Ladin! 2007/1
Questo testo è da formattare. |
◄ | Ladin! 2007 | 2 | ► |
Nicola Gasbarro
Minoranze e pratica interculturale
Chi scrive è uno storico delle religioni e faticosamente cerca di ricondurre a buone ragioni storiche e sociali ciò che in sé e per sé si pone e si impone come metastorico e metasociale, condizionando la struttura dei valori culturali e la pratica della vita quotidiana. Tutti sappiamo che il metastorico e il metasociale, anche quando operano in forme non riconducibili alla religione, condizionano antropologicamente, anche oggi, la costruzione storica e concreta delle identità culturali e le conseguenti rivendicazioni di autenticità e di autonomia. Analizzare questo problema non è un compito facile, soprattutto in Italia, paese con una cultura più religiosa che storica: ci meravigliamo spesso dei fondamentalismi religiosi e culturali degli altri, ma spesso non sappiamo fare a meno di quelli interni alla nostra cultura, che pesano sul nostro immaginario simbolico e persino sul nostro modo di organizzare il sociale e di regolare i rapporti tra sistemi di conoscenze e processi di decisione. Cercare di comprendere le ragioni storico-culturali delle religioni è in qualche modo inserirle nei contesti temporali e spaziali delle culture e/o delle civiltà - insisterò molto sulla differenza tra queste due nozioni, e non a caso! - che le hanno messe in moto: questo inserimento rinvia necessariamente ad una contingenza sia sincronica (il rapporto tra il codice culturale «religione» e il sistema più generale della civiltà in un determinato momento) sia diacronica (la formazione e lo sviluppo storico di una specifica religione nel contesto di una civiltà e/o di più civiltà). Come è facile notare la religione - ma questo può e deve valere per ogni codice culturale, come la politica, l’economia, il diritto, ecc.- è così posta in contingenza, nel senso etimologico del termine che rinvia ad un essere in contatto, ad una relazione che fa parte dell’identità, ad una pratica «meticcia» interna alla cultura di appartenenza e, ancora di più, ad un sistema di relazioni tra civiltà, sociali e simboliche, che caratterizza la globalizzazione contemporanea.
Ogni codice culturale, dalla religione alla politica, dal diritto all’economia ecc. non può prescindere dall’insieme delle relazioni storiche e concrete che costruiscono un ordine del mondo onnicomprensivo dei rapporti degli uomini con la natura e degli uomini tra loro. Lo storico e lo scienziato sociale devono necessariamente partire da questa evenemenzialità visibile, quando vogliono comprendere le elaborazioni simboliche, le strutture di senso, i valori e i modelli di comportamento che regolano la vita quotidiana collettiva e individuale. Due le conseguenze: da un lato la necessità di abbandonare ogni pregiudizio etnocentrico che deriva quasi naturalmente dalle nostre appartenenze linguistiche e culturali -la famosa «identità» forte di origine e di destino!-, dall’altro l’urgenza di riconoscere che non c’è identità senza relazioni (basta pensare alla nostra identità famigliare che necessariamente deve fare i conti con relazioni diacroniche e sincroniche), e non ci sono relazioni senza relazioni tra relazioni.
In questo senso siamo tutti «meticci» a livello culturale: il vero problema non è questa evidente realtà sociale, ma la logica simbolica che ne deriva. Siamo troppo abituati a ragionare in termini di identità e conseguentemente con la logica delle somiglianze e delle analogie, e forse anche per questo non riusciamo a comprendere gli scenari esistenziali che il mondo contemporaneo costruisce moltiplicando le relazioni, le interferenze, le connessioni e gli inevitabili scontri sociali e simbolici. E’ necessario avere un orizzonte più allargato, capace di includere socialmente le differenze e di cercarne una compatibilità simbolica nella ortopratica della vita civile. Più che continuare ad evocare «lo scontro delle civiltà»1 come inevitabile avventura del presente e come via d’uscita ideologica e geopolitica dalla «società dell’incertezza», è forse necessario interrogarsi sulla possibilità e sul valore di un «pensiero meticcio» che da sempre è praticamente presente nei rapporti tra civiltà . Non si tratta quindi di idealizzare il cosiddetto dialogo tra le culture né di teologizzare le gerarchie esistenti sia a livello economico sia a livello politico, ma di individuare gli strumenti teorici e critici di analisi delle diverse situazioni e delle loro traduzioni ideologiche e simboliche. Anche perché queste ultime spesso occupano totalmente lo spazio del discorso pubblico e costruiscono false certezze con tutti i rischi conseguenti sia a livello di sistemi di conoscenza sia a livello di processi di decisione. Ad esempio molti sostengono la necessità del dialogo tra le grandi religioni per risolvere il problema del conflitto tra civiltà: in definitiva è l’Islam a porre interrogativi fondamentali all’Occidente civile e senza dialogo tra le religioni è impossibile uscire dall’impasse politica e istituzionale. Devo confessare che in termini storici e antropologici non capisco: cosa vuol dire dialogo tra religioni in termini politici e istituzionali? Quale il suo valore empirico e storico? Ne sento parlare dal Concilio Vaticano II, ma devo storicamente prendere atto che le società più conflittuali sono oggi quelle che fondano la loro identità religiosa a partire dalle tre religioni monoteistiche. Cosa hanno da dire ai fedeli di altre religioni se sono incapaci di dialogare tra loro e di mettere in moto un processo di pace? Dove devo cercare i risultati concreti di quasi mezzo secolo di dialogo tra religioni? Viviamo concretamente in un’Europa in costruzione e tutti ancora discutiamo sulle radici ebraico-cristiane della sua identità, ma la struttura ideologica anche qui trascende i fatti storici e le dinamiche antropologiche. L’ Europa economica esiste già, quella politico-sociale comincia ad emergere insieme a quella istituzionale, mentre non esiste un’ unione religiosa dell’Europa, neppure in nome del Cristianesimo, ancora troppo diviso in ortodossie inconciliabili e in etiche incompatibili. Quando parliamo dei fondamenti cristiani dell’Europa, a quale Cristianesimo facciamo riferimento? La storia moderna dell’Europa non è stata forse segnata dalle divisioni e dai contrasti religiosi? Sono stati «religiosamente» ricomposti dal dialogo tra fratelli separati? In definitiva: come sottoporre a verifica scientifica il dialogo tra le religioni come modello culturale di relazioni tra civiltà? Come analizzare i processi che mette in moto? Per ora preferisco affrontare il problema religioso dell’Europa storicamente, senza pregiudizi laicistici: nessuno può negare l’incidenza culturale del Cristianesimo sulla formazione dell’identità dell’Europa (come ignorare Carlo Magno? Come non tener conto della «repubblica cristiana»?), ma nessuno può trasformare questa «formazione» contingente in «forma» necessaria ed ineliminabile, quasi trascendente. Le origini cristiane non possono diventare principi ontologici e/o assiologici, al punto da ispirare le costituzioni che per loro natura sono civili, e non religiose. Aggiungo che tutti coloro che rivendicano con forza le radici cristiane dell’Europa, dal Papa ai nostri teo-conservatori, non si accontentano di un’innegabile contingenza storica, ma Sezion 1 • Articole Scientifiche 1 Si veda: S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997; Z. Baumann, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999; S. Gruzinski, La pensée métisse, Fayard, Paris 1999.
pretendono un fondamento come orientamento forte dei valori, tale cioè da escludere tutti coloro che non ne riconoscono la validità strutturale a livello pratico, anche indipendentemente della loro fede individuale. Altro che dialogo tra religioni: l’ortodossia finisce con l’escludere ogni forma di meticciato culturale, rinchiudendo l’identità entro i confini di un’appartenenza esclusiva, teologicamente fondata e moralmente operativa. E’ quasi inevitabile che l’identità forte diventi «orgoglio» di appartenenza e «rabbia» contro altre strutture di senso simmetriche ed inverse, come l’Islam, fino a mettere in moto fobie simboliche ed esplosioni sociali, che hanno poco a che fare con i principi di uguaglianza della società civile europea. Non sviluppo questo tema troppo conosciuto, tenendo conto del grande successo dei libri di Oriana Fallaci: in essi le religioni sono al servizio della geopolitica dello «scontro delle civiltà», e il Cristianesimo al servizio di un Occidente che deve ritrovare le ragioni della sua forza di senso e del suo potere istituzionale: una nuova e più sofisticata colonizzazione politica del nostro immaginario culturale? I problemi che occorre invece affrontare sono l’interculturalità, come sistema di relazioni tra culture intese come ordini sociali e simbolici del mondo -tornerò sul concetto di cultura e sulla differenza tra cultura e civiltà- e gli strumenti critici che abbiamo a disposizione nel nostro paese per comprendere la globalizzazione attuale, che rompe tutti gli equilibri raggiunti dalla modernità e le conseguenti visioni del mondo. Devo subito dire che la situazione generale è poco originale e a volte persino provincialmente ironica: importiamo da fuori, soprattutto dagli Stati Uniti, i problemi (basti pensare al già citato «scontro delle civiltà») e le modalità di analisi e soluzione, per poi applicare queste ultime a necessità e processi storici diversi. E’ certamente grave storicamente e antropologicamente non capire che in termini relazionali e persino geopolitici l’Islam pone problemi diversi (compresi i fenomeni di immigrazione e di mercato del lavoro) all’Europa e agli Stati Uniti, ma è ancora più grave servirsi delle stesse prospettive storiche e degli stessi modelli antropologici, in nome di un Occidente unico, costruzione certamente moderna, ma che la globalizzazione e la pluralità dei rapporti tra civiltà tende a mettere in crisi e persino a superare2 . Noi continuiamo a dividerci tra un’identità forte ed irriducibile che ispira la nostra destra politica e culturale e un multiculturalismo relativista e tollerante che si nasconde nella sinistra buonista, nel cattolicesimo riformatore e nel capitalismo caritatevole, ma pochi sanno che queste due modalità di approccio fanno parte dello stesso modello multiculturalista americano, erede postmoderno della concezione culturologica della modernità mitteleuropea. Oscilliamo da un polo all’altro di una codificazione ermeneutica, e non usciamo dai problemi sociali e simbolici che appartengono a noi europei e ai nostri modi di pesare e vivere le relazioni con le altre civiltà. Di più: utilizziamo nel presente modelli «altri» e dimentichiamo la nostra storia che ha inventato strutture simboliche capaci di rendere compatibili differenze e di includerle in orizzonti storici di possibilità. Un esempio può essere utile. Il nostro paese non ha una seria politica estera anche perché non elabora da tempo una riflessione storico-antropologica sulle relazioni tra le civiltà: grazie alla globalizzazione dell’economia e alle inevitabili conseguenze 2 Su questo sono interessanti le analisi diverse, ma convergenti di J. Habermas, L’Occidente diviso, Laterza, Bari 2005; F. Heisbourg, La fin de l’Occident? L’Amérique, l’Europe et le Moyen-Orient, Odile Jacob, Paris 2005.
interne al nostro sistema produttivo, ci siamo finalmente resi conto dell’esistenza della Cina, ma nessuno si chiede in quali e quante università italiane si studia lingua, storia e cultura di questo grande paese. Pochi però sanno che l’Occidente moderno ha cominciato a conoscere la Cina, agli inizi del XVII secolo, grazie al lavoro scientifico di un gesuita italiano, Matteo Ricci 3 , che, da vero uomo-mondo, ha cominciato a comparare le strutture simboliche e politiche delle due civiltà, ponendo interrogativi di mediazione e di compatibilità al pensiero religioso e civile dell’Europa. Non voglio qui fare polemiche strumentali, ma solo stimolare una riflessione: a livello simbolico e conoscitivo l’Italia di Matteo Ricci era più aperta al mondo e più consapevole delle differenze culturali di quella attuale, e questo certamente non è il modo migliore per comprendere e governare la globalizzazione dei rapporti tra civiltà! Vorrei provocatoriamente aggiungere: neppure gli evidenti interessi del nuovo capitalismo4
riescono
a farci riflettere sui nostri pregiudizi etnocentrici e sulle nostre false certezze universalistiche. Vorrei approfondire questo tema, ma mi limito ad invitarvi a pensare alla scarsa conoscenza che abbiamo del mondo arabo e dell’Islam, per non parlare di un intero continente come l’Africa, abbandonato e dimenticato dall’Europa dopo il disastro culturale e politico del colonialismo. La complessità dei mondi contemporanei ci spaventa prima simbolicamente e poi politicamente: li conosciamo troppo poco e male per elaborare una politica di distensione, di compatibilità e di pace sociale. E’ necessaria una svolta radicale: se continuiamo a ragionare in termini di forze tradizionali e con strumenti tipici della guerra fredda e della necessaria difesa tra sistemi contrapposti e incommensurabili, abbiamo già perso: la minaccia quotidiana dei kamikaze è un segno della trasformazione del conflitto e dei rapporti di forze della modernità. Il problema del senso culturale, non sempre riducibile a fanatismo religioso, irrompe nel campo della politica e ne trasforma radicalmente le regole e le prospettive; se poi i sistemi di senso sono molteplici e differenziati, anche le politiche diventano multidirezionali e imprevedibili. Nelle società complesse i processi di decisione non possono mai fare a meno dei sistemi di conoscenza (basti pensare al grande potere simbolico e politico della tecnica): oggi la politica e la democrazia non possono permettersi di ignorare la complessità dei rapporti tra civiltà come problema del presente e dell’immediato futuro. Quando si conosce poco e male l’alterità culturale, si comprende poco e male il proprio presente: le guerre del presente sono pensate dalla nostra classe dirigente (non solo politica, ma anche economica, intellettuale, ecc.) in termini di religione e/o di politica? Tutti invitano alla cautela, raccomandando di non confondere il fondamentalismo dei kamikaze con l’Islam, perché non tutto l’Islam è fondamentalista! Ma allora si tratta di un conflitto religioso, anche se nel nostro immaginario collettivo questo giudizio negativo non può riguardare tutti i credenti di un’altra religione monoteistica. Si potrebbe sostenere che si tratta di un conflitto politico, ma in questo caso si dovrebbe parlare di stati, di rapporti economici, ecc. e non fare appello al dialogo tra le religioni per risolvere i problemi conflittuali della politica internazionale. Non si tratta di una 3 La bibliografia specialistica su Ricci cresce continuamente. Per un primo approccio alla vita e all’opera del grande gesuita, sono utili M. Fontana, Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming, Mondadori, Milano 2005 e F. Mignini ( a cura di), Padre Matteo Ricci. L’Europa alla corte dei Ming, Mazzotta, Milano 2005 (catalogo della mostra promossa dall’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente, Roma, Complesso Monumentale del Vittoriano, 11 febbraio-10 aprile 2005). 4 R. Sennet, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna 2006.
questione nominalistica e/o di classificazione categoriale, ma più profondamente della nostra incapacità di comprendere storicamente e antropologicamente l’alterità, che proprio per questo ci appare radicale. Le conseguenze culturali sono inevitabili: la confusione provoca paura, ed invece di cominciare a elaborare un nuovo sapere capace di evitare le cause sostanziali, cerchiamo di allontanare gli effetti con una politica della sicurezza difensiva, creando nuove frontiere dell’immaginario e mettendo in moto pratiche di riduzione di democrazia, in nome della sicurezza simbolica e politica. Ad uno sguardo da lontano tutto questo appare scientificamente incomprensibile e politicamente perdente: occorre perciò capire di più e meglio. Cosa significa «civiltà, quando parliamo di «scontro delle civiltà»? Quale il valore che diamo al concetto di «cultura» quando insistiamo sul modello «multiculturale»? C’è un’alternativa possibile al multiculturalismo? Dove trovarla? Come metterla in azione a livello simbolico e nella pratica sociale? Dall’impasse del presente si può uscire solo con nuovi strumenti critici e comparativi, che non a caso rimettono in discussione il nostro passato culturale e la nostra capacità di immaginare un futuro diverso dal presente, senza rinunciare al fascino della trasformazione sociale e alla seduzione dell’utopia simbolica. Il concetto di cultura è alla base dell’antropologia e rinvia generalmente e genericamente ad un sistema di valori e di modelli di comportamento di un popolo in un momento determinato della sua storia. Etimologicamente deriva dal verbo latino «colere» che significa «coltivare», anche in senso non materiale: basti pensare al «culto» religioso e alla «cultura animi» che possiamo tradurre come «coltivazione dello spirito» e/o semplicemente «cultura» in senso simbolico. Trascurando qui le connotazioni aristocratiche e storico-politiche del suo significato, occorre dire che il suo uso «marcato», anche antropologico, comincia nella società mitteleuropea, dopo la rivoluzione francese, anche in opposizione al campo semantico di «civiltà» e/o di «civilizzazione». «Kultur» è prima di tutto il complesso insieme delle attività simboliche e «spirituali» di un popolo, con una precisa gerarchia di codici culturali: le espressioni più immediate dello «spirito» sono il pensiero, l’arte, la musica, il linguaggio, il mito e ovviamente la religione, mentre tutto ciò che rinvia al sistema sociale e alle strutture istituzionali è gerarchicamente subalterno. Questa gerarchia è morfologicamente operativa: la morale (la religione?) governa il diritto, come il pensiero simbolico dovrebbe governare le dinamiche sociali, in un macrosistema culturale che non a caso si esprime con l’idealismo filosofico e con il romanticismo delle arti che interpretano. Occorre inoltre segnalare che qui il popolo è pensato principalmente in senso etnico, con un rinvio romantico alla «natura» e allo «spirito» in essa implicitamente presente in potenza, ovviamente da mettere in azione «coltivandolo» con la forza e le giuste forme della maieutica. Il richiamo alla Grecia classica è qualcosa di più di una suggestione archeologica e storica: il fondamento etnico, lo «spirito del popolo», la morfologia della «paideia» fanno della «kultur»un modello storico-culturale applicabile ad ogni etnia considerata in sé e per sé, ma privo di ogni capacità di inclusione di diversità relazionali e di generalizzazione universalistica. Ne deriva la possibilità di un’etnologia storica ed idiografica, classificatoria e differenzialista, ma senza tensioni scientifiche verso un’antropologia come scienza generale dell’uomo capace di ripercorrere comparativamente il processo di civilizzazione. Il concetto di civiltà, nella storia moderna tipicamente italiano e poi francese e inglese, è legato alla struttura della «civitas» romana: la città come insieme strutturato di cittadini resi uguali dai diritti civili, indipendentemente dalle appartenenze etniche, religiose, ecc. La «civilitas» è un modello di comportamento, una modalità «cortese» di relazioni sociali, una pratica di buone maniere, che derivano non tanto
dalla «città» come luogo di nascita e/o di identità culturale, ma come sistema di relazioni tra cittadini. Qui il popolo non è pensato in termini etnici, ma giuridico-civili: il «populus» ha a che fare con il «publicus», e le prime città-stato della modernità italiana pensano se stesse in termini di «res publica», anche per opporsi alla universale e religiosa «repubblica cristiana» della tradizione medioevale. Non a caso persino il Cristianesimo in Occidente ha fondato il suo universalismo religioso e politico come «civitas Dei» (Sant’Agostino). Il concetto di civiltà è diverso da quello di cultura prima di tutto perché privilegia i rapporti sociali e il sistema giuridico e istituzionale: conseguentemente i codici più importanti diventano il diritto, le istituzioni politiche, l’economia, il sistema sociale e la sua organizzazione, mentre le strutture «spirituali» sono analizzate come costruzioni simboliche, storicamente determinate e antropologicamente arbitrarie, delle diverse società in azione. Di più: questa diversa prospettiva ci fa comprendere anche come storicamente ci siamo rapportati agli altri nel lungo cammino della modernità. Subito dopo la scoperta del Nuovo Mondo, l’Occidente si è posto il problema dell’identità degli altri: barbari e quindi naturalmente schiavi, o selvaggi e quindi arretrati solo per condizioni ambientali di vita e di strumenti culturali a disposizione? Vorrei sottolineare che il concetto di barbarie rinvia ad una mancanza «naturale», quindi deterministica e storicamente irrimediabile, mentre quello di «sauvagerie» sottolinea una contingenza spazio-temporale che può essere superata con un adeguato processo di civilizzazione: se i selvaggi si oppongono ai civili come gli uomini che vivono nella foresta si oppongono agli uomini che vivono nella città, è sufficiente fondare città nella foresta, esportando diritti e buone maniere culturali, per costruire un progetto antropologico tendenzialmente universalistico. Non intendo dire che le cose sono andate in questo modo -la colonizzazione ha avuto effetti drammatici sia a livello politico sia a livello simbolico-, ma solo sottolineare differenze concettuali che hanno una grande importanza nella storia delle relazioni tra civiltà: provate ad immaginare gli effetti politici di un colonialismo fondato su una barbarie naturale e su un destino di schiavitù e di oppressione, non solo socialmente condivisi, ma anche teologicamente predeterminati! Se la cultura di un popolo dipende in qualche modo dalla sua struttura etnica, il rapporto tra natura e cultura diventa biunivoco, limitando lo spazio dell’elaborazione simbolica ai propri simili, e spesso affidandola ai più puri della comunità «spirituale». Questa forte struttura comunitaria è moltiplicabile - più etnie, diverse culture - e differenzialista: la differenza delle culture dipende dalla diversa morfologia, e quindi dal grado diverso di sviluppo dello «spirito», in qualche modo legato alle differenze della natura umana. E’ certamente vero che lo spirito soffia dove vuole, ma è anche vero che questo principio di indeterminazione fa parte della stessa natura dello spirito culturale che perciò nasconde i grandi determinismi della natura. La civiltà è invece fondata su rapporti sociali voluti storicamente, e non dati dalla natura: se voglio fondare qualcosa sul sociale e sul contrattuale, devo per forza di cose non solo eliminare le differenze naturali, ma anche evitare di pensare ogni diversità naturale e/o culturale in termini di determinismo storico. Non a caso il fondamento della civiltà è l’uguaglianza data dalle relazioni, prima ed oltre ogni differenza fisica e/o di appartenenza comunitaria: l’uguaglianza civile è il presupposto ed insieme il limite delle libere espressioni delle differenze. Storicamente si è usciti dalle guerre di religioni con l’invenzione culturale politica della uguaglianza civile che ha reso compatibili le appartenenze e le fedi religiose, le determinazioni etnico-culturali, e persino i diversi orientamenti sociali verso il futuro. Il multiculturalismo americano, che richiama la
prospettiva della «cultura», rinvia, di fatto, ad appartenenze identitarie forti e spesso inconciliabili, anche a costo di andare oltre l’orizzonte della tolleranza: la radicale differenza «spirituale» può al massimo condurre alla «politica del rispetto»5 , che è la versione buonista e «caritatevole» dell’esclusione e della «sauvagerie» differenzialista. Qui si parte comunque dalla differenza, anche quando si cerca di elaborare strategie capaci di attenuarne gli effetti sociali: in definitiva quando si parla di identità forte e pura, c’è sempre qualche «comunità» pronta a rivendicare più forza di valori e più purezza di comportamenti, anche inventando appartenenze fittizie e/o costruzioni storiche congetturali6 . La struttura della civiltà è invece inclusiva delle differenze e ne cerca le possibili compatibilità sia a livello sociale e politico sia a livello simbolico: il repubblicanesimo è stato ed è ben diverso dal nazionalismo! Non posso qui approfondire tutte le implicazioni storiche e antropologiche di questi due modelli di analisi, ma devo stimolare, anche se solo con accenni, qualche riflessione comparativa. La nazione è in qualche modo una sorta di traduzione politico-istituzionale della natura, in quanto rinvia ad una «nascita» (da determinati ascendenti -ius sanguinis- o in un determinato posto-territorio -ius loci-) che segna - si tratta non di un simbolo arbitrario, ma di una segnatura indelebile- l’essenza del proprio essere e della propria storia. Tutti sapete bene a cosa può condurre l’esasperazione di una simile ideologia politico-culturale; se essa rinasce oggi in nome di qualche teologia monoteistica, gli effetti possono essere disastrosi. La «res publica» -lo Stato- invece trova fondamento esclusivo sui «diritti civili» della cittadinanza, e solo grazie ad essi possiamo parlare di società civile come «auctoritas» della politica e dell’esercizio del potere («potestas»). Non a caso la democrazia dei moderni è nata all’interno di questa prospettiva antropologica, come logica rappresentanza di una società civile, e insieme di una socio-logica generalizzabile ed inclusiva. All’interno di questa pratica sociale sono nati, infatti, i saperi della sociologia e dell’antropologia sociale, che passano dall’analisi interna dei propri sistemi sociali ad un orizzonte generale capace di includere tutti gli uomini che vivono necessariamente in relazione con gli altri e non possono non pensare se stessi se non con e all’interno di questa relazione. E’ evidente che si tratta di due modelli di analisi che nella realtà interagiscono in modo diverso e in contingenze storiche determinate: l’opposizione qui delineata è quindi metodologica e serve a chiarire dinamiche culturali. Quando ad esempio parliamo di Stati nazionali, possiamo pensare sia a una nazione che si auto-istituzionalizza in Stato, sia a una concezione della «res publica» generale che si particolarizza statualmente in una nazione: la prima è in verità una Nazione-Stato -il vero nazionalismo!-, la seconda è uno Stato-Nazione - la vera democrazia moderna! È necessario riflettere su queste differenze non marginali per comprendere la nostra storia recente e soprattutto le dinamiche delle relazioni tra civiltà che la globalizzazione mette in azione, anche nel difficile processo di costruzione europea. E’ evidente che il superamento degli Stati nazionali è una necessità, ma un orientamento culturologico può 5 Su questo è fondamentale C. Taylor, Il multiculturalismo e la politica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1994. Interessante il dibattito in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998. 6 B. Anderson, Comunità immaginate. Riflessioni sulle origini e la diffusione del nazionalismo, manifestolibri, Roma 1996. Questo vale anche per le grandi potenze culturali e politiche del nostro presente: per una rapida conferma basta leggere criticamente S.P. Huntington, La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Garzanti, Milano 2005.
portare al massimo ad un federalismo di diversità, mentre una prospettiva «civile» spinge nella direzione di un grande Stato con una politica comune sui problemi più urgenti: un processo in atto che mostra chiaramente le nostre diverse concezioni storiche e antropologiche ereditate dalla modernità. In questo contesto più generale deve, a mio avviso, essere ripensato lo statuto e il ruolo di ogni «minoranza» (linguistica, culturale, ecc.): se essa è pensata in sé e per sé, cioè in termini di differenza culturale e di purezza assiologica, nessun federalismo può salvarne l’autenticità strutturale e differenzialista; se invece è inserita in un contesto di relazioni «civili» che garantisce l’uguaglianza prima di mettere in moto il diritto alla differenza, può esprimere non solo la propria visione del mondo, ma anche pretendere riconoscimenti politici intesi come sottosistemi amministrativi capaci di valorizzare la propria specificità. Non sono in discussione la differenza e il suo valore di senso, ma la struttura complessiva delle relazioni e le sue priorità di valore: la prospettiva «culturale» pensa la differenza in sé e per sé e quindi in opposizione all’alterità, facendo dell’uguaglianza una sorta di compromesso possibile e contrattualmente arbitrario, l’orizzonte della «civiltà» antepone l’uguaglianza delle relazioni come luogo garantito e strategico dell’espressione della ricchezza delle differenze, che esistono solo in quanto prodotto delle relazioni. D’altra parte sappiamo tutti che ogni «minoranza» si definisce in relazione a (e all’interno di) uno specifico sistema sociale, ed ogni trasformazione sistematica comporta la ridefinizione delle strutture comunitarie delle identità differenziali: è uno dei grandi problemi sociali e antropologici della costruzione europea. Di più: l’Europa è anche -ed è un aspetto importante e troppo trascurato dai mezzi di comunicazione di massa- il contesto storico-culturale e il luogo politico di una grande discussione pubblica del modello multiculturalista dell’antropologia e della politica, elaborato negli U.S.A. e in Canada7 . Si tratta, infatti, non solo di riflettere sulla sorte della modernità occidentale, ma di analizzare criticamente il presente delle relazioni tra civiltà proprio a partire dalle diverse modalità di pensare l’alterità e le relazioni con essa: non a caso il multiculturalismo americano è legato alla cosiddetta postmodernità, che parte dal presupposto della fine della modernità8 della «vecchia Europa», mentre il processo di costruzione della nuova Europa sembra valorizzare la coscienza storica e antropologica di una «surmodernità»9 intesa come surplus di relazioni e di connessioni già evidenziati dal processo «civile» della prospettiva antropologica della modernità occidentale. Non posso qui riassumere l’intero dibattito e la complessità dei problemi posti dalle due diverse prospettive, ma è importante tornare sul tema dell’identità e delle relazioni con l’alterità, che sembrano oggi al centro del dibattito pubblico, sia a livello simbolico sia a livello politico. Abbiamo già 7 Ho già citato l’interessante discussione tra Taylor e Habermas, ma il dibattito è molto ricco e interessante: si veda ad esempio: J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998; C. Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Il Mulino, Bologna 2006; G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003; G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano 2000; A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. 8 I riferimenti antropologici sono soprattutto il già citato Taylor, C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987 e Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988; J. F. Lyotard, La condizione post-moderna, Feltrinelli, Milano 1985. 9 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia dei mondi contemporanei, Elèuthera, Milano1993; e Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
visto che «cultura» come «spirito di un popolo» rinvia ad una identità etnico-culturale, ad una «comunità» di simili che «sentono» allo stesso modo e si muovono nella stessa direzione: grazie alla casualità della nascita si appartiene ad una società, ad una lingua, ad una storia culturale, a determinati modelli di comportamento, fino ad assumerli come orizzonte unico di azione pratica e di trascendimento nel valore. E’ questa l’identità che fissa un’origine come forma sostanziale, condiziona lo sviluppo come espressione di una morfologia, determina il futuro come una sorta di destino comunitario: il fine individuale è inscritto nel dover essere collettivo, e la libertà non è mai scelta tra alternative di valori, ma impegno differenziato in un processo che ha già una direzione e un senso. E’ evidente che qui identità e cultura coincidono in modo strutturale, nel segno della forte differenziazione in termini di valori e di gerarchia interna al sistema -i diversi gradi di valore e di purezza non possono non avere conseguenze anche a livello di gerarchia sociale!- e di relazioni tra sistemi -le differenze di senso, che oggi in modo quasi tragico parlano in nome di Dio, producono ed esprimono insieme strategie geopolitiche, economiche e militari. La civiltà invece definisce l’identità non come un «dato» dalla e della natura, ma come un «voluto» dalla e della elaborazione simbolica a partire dalla complessità delle relazioni sociali, che nella pratica della vita segnano il nostro essere nel mondo e il nostro divenire nella storia culturale. L’identità è per forza di cose variabile, contingente e arbitraria a tutti i livelli: la libertà presuppone conoscenza delle alternative, comparazione tra sistemi di senso, scelta cosciente nel presente e possibilità di continuare a scegliere nel futuro, etica storica della responsabilità nella contingenza delle relazioni coinvolte, discussione pubblica capace di evidenziare le buone ragioni degli altri e di immaginare regole di inclusione sociale e di compatibilità simbolica delle differenze. Lévi-Strauss scrive: « Se si suppone che anche l’identità abbia le sue relazioni di incertezza, la fede che noi ancora abbiamo in essa potrebbe non essere altro che il riflesso di uno stato di civiltà, la cui durata sarà stata limitata a qualche secolo. Allora, però, la famosa crisi dell’identità, di cui si parla ripetutamente, acquisterebbe un significato del tutto diverso. Essa apparirebbe come un indizio commovente e puerile del fatto che le nostre piccole persone si avvicinano al punto in cui ciascuna deve rinunciare a considerarsi come essenziale, per vedersi ridotta a funzione instabile e non a realtà sostanziale, luogo e momento, egualmente effimeri, di concorsi, scambi e conflitti cui partecipano, da sole e in una misura ogni volta infinitesimale, le forze della natura e della storia, supremamente indifferenti al nostro autismo»10. Questa rivoluzione teorica e metodologica è tipica della tradizione «civile» che da sempre caratterizza l’antropologia francese e continua a produrre contributi significativi sul tema11 in aperta polemica con la tradizione culturologica e multiculturalista. In definitiva se ci interroghiamo sulla nostra identità individuale e/o collettiva, scopriamo che essa è una costruzione relazionale storicamente contingente e antropologicamente arbitraria: non esiste identità senza relazioni, e non esistono relazioni senza relazioni tra relazioni. Persino il concetto di persona, evocato da Lévi-Strauss, non è altro che un insieme strutturato di status e di ruoli derivanti dai rapporti sociali 10 C. Lévi- Strass (a cura di), L’identità, Sellerio, Palermo 1980, p. 13. 11 Si veda ad esempio J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino1999; A. Maalouf, L’identità, Bompiani, Milano 2005; F. Remoti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.
e simbolici, che cerchiamo faticosamente di scegliere a partire dalla convivenza civile e dalle regole di uguaglianza, come presupposti delle relazioni di fatto e delle regole di diritto che caratterizzano la nostra vita e il nostro mondo della vita. Vorrei far notare che in una «comunità» culturale, non esiste la persona, ma l’individuo inteso come parte indivisibile dello stesso spirito; conseguentemente la società o mette in pratica gli unici valori possibili e pensabili o diventa una finzione contrattuale, ovviamente prodotta e strutturata da interessi materialistici, e perciò banale, priva di autenticità e di forza spirituale. In una società orientata civilmente invece la personalità è una costruzione soggettiva e libera che riconosce la generalizzazione ugualitaria della società civile e antepone il contratto sociale ad ogni scelta pratica del possibile e ad ogni determinazione simbolica del pensabile, a partire dalla grande tradizione del pensiero filosofico e politico di Rousseau e della ragione civile dell’Illuminismo e della rivoluzione democratica moderna. L’aspetto più interessante di questi due modelli antropologici, che -lo ripeto per evitare equivoci- sono solo metodologici e critico-comparativi, è il diverso approccio all’alterità in generale e alla molteplicità dei sistemi socio-culturali del mondo contemporaneo. Il multiculturalismo parte dalla differenza storica delle culture, servendosi anche di riferimenti etnico-naturalistici, per pensare la loro uguaglianza in termini di moralismo astratto: in definitiva ogni sistema di valori risolve a suo modo e con le proprie possibilità-capacità i grandi problemi della natura umana, ed è quindi immorale e/o eticamente inopportuno rivendicare ogni sorta di superiorità di diritto, affidando al libero mercato delle costruzioni simboliche ogni sfida di senso, essendo ovviamente certi della vittoria del migliore dei mondi possibili. Peccato che, di fatto, le cose non stanno in questo modo sia a livello teorico-simbolico sia a livello pratico-politico: questo neouniversalismo naturalistico postmoderno è tanto teoricamente etnocentrico quanto politicamente interessato, soprattutto nella sua deriva comparativamente relativistica. Le culture non sono moralmente uguali: esse, più che risolvere gli stessi problemi degli uomini, problematizzano diversamente i grandi determinismi della natura e cercano quindi praticamente e simbolicamente di affrontare problematiche specifiche. L’esempio più evidente è il determinismo della morte individuale: essa è naturalmente uguale per tutti gli uomini, ma è un problema culturale diverso e come tale è affrontato. Le religioni che annunciano una salvezza eterna sono più un’eccezione che una regola nel complesso generale dei sistemi di valori: basta pensare alle civiltà classiche dell’Occidente per rendersene conto. I Greci si interrogavano più su ciò che c’era prima del presente storico che sulla fine e sul fine della storia individuale e collettiva: i loro miti si limitano a raccontare le origini strutturali degli uomini mortali, senza annunciare un aldilà della vita e della storia. E sappiamo quanto la civiltà cristiana ha dovuto lottare contro questo paganesimo dell’immaginario e del senso della vita. Un altro esempio è l’attuale dibattito sulla necessità dei diritti umani: se essi fossero fondati sulla natura, le culture non dovrebbero avere problemi a riconoscerne la validità e il valore universale! Sappiamo bene che così non è storicamente e dobbiamo interrogarci sulle ragioni antropologiche: la natura umana in verità non ha nulla di uguale, ma, come la moderna genetica tende a dimostrare, è il luogo selvaggio delle differenze e delle gerarchie, dei rapporti tra forze e delle connessioni casuali, persino delle discriminazioni e delle condanne senza colpa. Le culture possono o ipostatizzare a livello simbolico queste differenze, fondando gerarchie e subalternità sociali sul dato immodificabile della natura - basti pensare alla diversità sessuale trasformata in gerarchia di genere, o alle differenze etniche trasformate in ideologia distruttrice e/o in movimento razzista- o porre il
problema dell’uguaglianza civile contro i determinismi della natura e contro le manipolazioni strumentali messe in azione dai sistemi sociali. Non a caso noi parliamo di diritti umani come costruzione civile e politica: essi nascono come diritti dei cittadini e possono essere applicati a tutti gli uomini come cittadini del mondo; sono «umani» grazie ad un processo storico e sociale di generalizzazione e di inclusione civile, e non in quanto fondati su una comune appartenenza naturale. Tutto questo ha conseguenze impensabili a livello pratico: il libero mercato dei valori culturali, più che fondarsi su un’uguaglianza morale naturalmente fondata, è espressione di una logica interamente storico-culturale che applica ai valori simbolici le stesse regole del mercantilismo individualistico e conflittuale, senza tener conto delle diverse forze coinvolte e senza mettere in azione regole condivise di relazioni e di scambi. Si tratta di un vero e proprio mercato selvaggio: ci si augura la vittoria del migliore, ma già si conosce il vincitore! Era la logica del «melting pot» e ne conosciamo i risultati culturali e politici. Ora la strategia è più sofisticata, grazie alla tolleranza dei vincitori: siamo arrivati alle politiche del riconoscimento, alla pratica della mistificazione politica con buone dosi di buonismo «politically correct»: occorre riconoscere con tolleranza anche le ragioni degli altri! Il risultato è comunque garantito: fino a quando si può, occorre tollerare; quando diventa impossibile a livello di valori non negoziabili ed impraticabile a livello politico, il conflitto diventa inevitabile! La tolleranza dei moderni nasceva dall’esigenza politica di evitare i conflitti religiosi cercando un compromesso di compatibilità capace di garantire il libero esercizio dei valori religiosi a livello privato, a partire dalla priorità strutturale dell’uguaglianza civile e pubblica; quella postmoderna ne rovescia presupposti e procedure: la priorità è il sistema comunitario dei valori che si rapporta agli altri con la tolleranza possibile, cioè a patto di non rinunciare ai propri principi fondamentali, fino all’inevitabile conflitto che non può non essere uno «scontro delle civiltà». Di più: occorre stare attenti alle possibilità dell’esito conflittuale e mettere in moto sistemi di conoscenza antropologica capaci di individuare preventivamente pericoli e rotture, in modo da favorire processi di decisione più rapidi: il multiculturalismo antropologico diventa così funzionale non solo al sistema americano della religione civile, ma anche alla geopolitica della guerra preventiva. E noi lo importiamo acriticamente, parlando della necessità delle radici, della forza necessaria dell’identità, della salvezza dell’Occidente e persino di un ritorno alla religione come ancoraggio necessario in un sistema politicamente debole e quindi incapace di affrontare le sfide della globalizzazione. Invece di cercare modelli alternativi, ci limitiamo a tradurre acriticamente in termini europei la visione americana di Huntington. E’ una sorta di rassegnazione storica e antropologica: perché arrendersi alla pratica di una tolleranza differenzialista, relativistica e culturologica dimenticando le conquiste di diritto e, di fatto, di quella inclusiva, generalizzante e civile della modernità europea? Come confondere una tolleranza che parte dalla giustizia e dall’uguaglianza con quella che si pone e si impone come rimedio caritatevole e volontaristico della inevitabile differenza, pensata e vissuta come originaria disuguaglianza? Come insegnavano i filosofi antichi, la tolleranza è la quarta virtù cardinale se e solo se diventa equilibrio tra le altre tre (sapienza, giustizia e fortezza), mentre in sé e per sé non ha senso. Si può tollerare l’ingiustizia, l’esercizio arbitrario della forza, l’arroganza del sapere acritico? Oppure, per tornare al dialogo tra le religioni, come tollerare chi pretende di parlare e di agire, anche politicamente, in nome di Dio? Si può democraticamente discutere una morale divina che si impone come orizzonte della politica e del diritto? Come possono essere tolleranti e democratici i teoconservatori?
Non si tratta forse di un fondamentalismo culturale inverso e simmetrico, strategicamente usato a livello politico per opporsi a quello dell’Islam? Se è così, diventa inutile teorizzare lo «scontro delle civiltà», perché è già in azione, e con una violenza senza precedenti. Esiste un modello alternativo? Sono rimasto particolarmente colpito dai modelli plurilinguistici qui esposti, che richiamano le relazioni, le connessioni, le interferenze, le pratiche relazionali in una sorta di ortopratica meticcia come processo di costruzione di compatibilità. A mio avviso questi modelli seguono le strategie dell’antropologia che si richiama all’orizzonte della civiltà ed alla pratica dell’inclusione sociale delle differenze e della loro compatibilità simbolica. Non c’è lingua mista senza compatibilità, non c’è civiltà senza vero meticciato culturale: altro che tolleranza! Occorre ripartire dall’uguaglianza di diritto per mettere in moto tutte le strategie capaci di realizzarla, di fatto: è un dato costitutivo e costituzionale della civiltà. Forse occorre cominciare a fare a meno persino del concetto di cultura per ripensare la nostra identità relazionale, la nostra lingua di comunicazione, i nostri codici di comportamento individuali e collettivi, il nostro immaginario sociale che deve continuare a lottare contro i grandi determinismi della natura. Storicamente le grandi civiltà hanno costruito se stesse mettendo in azione un continuo meticciato: è da sempre anche la struttura di continuità storica dell’Occidente, in qualche modo la sua identità paradossale, al di là di ogni trionfalismo evoluzionistico e di ogni orgoglio etnocentrico. Occorre rimettere in moto subito questa immaginazione sincretica ed impura, ma efficace e creativa sia livello di valori generalizzabili sia a livello pratico-politico di regole contrattualmente condivise. Senza dimenticare le nostre piccole e significative appartenenze relazionali, occorre ripartire da esse vivendole non come destino autoreferenziale e difensivo, ma rimettendone in gioco la ricchezza nelle e con le relazioni con altri sistemi di identità e di senso della vita. Più che continuare a discutere sui pregi e i difetti della tolleranza, abbiamo il dovere di scegliere prima tra identità culturalmente forte e relazioni civilmente garantite, tra esclusione ed inclusione sociale, tra incompatibilità e compatibilità simbolica delle differenze. Questa scelta presuppone anche la coscienza della fine di ogni universalismo della modernità e quindi l’inevitabile tramonto di ogni prospettiva neocoloniale: il futuro sembra appartenere alle civiltà capaci di elaborare sintesi generalizzabili e inclusive, grazie al lavoro di confronto continuo e di comunicazione pubblica e democratica. Dopo tutto i vecchi valori universali rinviavano ad un passato fondamentale e fondante, ad un presente nostalgico ed ad un futuro senza trascendimento, quelli generalizzabili sono certamente privi di quella essenzialità immutabile, che ci ha risparmiato paure ed insicurezze esistenziali, ma rimettono in moto continuamente la nostra storia individuale e collettiva verso un futuro umanamente possibile. Più che delinearsi come segni della «fine della storia», essi ci permettono di rimettere in moto l’immaginazione culturale con un èthos del trascendimento che non può fare a meno del fascino della trasformazione sociale, e soprattutto di quella seduzione simbolica cui non possiamo resistere proprio perché implicita nell’utopia del pensiero.