storico o il comparatista hanno talora l’impressione che il selvano, più che baluardo di un’estrema cadorinità occidentale, si configuri come una cerniera o meglio come un ponte tra la ladinità occidentale di Colle, Rocca, Caprile, Alleghe e dialetti del Sella (livinallese, badiotto, gardenese e fassano) e quella dolomitica orientale del Cadore plavense e oltrechiusano. Condividiamo il giudizio di Pallabazzer quando afferma che, intorno al 1000 “le condizioni dialettali generali (devono essere state) molto uniformi nelle quattro valli che si dipartono dal Sella, ed è probabile che, perlomeno sul piano fonetico, non differissero da quelle cadorine e altobellunesi in genere. Le differenze più consistenti sono subentrate dopo, sia per l’isolamento delle varie comunità, soprattutto quando avevano una popolazione numerosa e distavano notevolmente tra loro e dal centro comunale, sia per spinte e sollecitazioni d’altra natura”5 . Alle stesse conclusioni siamo giunti anche noi soffermandoci invece sulle peculiarità del patrimonio lessicale. Abbiamo selezionato, a titolo esemplificativo, oltre un centinaio di voci selvane schiette appartenenti a campi semantici diversi, principalmente connessi con la tipica cultura agro-silvo-pastorale diffusa, soprattutto in passato, nelle nostre valli, ma anche con le tipologie costruttive e le strutture e suppellettili della casa rustica, la morfologia del suolo e i fenomeni atmosferici, la fauna e la flora locale, il corpo umano, la famiglia, la chiesa e infine una piccola scelta di caratteristici aggettivi, verbi e avverbi.

Pastorizia e allevamento del bestiame

- bìnba “capra giovane che non ha figliato”;
- brós-ce “resti di fieno nella mangiatoia”;
- cianàl f. “mangiatoia”;
- cianàula “collare di legno per le mucche”;
- ciap “gregge, mandria”;
- ciàpa “ferro da applicare agli zoccoli delle
vacche”;
- ðòla, giola “capretta”;
- festìl “abbeveratoio”;
- nàuz “truogolo”;
- nòda “marchiatura di riconoscimento
all’orecchio delle pecore”;
5 Vito Pallabazzer, I dialetti alto agordini, in Il ladino bellunese. Atti del convegno internazionale di Belluno (2-3-4
giugno 1983) a cura di G.B. Pellegrini e S. Sacco, Belluno, 1984, p. 120.

- pazéda “recipiente di legno per il latte”;
- rók “montone”;
- tabìe “fienile”;
- ùre “mammelle del bestiame”;
- zérza “chiovolo, cinghia di cuoio del
giogo”.
Lavorazione del latte
- brama “panna del latte”;
- frùa “latticini”;
- konàge “caglio”;
- nìda “latticello del burro”;
- pauróñ “siero del formaggio”;
- péña “zangola”;
- ternazón “pestello, mazza della zangola”.
Agricoltura
- bìguóza “parte anteriore del carro”;
- cialvia “misura per cereali”;
- ðrài “vaglio”;
- ferèl “correggiato per le biade”;
- kotà “concimare”;
- ruóñ “striscia di prato tra campo e campo”;
- sóz “solco”;
- vant “vaglio a valva di conchiglia”;
- vàra “maggese”;
- vuóra “opera, giornata di lavoro”;
- ziviéra “carriola, barella per il letame”.
Fienagione
- barìza “bariletto per l’acqua”;
- biést “bracciata di fieno raccolta con il
rastrello”;
- kodèr “bossolo per la cote”;
- kót “cote”;
- rodèla “erba falciata distesa ad asciugare”;
- séda “striscia d’erba che si lascia per confine”;
- varteguói “fieno di secondo taglio”.
Casa
- ciàspe “racchette da neve”;
- degorént “corrente del tetto che sporge
dal muro”;
- fornél “grande stufa a volta”;
- laviéz “pentola di bronzo con tre piedi”;
- luóða “slitta da carico”;
- màntia “maniglia, impugnatura, ansa”;
- salòta, salèra “condotto di legno per l’acqua”;
- sbórs “spazzola”;
- s-ciàndola “assicella per i tetti”;
- s-ciàra “grosso anello”;
- sèla “sedile di latrina rustica”;
- somàsa “pavimento di calce e ghiaia”;
- stùa “stanza foderata di legno riscaldata
dal fornél”;
- zanpedón “bicollo, arconcello per portare
due secchi”.
Morfologia del suolo
- bóa “frana, smottamento”;
- fòpa “concavità, avvallamento”;
- giéf, gèf “solco torrentizio”;
- krép, krépa, kròda “rupe, roccia”;
- (l)ànder “riparo sotto una roccia”;
- làsta “lastra di pietra”;
- masarè “macereto, distesa di sassi”;
- mónt (f.) “pascolo alpestre”;
- pàla “ripido pendio erboso”;
- pàusa “luogo di sosta”;
- ròa “terreno franoso”;
- (s)pisàndol “cascatella”;
Fenomeni atmosferici
- (a)insùda “primavera”;
- gónfe “tormenta di neve”;
- tarén “sgombro di neve”;
- tarlùk “lampo, baleno”.
Fauna
- kóa “nido”;
- musìk “toporagno”;
- skiràta “scoiattolo”;
- sorìza “topo”.
Flora
- àier “acero di montagna” (Acer pseudoplatanus);
- auròsk “veratro” (Veratrum album);
- barànce “pino mugo” (Pinus mughus);
- cianàpia “canapa”;
- giésena “bacca di mirtillo” (Vaccinium
myrtillus);
- lavàz “farfaraccio” (Petasites officinalis);
- mag(u)óia “capsula del papavero”;
- meléster “sorbo degli uccellatori” (Sorbus
aucuparia);
- muóia “lampone” (Rubus idaeus);
- pìtola “pigna, strobilo di conifera”;
- trùia, ratùia “barba di becco” (Tragopogon
pratensis).
Corpo umano e famiglia
- bórsa “ragazzo”;
- cianàula del kòl “clavicola”;
- komedón “gomito”;
- lesùra “articolazione, giuntura”;
- pónta “polmonite”;
- sòr “sorella”;
- spiénða “milza”.
Chiesa
- kalònia “canonica”;
- mónek “sacrestano”.
Aggettivi e avverbi
- asài “abbastanza”;
- aùna “insieme”;
- burt “brutto”;
- ciàut “caldo”;
- dalónz “lontano”;
- dasén “davvero”;
- inséra “ieri sera”;
- iñiér, iñér “ieri”;
- negó “in nessun luogo”;
- nìa “niente”;
- spìz “appuntito”.
Verbi
- busà “baciare”;
- desedà “svegliare”;
- ruà “arrivare, terminare”;
- stèrne “spargere lo strame”;
- strozà “trascinare tronchi”;
- tomà “cadere”.

Ebbene queste voci che, secondo una indovinata definizione cara a G.B. Pellegrini, si possono definire “fondo originario comune di latinità alpina arcaica”, sono in gran parte patrimonio comune del ladino atesino (o sellano) e cadorino. Ciò era peraltro già stato parzialmente intuito e illustrato da Pallabazzer nel Convegno internazionale sul ladino bellunese del 19836 . È dunque evidente che l’ambientazione in un’area così appartata e il contatto con correnti culturali e linguistiche diverse, provenienti soprattutto dal basso e alto Agordino, ha prodotto nel selvano, attraverso i secoli, una lenta metamorfosi che oggi si evidenzia vistosamente in un lessico composito e multiforme. Le tracce della cadorinità sono piuttosto sbiadite, più nel lessico che nella fonetica, che rimane invece saldamente ladina, specie nelle palatalizzazioni di ca- e ga-, anche se i plurali sigmatici sono totalmente scomparsi. Sono andate perdute moltissime delle voci più caratteristiche dei dialetti cadorini: aghèi “pungiglione di vespa” sostituito da spin; auriéi “labbra” da bèsole; bucià, bicià “buttare” da butà; bòrba “sterco bovino” da zòrda; auðión, auvión, lauvión, augión “perticone per il carro da fieno” da persói; béte “mettere” da méte; daòs “dietro” da daré; dongiàda “cagliata” da konagiàda; auselàda, auselòda, ausolòda, nosolàda bot. “erica” da lesùra; méðe “mietere” da sesolà; grotón zool. “gallo cedrone” da zedrón; me- ðéna “fieno ben pressato nel fienile” da zó- pa; sbulìa, sbolìa bot. “ortica” da gortìa, kortìa, ortìa, ortìgia; rìghin “corda di canapa” da kòrða; zeléi “caciaia, locale per conservare i latticini” da ciàuna dal formài; tàuta, tòuta “ceppaia” da zócia; sésola, séðola zool. “tordio, capello di strega” da tòrkola; s-ciodìze, s-ciudìze, s-ciodìzo “ovile, porcile” da stalòt; són “tempia” da spóns. Questa è naturalmente una scelta di voci, giacché il patrimonio perduto è molto più consistente.

Anche il caratteristico suffisso diminutivo cadorino-friulano -ùt(o) ci pare del tutto assente sia dal lessico che dalla toponomastica. L’altro suffisso cadorino -ìn pare sopravvivere solo nella voce isolata cianpanìn “campanile”, sostituito ovunque da -ìl: festìl “abbeveratoio da un tronco incavato”, badìl “badile”, mantìl “tovagliolo”. Voci selvane vistosamente pancadorine sono invece: ciònk “taccola della fune” (di origine carnica: klònk a sua volta dal ted.); il raro lòða “corridoio” (oggi perlopiù pòrtek); il verbo se inzarzà “prepararsi, avviarsi”; lo scherz. alòlo “subito” (= debòt); meðét “misura per cereali = ½ kartaruól; bólk “bovaro, pastore di buoi” solo nella locuzione zigà kome ’n bólk “gridare come un ossesso”; anche ónt “burro” soppiantato oggi da botìro è una voce cadorina schietta, ma nel selvano arcaico esisteva anche un tedeschismi, un tempo assai diffuso: smàuz. Nelle carte medievali di S. Vito o Selva sono certamente presenti antiche voci cadorine ora scomparse. Nicolai, nel suo dizionario etimologico, ne segnala due assai interessanti e diffuse ancor oggi in Comelico: duzón, dizón “pista tracciata dal bestiame nei pascoli” e un arcaico glièr usato nella locuzione: kel là no l é da méte glièr “è inaffidabile”, che in realtà sarà un grièr “pastore del gregge” (dal lat. gregarius), ben noto nei documenti antichi, specie sotto la forma grearius7 . La tarda colonizzazione della Val Fiorentina, che, come si è detto, pare risalire 6 Idem. 7 Luigi Nicolai, Il dialetto ladino di Selva di Cadore. Dizionario etimologico, Union de i Ladign de Selva, Selva di Cadore, Belluno 2000, p. 150, 154 e pp. 188, 193; e v. Pallabazzer 1984, cit. p. 219.

al periodo alto-medievale, è confermata anche dalla toponomastica locale priva di molte delle arcaiche e spesso antichissime voci, dei veri fossili, diffuse invece nel Cadore plavense, area di antico incolato.

Sono assenti infatti qui tipi toponimici come: albèrgo “luogo riparato per il bestiame”; autìa, otìa “uccellanda, tesa”; bàrko “piccolo fienile isolato”; bórcia “biforcazione”; bràko, bràka “terreno dissodato” (esiste però in selvano il verbo bras-cià “dissodare); beguzèra “carrareccia” (ma esiste però biguóza “parte anteriore del carro”); ciópa, ciàpa “viottolo erto e sassoso”; fiès “curva di strada o di corso d’acqua” da flexus; gèi, ièi “campagna recintata” di origine longobarda; kortà “terreno recintato”; ligónto, ligónte di origine e significato oscuro ma presente in quattro toponimi a Lozzo, Domegge, Auronzo e Comelico Superiore, si trova anche in Valle di Zoldo; lùða, luðà “canalone per i tronchi” (prelatino); tànber, tànbar (prelatino e connesso con il tamài selvano); ta(v)èla “campagna pianeggiante”; Vìgo “paese”; zéna “pascolo vespertino”; zerzenà probabilmente “radura circolare”. Sono assenti inoltre i suffissi prediali così diffusi nel Cadore centrale, terminanti in -àn, -àna, -àgo, -ìgo (Ruñàn, Zubiàna, Steàn, Lorenzago, Ranzanìgo, ecc.). Ci sembrano tracce cadorine ampezzane alcune voci, penetrate forse attraverso il Passo Giau, come arkobeàndo (ALI e Dell’Andrea) “arcobaleno”, ampezz. arc. ’id.’, Oltrechiusa arkoboàn; nèr? arc. (Nicolai) “non è vero?” = ampezz. ñéro?; malzapatà “malvestito”, ampezz. ’id.’; negùn “nessuno”, ampezz. ’id.’, la voce è però comune a tutti i dialetti dell’Agordino settentrionale; a la merlàka (Nicolai) “alla carlona” = ampezz. a ra morlàka; zòrda “sterco bovino”, ampezz. zòrda, ma la voce è tipica dell’area ladina occidentale (ladino sellano, alto Agordino e Zoldo); belóra “donnola”, ampezz. bèldora, ma Agordino centrale beróla, fassano bèlora, bèrola, badiotto bèlora e gard. bulëura; bugèla infant. per gusèla “ago”, ampezz. bužèla (Oltrech. busèla).

Che il selvano sia un crocevia di correnti linguistiche eterogenee è comprovato anche da una ricca serie di sinonimi e varianti fonetiche che abbiamo rilevato dai due lessici di Lorenzo Dell’Andrea e Luigi Nicolai: soriza, sorz “topo”; fogolà, foghèr “focolare”; kilò, ka “qui”; là, ilò “là”; kortìl, kortìf, kortìvo “cortile”; torónt arc., tóndo “rotondo”; ðòla, giòla “capretta”; ke ròba élo? “che cos’è?”; soàða, suàða, kornìs “cornice”, domài, nomài “soltanto”, bréa, brégia “tavola, asse”; vadañà, davañà, guadañà “guadagnare”; komàt, komàcio “collare del cavallo”; anberzón, arbenzón, bonìgol, botón de la pànza “ombelico”; odór, udór, stóf “odore”; kucéta, letiéra “lettiera”, karét, ciarét “carretto”; fài, fa “fare”; le àrte, le masarìe, i inprés-c “attrezzi, utensili”; kuciàro, kazuól, skuliér “cucchiaio”; mónek, nónzol “sacrestano”. Concludendo queste brevi note sul lessico selvano, sulla base della originalità e isolamento di molte voci - specie collesi e selvane -8 , riteniamo ora che si possa parlare fondatamente di una piccola unità linguistica comprendente i sei dialetti 8 Per es.: roadìva “lavoro collettivo di sfalcio”, gortìa “ortica”, guzél “uccello”, solèr “latrina rustica nel poggiolo”, véza “abete bianco”. alto-agordini, suddivisi al loro interno in livinallese, lastesano, rocchesano e collese da un lato; alleghese (con Caprile) dall’altro e in posizione un po’ appartata il selvano (con Pescùl). Per una trattazione più accurata e approfondita di questa “unità lessicale” si rimanda opportunamente al saggio di Pallabazzer del 1983 (v. nota 6). Ringrazio i gentili informatori Ermenegildo Rova e Aristide Bonifacio per i loro preziosi suggerimenti che riguardano fonti storiche e lessico di Selva di Cadore.

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  1. (Nota dell’I.L.D.) Alla fine del 2003 i Comuni della Provincia di Belluno dichiaratisi ladini furono 39. Infatti, al primo elenco di 38, risalente al 2001, si aggiunse Calalzo di Cadore, nel 2003; 2 (Nota dell’I.L.D.) La data di promulgazione non è corretta. Più precisamente si tratta della legge n. 482 del 15 dicembre 1999 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”;