Laura Vanelli

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Il «ladino»: dal nome alla lingua
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Laura Vanelli


Il «ladino»: dal nome alla lingua


0. Questa lezione ha come argomento una ricognizione generale sulla nozione linguistica di «ladino». La trattazione muove però da una prospettiva particolare. Nel cercare di definire che cosa si debba intendere per ladino nel panorama delle lingue romanze, partiremo dalla storia della parola stessa, e seguiremo l’alternarsi e l’evolversi dei suoi significati attraverso il tempo e lo spazio. Questa relazione è fortemente debitrice nei confronti dei lavori fondamentali di Kramer 1998a, 1998b e 2000, che costituiscono le fonti principali sulla storia del termine «ladino» e delle sue accezioni (e la maggior parte delle citazioni testuali provengono da questi lavori).

1. Etimologia di «ladino».

Il termine ladino deriva naturalmente dal lat. latinus ‘latino’, che era il nome con cui i Romani designavano la loro lingua.

La forma stessa ladino ci fornisce informazioni interessanti sull’area dove si è costituita questa particolare forma derivata: va infatti notato che al termine originario latino si è applicato un processo di sonorizzazione di –t- intervocalico in –d-. Questo fatto ci dice che il termine si è sviluppato in un ambito romanzo dove si applicano sistematicamente quei processi di indebolimento consonantico che vanno sotto il nome di lenizione: si tratta di processi tipici del gruppo romanzo occidentale, compreso il gallo-romanzo e l’area dove si parlano le varietà italiane settentrionali. 1.1. Significati di «latino» nel dominio italo-romanzo Prima di prendere in esame le vicende del ladino come termine designante una particolare lingua romanza, tema specifico di questa lezione, vale la pena di ripercorrere brevemente la storia del termine «latino», limitandola al dominio linguistico che ci interessa, quello italiano.

In primo luogo, ricordiamo che il termine continua a mantenere il suo significato originario di lingua parlata dagli antichi romani. In questo senso:

A. «latino» vs. «romanzo».

Il latino si oppone dunque al nome delle lingue derivate dal latino, le lingue «romanze» (e anche romanzo viene dal lat. romanice, connesso dunque con romanus).

Ma, se ci rivolgiamo ad antiche attestazioni del termine, risalenti ai secc. XIII-XIV, possiamo notare che «latino» aveva assunto anche altri significati, alcuni dei quali erano delle innovazioni rispetto al significato originario. Le passiamo rapidamente in rassegna:

B. «latino» = «italiano».

Non mancano attestazioni antiche in cui il termine «latino» è usato come sinonimo di «italiano». In genere però la sinonimia non viene estesa anche alla lingua, nel qual Laura Vanelli

Il «ladino»: dal nome alla lingua caso «latino» si oppone piuttosto a «volgare» (cioè parlato dal popolo «lat. vulgus»1

. Si vedano gli ess. seguenti, in cui latin(i) = italiani si riferisce al popolo: (1) Guido da Pisa (prima metà XIV sec.): «Dopo Fauno, che fu lo quarto re d’Italia, regnò un suo figliuolo, ch’ebbe nome Latino, dal quale noi italiani siamo chiamati latini». (2) Dante, Divina Commedia, Purg. 29, 92: «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti / qui ambedue», rispose l’un piangendo». Nel prossimo esempio dantesco, latina (= italiana) si riferisce alla «terra»: (3) Dante, Inf. 27, 26: «la dolce terra latina». E all’idea di «latino» come qualcosa di familiare, rispetto a ciò che è estraneo, non noto, ostico, sta anche l’uso popolare del termine in vari dialetti italiani (ma anche in it. ant., cioè in fiorentino) con il significato di: C. «latino» = ‘chiaro, intelligibile; facile, agevole, semplice’: (4) Dante, Rime, 51a, 1-2: «Degno fa voi trovare ogni tesoro / la vostra voce sì dolce e latina». (5) Dante, Par. 3, 63: «Ma or m’aiuta ciò che tu mi dici, / sì che raffigurar m’è più latino». (6) «Ladin: venez. ‘agile, pronto; sciolto; scorrevole’; valsug. (lain) ‘senza impacci, nel camminare’; bellun. ‘scorrevole, facile’, ecc.» (Prati, Etimologie venete, 1968, s.v.).

1.2. «Ladino» come designazione di particolari varietà romanze. Abbiamo visto che «latino» come nome di lingua in genere non designa una lingua derivata dal latino: la distinzione tra la lingua «madre» e la lingua derivata rimane fissata anche nella diversa denominazione (latino vs. romanzo; latino vs. volgare, latino vs. italiano, francese, ecc.). Ma questa condizione non è sempre rispettata: in realtà «latino» si trova anche come denominazione di una lingua romanza, ma solo in condizioni particolari. Quando questo avviene, il termine «latino» è usato proprio in opposizione a «non-latino»: per questo lo troviamo in territori dove la lingua romanza in questione è (o era) parlata accanto a lingue non romanze. Allora:

D. «latino» (ladino) = «romanzo» vs. «non romanzo».

Così si spiega il nome popolare di «ladino» che designa le tre varietà romanze seguenti:

a. il giudeo-spagnolo, la lingua usata dagli ebrei sefarditi, che, cacciati dalla Spagna

dalla regina Isabella nel 1492, si stabiliscono nei paesi balcanici (ad es. era la lingua della famiglia dello scrittore Elias Canetti in Bulgaria);

b. la varietà romanza parlata in Engadina, nel cantone dei Grigioni (Svizzera);
c. la varietà romanza parlata nella parte centrale della Val Badia, in Alto Adige.

1 Solo in Boccaccio si trova l’uso di latino attribuito alla lingua (favella latina, parlare latino), col senso di «volgare» (cfr. Kramer 1998b, p. 166). Si veda anche l’antico lombardo laìn ‘italiano’, nel senso di ‘volgare’ (DEI, p. 2149; cfr. Kramer1998b, p. 168). E si noti anche la cooccorrenza di latino e volgare nei seguenti passi: a) «Trovata una antichissima istoria e alle più delle genti non manifesta…in latino volgare e per rima,… desiderando di piacervi, ho ridotta» (Boccaccio, Filostrato, II, 246); b) «e perché così il laico come il letterato di ciò possa prendere frutto in volgare latino scriveremo» (Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina (1385), Preambolo, rr. 18-19);

Si tratta dei nomi con cui i parlanti designano la propria lingua (romanza) in contrapposizione alle lingue «altre», slavo o tedesco nello specifico, parlate nei territori circostanti.

In questo senso si tratta di denominazioni autoctone, come dimostra anche la forma particolare che assume la parola, «ladino» e non «latino»: si tratta di aree dove è stato attivo il processo di lenizione che ha regolarmente sonorizzato la –t- intervocalica in –d-. (Anzi in queste varietà si riproduce, a partire dalla stessa base latinu(m) una opposizione tra la forma popolare «ladino» che indica la lingua del luogo, e la forma dotta, e dunque senza lenizione, «latino», che indica il ‘latino’). Nella parte che segue, mi limito a riassumere le argomentazioni di Kramer 1998b e 2000 a dimostrazione del fatto che il termine «ladino» è stato originariamente usato per indicare esclusivamente le due varietà alpine sopra citate (tralasciamo il giudeospagnolo, che non ha qui pertinenza).

Sulla denominazione di «ladino» riservata all’engadinese e sui rapporti tra ladino e romancio nell’area grigionese, rimando direttamente alle pagine di Kramer (1998b, pp. 168-170, e 2000, p. 50), mentre dedico qualche ulteriore osservazione al ladino inteso come varietà romanza parlata in una parte della Val Badia. L’origine indigena e popolare di questa denominazione è documentata dalla testimonianza diretta di Th. Gartner che, nel 1883, scriveva: «Dalla bocca degli illetterati ho udito il termine ladin come nome di lingua solamente in una zona ristretta, popolata da circa 1900 abitanti, e precisamente a LaValle, a Longiarù, a San Martino» (p. XX). In realtà, a fronte di questa affermazione di Gartner che registra il nome di ladino limitato a un’area molto ristretta, si devono segnalare altre testimonianze che mettono apparentemente in dubbio che il nome di ladino (anzi «lingua ladina») sia originariamente limitato a quest’area ristretta della zona dolomitica: per es. Nikolaus Bacher (Micurà de Rü), originario di San Cassiano, prete, professore di religione e di storia naturale all’Imperial Regia Scuola Militare di Milano, nel suo Versuch einer DeutschLadinischen Sprachlehre (Schizzo di una grammatica tedesco-ladina) (1833, pubblicato nel 1995 da L. Craffonara in «Ladinia»), applica il nome di ladino a tutti i dialetti parlati intorno al Sella: «il dialetto delle valli di Marebbe, Badia, Gardena e quello ultramontano,… predominanti con minime differenze nel territorio di Fassa, Livinallongo e Ampezzo, sono i dialetti primari della lingua ladina» (p. 296). Come spiegare questa apparente contraddizione da parte di due testimoni diretti? Si potrebbe per es. pensare che il nome di «ladino» si riferisse effettivamente, almeno fino al 1833, a una serie di varietà parlate intorno al massiccio del Sella e che successivamente l’attribuzione del nome «ladino» abbia subito un restringimento progressivo.

Ma vedremo nel prosieguo della discussione, che questa ipotesi non è sostenibile (per una discussione più approfondita cfr. Kramer, 1998b, pp. 170-171). In realtà, la spiegazione è diversa: non si tratta di un restringimento dell’attribuzione di «ladino», ma al contrario di una sua estensione: in effetti «ladino» viene ad assumere nel corso del XIX secolo anche un altro significato, più ampio, che è diventato familiare.

2. Il «ladino» come insieme di varietà romanze peculiari. Il termine «ladino» è oggi comunemente usato nell’accezione per cui si riferisce a un insieme di varietà accomunate da caratteristiche linguistiche peculiari nel dominio romanzo. Si tratta di un gruppo tradizionalmente suddiviso in tre rami: ladino occidentale (o grigionese), ladino centrale (o dolomitico o atesino), a cui viene aggregata una sezione orientale, costituita dal friulano. Si tratta dunque di indagare l’origine di questa denominazione più ampia, denominazione che, sulla base di quanto detto in precedenza, è popolare e autoctona solo per due varietà che fanno parte del gruppo. Come, quando e perché questo nome si è esteso al di là di quella che doveva essere l’area dove la denominazione era autoctona? In realtà, affrontare questa questione è un po’ la stessa cosa che affrontare quella che viene chiamata la «questione ladina», e che riguarda in generale l’esistenza di alcune varietà romanze, parlate in area alpina e nell’area più orientale della zona italo-romanza, che avrebbero in comune delle caratteristiche linguistiche particolari. Perché questo raggruppamento di lingue è problematico? Ne tratteremo nel prossimo paragrafo.

2.1. La questione ladina.

I problemi che dobbiamo affrontare sono in particolare due:

I problema: le tre aree in questione presentano (presenterebbero) tratti in comune, ma non sono contigue, e non solo: anche all’interno delle sezioni, in particolare di quella occidentale e di quella centrale manca una vera e propria contiguità / continuità territoriale delle parlate ladine. Questo è un problema serio, in quanto non sembrano esserci in ambito romanzo altre situazioni paragonabili: in generale quando si parla di un gruppo dialettale unitario, lo si mette in relazione con un territorio omogeneo, nel senso che a un «tipo» linguistico o dialettale corrisponde una unità territoriale continua (ovviamente diversa è la questione della definizione dei confini dialettali, cioè di stabilire dove finisca un tipo dialettale e ne cominci un altro, ma questo è un altro problema).

II problema: si tratta di varietà che si caratterizzano per la loro diversità rispetto a quelli che sono i più noti e diffusi dialetti italiani settentrionali, e in particolare hanno una fisionomia conservatrice o arcaizzante. Ebbene, sono proprio questi due fatti problematici che costituiscono la cosiddetta «questione ladina». Ricostruiamo innanzi tutto storicamente l’origine della questione. Questa si affaccia per la prima volta con le osservazioni di alcuni eruditi, che tra la II metà del sec. XVIII e gli inizi del sec. XIX mettono in luce delle relazioni speciali che intercorrono tra le varietà in questione. Passo rapidamente in rassegna alcuni di questi studiosi «prescientifici», che intrecciano osservazioni giuste e qualche volta acute con interpretazioni il più delle volte arbitrarie e pseudostoriche. a) Simone Pietro Bartolomei, De orientalium Tyrolensium precipue Alpinorum originibus libellus, 1760 (cfr. Kramer 1978 per l’edizione e il commento dell’opera). E’ il primo a notare un’affinità tra gardenese e badiotto da una parte e grigionese (e valtellinese) dall’altra (oltre a mettere in evidenza la frammentazione dei dialetti). Scrive: «Gli abitanti delle valli in questione [Gardena e Badia] e con loro i Fiammazzi, Fassani ed Ampezzani hanno un accento e una pronunzia molto diversa dal resto dei Tirolesi; ma, come ho osservato accuratamente, è simile a quella del dialetto dei Reti occidentali e dei Valtellinesi.

Gli abitanti della Val Badia, della Val Gardena, di La Valle, di Marebbe, della valle di S. Martino e di Livinallongo si servono di una lingua mista di elementi latini, italiani, francesi, provenzali, tedeschi e sconosciuti. Non hanno però un dialetto unitario, ma ognuno si differenzia leggermente da ogni altro» (pp. 143-144). Quanto all’origine di queste varietà peculiari, viene messa per la prima volta in relazione con una presunta origine comune, che viene individuata nell’etnia retica (vista qui come un ramo degli Etruschi):

«…penso che questa gente sia un resto degli Etruschi, cioè dei Reti, i quali scelsero questa regione lontana da ogni contatto con gli uomini per paura dei Galli che li avevano espulsi dall’Italia» (p. 155).

b) Joseph von Planta, Account of the Romansh Languages, 1776 (Reprint 1972).

Questo studioso svizzero, bibliotecario del British Museum di Londra, accosta il grigionese alla lingua parlata al tempo di Carlo Magno, e lo considera perciò una sorta di lingua «madre delle lingue neolatine». A dimostrazione di questo, presenta i Giuramenti di Strasburgo (842) in cinque lingue diverse: nell’originale francese, in latino, nel francese del XII secolo e in due dialetti romanci che chiama così: 1) ladino (che troviamo menzionato per la prima volta per indicare l’engadinese); 2) Romansh of both dialects (= sursilvano). (Cfr. Francescato 1970, p. 263).

c) Gianrinaldo Carli (1790) (citato in Pellis 1911, pp. 6-7). Professore di astronomia

e nautica a Padova, nonché famoso economista, mette in relazione il grigionese e il friulano, interpretandoli come lingue a base provenzale, e, come il provenzale, lingue rimaste inalterate nel corso del tempo. Anche qui dunque (e Carli conosceva in effetti l’opera di von Planta) si adombra l’idea di una sorta di «romanzo comune originario» (identificato con il provenzale: e si veda Francescato 1970, p. 264, che ipotizza che le tesi simili di Raynouard dipendano proprio da Carli), che si sarebbe conservato in queste parlate romanze arcaiche.

d) Placi à Spescia, Die Rhaeto-Hetruskische Sprache, 1805. Prete benedettino di

Disentis, così scrive: «Il grigionese di lingua romancia riesce a comprendere un gardenese come il lontano tirolese comprende un salisburghese della montagna». E afferma che «il Sursilvano sarebbe il dialetto romanzo più puro e più genuino, il relitto più autentico della lingua Etrusca» (cfr. Pellegrini 1991, p. 5).

e) Joseph Freherr von Hormayr, Geschichte der gefürsteten Grafschaft Tirol, 1806.

Accosta gardenese e grigionese, mettendo in evidenza l’arcaicità di quest’ultimo (che risalirebbe a Carlo Magno, per cui cfr. von Planta). Cita anche Bartolomei e la sua tesi «etrusca». Troviamo anche in quest’opera il termine «ladino» per designare l’engadinese: «La lingua retica si divide, sulla base dei suoi dialetti principali, in romancio e ladino. L’uno viene parlato nella zona delle sorgenti del Reno, e l’altro alle sorgenti dell’Inn. Il romancio si ripartisce principalmente nel dialetto delle piane e nel sursilvano, il ladino nei dialetti dell’Engadina superiore e inferiore» (cit. da Kramer 1998b, p. 172).

f) Carl Ludwig Fernow, Römische Studien, 1808 (dedicato soprattutto all’arte italiana);

Nel capitolo Über die Mundarten der italienischen Sprache mette in relazione l’engadinese e il sursilvano con il friulano. Considera il sursilvano come il dialetto più puro e originario e lo definisce «Rhaetische oder Romanische Sprache». E del friulano dice che «non è un dialetto italiano, ma, come il Retico, un rudere venerando della grande unione delle lingue figlie del latino, benché non sia più così pura». Di nuovo compare l’idea di una sorta di protoromanzo, un romanzo comune primitivo continuato solo da queste varietà. Tutte queste posizioni «prescientifiche» sono riassunte in quella summa enciclopedica delle conoscenze linguistiche del tempo che è:

g) J. C. Adelung, Mithridates, II parte, 1809. Il cap. IX è dedicato ai dialetti italiani,

tra cui viene annoverato anche il friulano, che viene così descritto (i corsivi sono miei): «A quello che era una volta il territorio di Venezia apparteneva anche il Friuli […] il cui dialetto è invero un italiano corrotto, mescolato con molte parole francesi ed alcune slave, a meno che non appartenga al ramo del romanzo dei Grigioni, ma con 19 Sezion 1 • Articole Scientifiche la differenza che su questo [il friulano] l’influsso dell’italiano è stato più forte che in quello» (p. 512). E più avanti introduce anche le varietà ladino-dolomitiche: «Pure al nord dell’antico territorio di Venenzia, ma questa volta nel vescovado di Bressanone si trovano le valli di Fassa, Livinalongo, Marebbe e Badia, dove gli abitanti del tutto separati per la natura selvaggia dalle lingua vicine e sparpagliati anche tra di loro in singoli casolari parlano un italiano corrotto diverso solo nella pronuncia» (p. 513).

Un capitolo specifico è intitolato Romanzo o retico (p. 598), dove vengono inserite le varietà dei Grigioni: «I Grigioni, una parte della Rezia propria o prima dei romani, al pendio sud delle Alpi […] con i romani vi si era diffusa la romana rustica [lingua] come negli altri territori nei quali troviamo le altre figlie del latino e vi si è conservata quasi immutata anche sotto l’influenza dei vicini tedeschi dominatori e coloni […]. Questa lingua romanza o retica o Kurwelsch si divide in due dialetti principali e questi in molti sottodialetti. I due dialetti principali sono il Rumonsch dalle parti delle fonti del Reno e il Ladin dalle parti delle fonti dell’Inn. [citazione ripresa da Hormayr] […] Manoscritti, documenti di tributi e di tribunali più antichi di Carlo Magno li può leggere ogni bambino nei comuni dei Grigioni. Questo antiquissm lungaig da l’aulta Rhaetia, l’antichissima lingua dell’Alta Rezia è dunque un rudere venerando della grande unione romanza di tutte le lingue figlie del latino del primo Medio Evo [citazione ripresa da Fernow]. In lei vediamo una romana rustica fatta rozza ancora all’incirca al punto al quale si trovava il latino prima che si separassero le lingue romanze».

A causa della sua posizione isolata questa lingua «è rimasta arretrata a quel grado di inciviltà rappresentato in forma più blanda anche dai patois delle montagne del Piemonte, dell’Auvergne, dei piedi dei Pirenei e delle Alpi friulane che stanno pure quasi allo stesso livello, ma che però hanno conosciuto più influssi esterni del governo e dei contatti dei vicini».

E oltre al friulano, Adelung prospetta che «forse appartiene ai relitti dell’antica lingua romanza anche la lingua della Val Gardena che non mostra nessuna visibile somiglianza né con il tedesco dei vicini sovracitati boscaioli né con l’italiano odierno». 2.2. L’introduzione della nozione e della denominazione di «ladino». Abbiamo visto che le prime menzioni del termine «ladino» come nome di una lingua sono di von Planta e Hormayr, che però lo attribuiscono esclusivamente a uno dei sottogruppi della cosiddetta lingua retica, quello corrispondente alle varietà romanze parlate alle sorgenti dell’Inn, e cioè l’engadinese superiore e inferiore. L’altro sottogruppo, quello parlato alle sorgenti del Reno, viene chiamato romancio. I due termini, come si vede, fanno riferimento entrambi al caratterere «romanzo» di questi dialetti e sono usati in opposizione alla confinante e dominante parlata tedesca.

Il nome di «ladino» entra dunque in circolazione nell’ambiente intellettuale dell’epoca (abbiamo visto che è accolto anche da Adelung), ma nel suo senso di nome autoctono dell’engadinese. Come avviene l’estensione del suo significato? E per opera di chi? Fu Joseph Theodor Haller a impiegare per primo la denominazione di «ladino» sia per le varietà romanze dei Grigioni che per quelle dell’area dolomitica, nel suo Versuch einer Parallele der ladinischen Mundarten in Enneberg und Gröden in Tirol, dann im Engadin und in den romaunschischen in Graubünden, del 1832 [Schizzo di un confronto fra i dialetti ladini in Val Badia e Gardena in Tirolo, nell’Engadina e nelle parlate romance de Grigioni]. L’affinità linguistica riconosciuta tra i due gruppi autorizza dunque l’utilizzo di un’unica denominazione: e viene scelto ed esteso il nome di «ladino», che originariamente designava due singole varietà2.

Una volta che al gruppo venga aggregato anche il friulano, ecco che nasce il «gruppo ladino». Si veda infatti Christian Schneller, Die romanischen Volksmundarten in Südtirol, 1870, che oppone a die italienischen Mundarten il gruppo definito die ladinische Mundart e cioè «einen eigenen friaulisch- ladinisch-churwälschen Kreis als selbständiges, wenn auch nie einer Schriftsprache vor uns». ‘un proprio circolo / gruppo friaulisch- ladinisch-churwälschen a sé stante, anche se privo di lingua scritta» (p. 9) (e qui compare anche un’altra accezione di «ladino», quello per cui il termine si applica alla sola sezione centrale, uso che si affermerà più tardi). Ma l’ «ufficializzazione», per così dire, di questa denominazione per designare l’insieme dei tre gruppi e sottolinearne la peculiarità in ambito romanzo, si deve al maggiore degli studiosi delle varietà ladine: fu Graziadio Isaia Ascoli a intitolare Saggi ladini il primo numero dell’«Archivio Glottologico Italiano» (1873). Ed è lui stesso che offre una giustificazione di questa scelta: «L’aversi popolare e fermo tra i dotti l’appellativo di ladino per qualche parte della sezione centrale, come è per una parte dell’occidentale, e l’essersi ormai divulgato da un pezzo, fra gli studiosi, l’appellativo medesimo anche per la sezione friulana, furono gli argomenti decisivi pei quali mi sono rassegnato ad adottarlo per tutta la zona» (p. 334). Dunque l’accezione estesa di «ladino» è una innovazione introdotta nella letteratura dai linguisti dell’800.

2.3. Ladino o reto-romanzo? La questione della presunta «unità ladina».

A contendere l’affermazione di questa denominazione ce n’è un’altra, anche questa già presente, anche se non esplicitamente motivata, nei primi studi che si occupano di queste varietà (si ricordi la denominazione di retico usata da Fernow, Hormayr e Adelung come sinonimo di «romanzo arcaico comune»): il nuovo nome è reto-romanzo, e la sua introduzione nella letteratura linguistica si deve a un altro grande linguista contemporaneo di Ascoli: Theodor Gartner (1883, 1910). Perché questo nome? E’ ora necessario che abbandoniamo per un momento le questioni «nominalistiche» e ci occupiamo finalmente delle questioni sostanziali: torniamo cioè ai due problemi che ci eravamo posti all’inizio di 2.1., e che, ricordiamo, riguardavano 1) la discontinuità territoriale dei tre sottogruppi «ladini», che sembra in contraddizione con l’affinità linguistica più volte affermata, e 2) il carattere linguisticamente arcaico di queste varietà.

Riaffrontiamo ora le stesse questioni in modo critico, partendo però da due domande preliminari, a cui tenteremo di dare delle risposte:

I domanda: innanzi tutto, è vero che i tre sottogruppi presentano dei tratti in comune tra di loro e che questi tratti li differenziano dalle altre varietà settentrionali contigue? I risposta: se l’analisi è svolta in sincronia, i tre gruppi presentano effettivamente dei tratti in comune, non condivisi dagli altri dialetti settentrionali: si tratta in genere di tratti di conservazione e sono sostanzialmente quelli che sono stati individuati e descritti da Ascoli e Gartner nei loro studi. Mi soffermo in particolare su Ascoli perché penso che sia interessante capire come egli proceda nella identificazione delle varietà ladine: Ascoli (1876) manifesta in modo chiaro che il suo approccio alla questione è sostanzialmente di carattere tipologico. E l’individuazione di un «tipo» dialettale avviene sulla base della condivisione di una serie di tratti linguistici. Ecco le parole di Ascoli: 2 Il riferimento a Nikolaus Bacher (1833) alla «lingua ladina», comprendente tutte le varietà dolomitiche, si deve probabilmente all’influenza dell’opera di Haller.

«Un tipo qualunque - e sia il tipo di un dialetto, di una lingua, di un complesso di dialetti o di lingue, di piante, di animali, e via dicendo - un tipo qualunque si ottiene mercè un determinato complesso di caratteri, che viene a distinguerlo dagli altri tipi (...). I singoli caratteri di un dato tipo si ritrovano naturalmente o tutti o per la maggior parte ripartiti in varia misura tra i tipi congeneri; ma il distintivo necessario del determinato tipo sta appunto nella simultanea presenza o nella particolar combinazione di quei caratteri [corsivo mio]» (p. 387).

Che cosa intenda Ascoli quando parla di «caratteri ladini», è ricavabile dal tipo di fenomeni linguistici che vengono trattati nei suoi Saggi ladini per descrivere le varietà ladine. E lo stesso Ascoli li sintetizza esplicitamente nella sua illustrazione dell’Italia dialettale (1883), dove così presenta i dialetti ladini (facenti parte, con i dialetti franco-provenzali, dei Dialetti che dipendono, in maggiore o minor parte, da sistemi neo-latini non peculiari all’Italia): «Il complesso dei principali caratteri per cui si determina il tipo ladino, è il seguente: 1) la gutturale delle formole C+A e G+A passa in palatina; 2) il L delle formole PL CL ecc. si conserva; 3) il S di antica uscita si conserva; 4) l’E [breve] accentato in posizione si rompe in dittongo; 5) l’O [breve] accentato in posizione si rompe in dittongo; 6) la forma del dittongo che proviene dall’O accentato breve e dall’O di posizione, si determina in ue (onde üe, ö); 7) l’E lungo in accento e l’I breve in accento, si rompono in un dittongo, la cui più schietta forma suona ei; 8) l’A accentato propende, entro determinati confini, a volgere in E, massime se preceduto da suono palatino; 9) l’U lungo accentato si continua per ü» (p. 102). In questa sede non prenderò ulteriormente in esame questi caratteri per discuterne la validità: a una disanima più scrupolosa e più aggiornata si potrebbe mostrare che alcuni di questi tratti non sono distintivi di tutto il gruppo (penso in particolare agli ultimi due, che sono in generale assenti nel friulano); altri potrebbero oggi essere ridefiniti meglio (piuttosto che citare gli esiti delle singole vocali, sarebbe più proficuo trattare i sistemi vocalici delle parlate ladine nella loro complessità. Per una discussione su questo argomento cfr. Vanelli 1998a, 1998b e 2002).

Resta il fatto che i tre sottogruppi presentano in sincronia dei caratteri comuni, anche se si tratta sostanzialmente di tratti conservativi. E, se questo è vero, resta da spiegare come si possa rendere conto di ciò, dal momento che le tre aree interessate NON sono territorialmente contigue tra di loro. Una possibile spiegazione potrebbe essere che questa discontinuità attuale nasconda in realtà una continuità passata. E che ciò che oggi è frazionato e disunito, fosse un tempo omogeneo e unito. Insomma, nonostante il frazionamento attuale, sarebbe lecito avanzare comunque l’idea di una «unità ladina», anche se ricostruibile solo in chiave storica. E potremmo ipotizzare che questi tratti comuni siano indizio di una unità linguistica a cui dovrebbe aver corrisposto nel passato anche una unità di carattere territoriale, geografico. Ma a questo punto si affaccia una II domanda: ammesso che ci sia stata un tempo una «unità ladina», a quando la facciamo risalire?

II risposta: le soluzioni logicamente possibili sono tre: 1) unità romanza, vale a dire una unità storicamente determinatasi sulla base di aggregazioni storico-politiche in epoca «romanza»; 2) unità romana, dovuta ad es. a processi di «romanizzazione» peculiari di tutte e solo le nostre aree; 3) unità preromana, da interpretarsi come unità «etnica», con riferimento alla presenza nel territorio oggi ladino di un sostrato comune e specifico solo di questo territorio. Il problema è che non esistono risposte soddisfacenti a questa domanda: nessuna delle soluzioni prospettate regge a una disanima condotta criticamente, come hanno dimostrato

a più riprese studiosi quali Battisti, Pellegrini, Francescato e Kramer tra gli altri. In particolare, tornando alle tre possibili cause di «unità»:

1) un’unità come risultato di un’aggregazione di epoca posteriore alla formazione delle

lingue romanze presupporrebbe l’esistenza di un centro motore di unificazione linguistica per le nostre tre aree, e solo per queste, in contrapposizione al resto della zona padana. Questa ipotesi non può nemmeno essere avanzata perché non c’è nessun argomento a favore di uno sviluppo storico comune alle aree ladine, che anzi hanno vissuto vicende storiche molto diverse l’una dall’altra e senza speciali rapporti reciproci;

2) per quanto riguarda l’altra possibile spiegazione dell’unità ladina che fa riferimento

al processo di romanizzazione delle aree ladine, bisognerebbe dimostrare che il territorio ladino nella sua totalità è stato oggetto di un unico processo di romanizzazione, che però si sarebbe verificato in tempi e con modalità diversi rispetto al resto dell’Italia settentrionale. Se così fosse stato, si potrebbe attribuire a questo fatto la peculiarità delle parlate romanze ladine. Ma non ci sono argomenti forti a favore di questa tesi; anzi, come sembra ormai ben dimostrato (si veda ad es. già Battisti 1937, p. 29 ss.), le tre aree ladine sono state romanizzate in tempi diversi, a distanza di parecchi secoli l’una dall’altra.

C’è, a dire il vero, un’altra ipotesi che motiverebbe la peculiarità del ladino con uno svolgimento del tutto particolare del processo di latinizzazione: mi riferisco alla teoria di Gamillscheg 1934-36, secondo il quale il ladino continuerebbe una latinità alpina, nel senso di una latinità «provinciale», non italica. Ora, mentre per l’area grigionese, e per quella dolomitica (anche se per quest’ultima la definizione dei confini è più complessa e meno definita), si può effettivamente parlare di territori «provinciali» (la Rezia e eventualmente il Norico per l’area centrale), per l’area friulana (pienamente in territorio italico), si è avanzata l’ipotesi di una neoromanizzazione dal Norico avvenuta a partire dal VI-VII secolo: mi limito qui a ricordare le decisive obiezioni portate da Frau 1969 e Pellegrini 1972 a questo pur originale tentativo di spiegazione della «questione ladina»;

3) resta la spiegazione «etnica», che era già stata avanzata dai primi studi eruditi sul

ladino: basti pensare ai Reti-Etruschi evocati da Bartolomei e da Hormayr, come progenitori di queste popolazioni. Ma è con Gartner (1883 e 1910) che si afferma l’idea che alla base dell’unità ladina ci sia un’unità etnica, che si riconosce nella popolazione dei Reti: di qui il nuovo nome di Retoromanzo dato da allora alle varietà ladine, nome che si è affermato specie in ambito germanico. Anche Ascoli d’altronde propone una interpretazione di tipo etnico-sostratistico per la sua «unità ladina», anche se la questione viene trattata senza accentuazione particolare, dal momento che, in realtà, come abbiamo visto sopra, l’interesse di Ascoli era soprattutto rivolto all’aspetto linguistico-tipologico. In ogni caso, Ascoli ipotizza che l’affinità tra le parlate ladine siano da riportare a una base etnica comune e peculiare, che linguisticamente si traduce nell’azione di una sorta di doppio sostrato celto-retico. Scrive infatti Ascoli (1890): «Il Ladino, come oggi di certo ognuno ammette, non è meno gallo-romano di quello che sia il francese o il pedemontano o il lombardo. […] I Celti si mescolavano coi Reti e coi liguri (Celto-liguri) e incombevano prepotentemente sopra di loro […] La romanizzazione non andrà unicamente ripetuta dal sovrapporsi dello schietto idiona dei conquistatori [i Romani] a quello dei conquistati, ma anche si dovrà all’azione di un elemento celtoitalico principalmente formatosi nella valle del Po, che per ragioni di milizie e di ogni maniera di commerci si venisse via via dilatando» (p. IX-X).

Ma la soluzione etnico-sostratistica non è sostenibile: a parte l’assoluta volatilità e implausibilità di una interpretazione in termini di un fantomatico sostrato retico per spiegare le caratteristiche linguistiche ladine, va anche sottolineato, come hanno ormai fatto molti studiosi (da Battisti a Pellegrini) che in ogni caso, se assumiamo una spiegazione che fa riferimento al sostrato retico, il friulano non può più essere associato alle altre aree: infatti né il Friuli apparteneva alla provincia della Rezia (faceva parte, come è noto, della X Regio, Venetia et Histria), né si può pensare a un qualche incolato di genti retiche nel territorio friulano, di cui non si ha documentazione alcuna.

Il discorso è ovviamente diverso se facciamo riferimento a una base etnica gallica, perché, come è noto, il territorio friulano, a partire dall’area alpina, è stato abitato fin dal V secolo dalle tribù galliche dei Carni. Ma questo non getta luce sul nostro problema, dal momento che tutta l’area cisalpina, con l’eccezione del Veneto (e non di tutto il Veneto), fu territorio gallico, per cui un eventuale sostrato gallico non può essere il tratto discriminante tra ladino e varietà romanze settentrionali, ma semmai è un elemento unificante.

(Tornerò in seguito sulla questione etnica quando riparleremo del «ladino» non come indicatore di una lingua, ma come nome etnico attribuito a un popolo: il popolo «ladino». Ma prima vorrei continuare l’analisi del ladino da un punto di vista linguistico).

3. Una soluzione per la «questione ladina».

Siamo giunti a questo punto della discussione: il ladino designa delle varietà con caratteri linguistici peculiari, ma di cui non si può rendere conto postulando una «unità» che di fatto oggi non esiste, e non sembra essere mai esistita.

E allora la soluzione che possiamo dare alla questione della natura e dell’origine dell’affinità tra le parlate ladine è forse un’altra. La spiegazione parte dall’osservazione che le aree ladine sono aree periferiche, marginali, non solo geograficamente, ma soprattutto dal punto di vista storico-culturale. E allora: E. «ladino» = «periferico».

Così si può spiegare la conservatività linguistica di queste parlate, che va dunque messa in relazione con l’isolamento o la perifericità sia geografica che storica. L’ipotesi è che quello che oggi si presenta come un insieme di varietà che hanno alcune caratteristiche linguistiche comuni, non sia il risultato di una origine comune (e separata rispetto al resto dell’Italia settentrionale), ma sia il risultato di sviluppi storici paralleli, anche se separati, che indipendentemente hanno dato esiti simili.

Come possiamo fare per cercare argomenti a favore di questa ipotesi per cui «ladino» va inteso come «periferico»? Per prima cosa va chiarito che cosa si debba intendere per «periferico» dal punto di vista linguistico: significa che le parlate ladine conservano in sincronia una fase linguistica che presenta delle caratteristiche che anche altre varietà settentrionali dovevano aver conosciuto in altre fasi storiche, ma che poi sono state sostituite attraverso l’adozione di innovazioni a cui le parlate ladine, nella loro «perifericità» appunto, nel loro «isolamento», non hanno partecipato. L’ipotesi è insomma che la differenza tra dialetti settentrionali in genere e varietà ladine non sia una differenza originaria, ma sia una differenza che si è venuta definendo attraverso il tempo, e che è dovuta al diverso passo con cui si sono evoluti i dialetti in questione. Mentre i dialetti settentrionali hanno accolto nel corso del loro sviluppo innovazioni e cambiamenti che ne hanno modificato la fisionomia fino a renderli quello che sono oggi, le varietà ladine, per le ragioni storico-geografiche che abbiamo detto, hanno avuto uno sviluppo più rallentato, o comunque differenziato, in quanto appunto aree marginali. La perifericità ha cioè prodotto un duplice effetto: da una parte una minore permeabilità all’accoglimento rapido di innovazioni provenienti dall’esterno, dall’altra parte viceversa un’elaborazione originale e eccentrica di certi fenomeni linguistici (cfr. per un’interpretazione dello stesso tipo ad es. Battisti 1937, Francescato / Salimbeni 1976, Kramer 1976, Pellegrini 1991). Questa ipotesi sulla genesi delle parlate ladine è coerente con l’evidenza storico-geografica, ma deve essere supportata anche e soprattutto con argomenti di carattere linguistico. A questi ultimi faremo ora brevemente riferimento (riprendo qui l’argomentazione già presentata in Vanelli 1998a [= Benincà / Vanelli 2005, cap. 1]). Tra i fatti empirici di carattere linguistico che potrebbero corroborare l’ipotesi sopra esposta ci sono i seguenti:

1) la presenza, anche se rintracciabile ormai labilmente, di uno o più fenomeni linguistici cui si attribuisce la qualifica di «tratti ladini» in varietà settentrionali linguisticamente non ladine, ma parlate in zone isolate o marginali. Rilevamenti di questo genere rafforzano l’idea di mettere in relazione il termine «ladino» con «periferico», e «isolato». E per questo tipo di indagine va citato Pellegrini 1991, che, sulla base di Pellegrini 1977, ha mostrato ad es. come «il mantenimento della laterale [nei gruppi consonante + l: è il secondo dei «caratteri ladini» di Ascoli 1883] è attestato a tutt’oggi in ampie aree cisalpine, specie della zona lombarda alpina e delle province di Bergamo e Brescia» (p. 34); o, per fare solo un altro esempio, posso citare l’esistenza, da tempo notata e studiata, di processi di palatalizzazione di CA e GA (tratto ascoliano n. 1) nelle colonie gallo-italiche di Sicilia, (si veda per una rassegna critica recente Vigolo 1994, che ha analizzato in particolare il fenomeno della palatalizzazione come si presenta a San Fratello): si tratta in questo caso di un classico esempio di zone dove un dialetto, in questo caso di tipo settentrionale, importato in un certo momento storico dall’area di origine, ha continuato la sua evoluzione linguistica in un contesto di isolamento rispetto alla comunità linguistica di partenza.

2) L’individuazione sempre all’interno di varietà settentrionali, ma questa volta parlate in zone che non si possono definire come isolate o marginali, non tanto di tratti di tipo ladino, diffusi più o meno sistematicamente, cosa che non è possibile, visti gli assunti da cui siamo partiti, ma piuttosto di elementi lessicali che per una qualche ragione sono stati sottoposti a quella che viene chiamata «dispersione lessicale», vale a dire che si sono sottratti all’applicazione dei processi generali, ad es. fonologici, che hanno invece riguardato in modo generalizzato la quasi totalità del lessico. Mi riferisco, nel nostro caso, a due ambiti lessicali particolari, che per la loro specificità, possono essere un banco di prova interessante per individuare, a partire dalla sincronia e all’interno di una determinata varietà, delle fasi linguistiche precedenti, per il resto superate dallo sviluppo linguistico:

a) l’ambito della toponomastica, e anche qui cito ancora gli studi di Pellegrini e di Vigolo, che hanno individuato, anche sulla scorta delle attestazioni dei dizionari e di studi specifici, l’esistenza di toponimi di veste fonologica «ladina», come nel termine Plaf per l’area di Vittorio Veneto (< PLAVIS ‘Piave’), con conservazione di l nel nesso, invece del passaggio a j, o in Ponte del Chiastel Gisopo (nell’alta Valle dell’Agno, presso Recoaro: cfr. Vigolo 1989: 384) e in Chiaregon (valli del Chiampo), e nello stesso Chiampo (< CAMPUS) (cfr. Vigolo 1989), dove si registra la palatalizzazione di ka in tSa, tipica del ladino.

b) l’ambito del lessico «specialistico» o del lessico «arcaico», cioè di un lessico ad es. legato a particolari attività che si potrebbero definire di «nicchia», che costituiscono cioè una sorta di zona periferica del lessico, che può talvolta conservare una veste fonologica più «arcaica» per così dire. Cito ad es., sempre dal lavoro di Vigolo 1986, ciavon, chiavon, nome dato a Chioggia a un pesce dal muso grosso, il ‘Mugil Capito’ < CAPUT + -ONE ( come a dire ‘testone’) (pp. 71-2), o ancora il veneziano sciaveta de spago ‘matassina di spago’, rispetto al veneto gaveta (cfr. Vigolo 1986: 73-4). Ma gli esempi si possono moltiplicare: cfr. Pellegrini 1991.

3. La ricerca di «spie» di tratti «ladini» si è fin qui rivolta all’indagine sincronica sulle varietà settentrionali, sulla base dell’ipotesi che in sincronia possiamo in certi casi trovare per così dire compressi anche dei fenomeni di fasi linguistiche precedenti. Ma ci resta ancora una ricerca da fare: quella di indagare direttamente, laddove ovviamente sia possibile, nella diacronia di una lingua, nelle sue fasi passate, per mettere a fuoco i cambiamenti che si sono verificati nel corso del tempo. Ebbene, anche in questo caso, abbiamo una documentazione di un certo rilievo a favore di una presenza nelle varietà settentrionali antiche di tratti che oggi interpretiamo come «ladini», dal chian, chiani del veneziano antico nel De Regimine Rectoris di Fra Paolino Minorita (sec. XIV), al nome di un pianta, oyo de vachia (lett. ‘occhio di vacca’ = Anthemis Cotula’) del padovano antico (nel Serapion carrarese (fine sec. XIV) (cfr. Vigolo 1986: 70), fino alle tracce di conservazione di -s finale, piuttosto rilevanti nelle varietà settentrionali antiche, specialmente come morfema verbale di 2. persona (per le attestazioni e la bibliografia rimando ancora a Pellegrini 1991).

Se così stanno le cose, dunque, credo che si possa concordare con la tesi della «perifericità» come motivazione sostanziale del gruppo cosiddetto «ladino», che mi pare ormai maggioritaria nell’ambito degli studi ladini, anche se è stata avanzata con accentuazioni diverse, e sulla base di argomentazioni che, se per lo più linguisticamente ineccepibili, sono state qualche volta forse un po’ indebolite da qualche pregiudizio ideologico o in altri casi magari da un eccesso di coinvolgimento «emotivo».

Che cos’è dunque il ladino? E come possiamo risolvere l’apparente contraddizione tra l’affinità tipologica delle varietà oggi definite ladine, che per alcuni aspetti ne fa un «tipo» in parte diverso dal resto delle varietà settentrionali, con l’impossibilità di far risalire questa affinità linguistica a una originale e originaria affinità storico-genetica?

Credo che il confronto storico-geografico e linguistico con le altre varietà settentrionali ci permetta di sostenere che sul piano della sua storia linguistica, delle modalità del suo formarsi, «ladino» corrisponde sostanzialmente a un tipo di settentrionale «periferico», «marginale», corrispondente a una fase linguistica antica. Le analisi empiriche cui abbiamo prima fatto riferimento mostrano che, se ci proiettiamo indietro nel tempo, possiamo fare l’ipotesi che quelli che oggi sono i tipici tratti ladini dovevano essere un tempo diffusi più ampiamente nell’area settentrionale. E se questo è vero, è ben difficile pensare che, nel caso di fenomeni di innovazione rispetto al latino, come la palatalizzazione di CA e GA, il centro di irradiazione fosse nelle marginali zone ladine; è ben più plausibile ipotizzare, sulla scia già di Schmid 1956, che il fenomeno fosse diffuso in origine in tutta l’area dialettale settentrionale (a partire in particolare dai centri della pianura padana). Ma il punto cruciale è un altro: ad un certo momento, possiamo ipotizzare verso il XIII secolo, i dialetti settentrionali avrebbero subito, forse per l’influsso di modelli linguistici più prestigiosi come quello toscano, ulteriori mutamenti che ne avrebbero modificato la struttura in modo rilevante; ciò per es. avrebbe portato da una parte a un regresso della palatalizzazione di CA e GA, e dall’altra al superamento di altri fenomeni di conservazione attraverso ad es. la perdita della –s finale o la palatalizzazione in j della l nei nessi pl- kl- fl- ecc. Mutamenti come questi non avrebbero invece raggiunto le aree più isolate, che dunque avrebbero mantenuto una fase precedente, più conservativa, rispetto alle modifiche accolte dai dialetti settentrionali in generale.

4. Problema linguistico e/o problema politico?

La «questione ladina» è linguisticamente risolta, o almeno così pare a molti. Il termine ladino è un termine che, usato inizialmente come denominazione popolare di varietà romanze parlate in ambiente non romanzo, viene esteso e diffuso nella comunità scientifica dei linguisti, a partire soprattutto dall’opera di Ascoli, che lo aveva usato con l’intento specifico di individuare e denominare un «tipo» linguistico.

Ma la questione ladina, risolta in modo soddisfacente sul piano della interpretazione linguistico-scientifica, si è poi riproposta su un altro piano, quello politico-culturale. La ragione è comprensibile, perché la lingua è un elemento essenziale e identitario della cultura di chi la parla: e allora, è comprensibile che una volta introdotto il «ladino», la nozione di «ladini» sia stata applicata anche ai suoi parlanti. Ma non ci si è fermati qui, perché si è andati più avanti fino a costruire qualcosa di più problematico: coloro che parlano il «ladino» sono «ladini» e in quanto tali hanno una specificità etnica, esiste cioè un popolo «ladino» (vedi ad es. Alton 1879 e1895, per cui cfr. Kramer 2000, pp. 57-58). Ed è a partire da questa identificazione tra la lingua e il popolo che si determina una nuova accezione di «ladino» per cui: F. «ladino» vs. «italiano».

Come testimonianza di questo senso di contrapposizione tra il sentirsi «ladini» e il sentirsi «italiani» citerò questo passo di Luciana Palla, una storica di origine del Livinallongo, che racconta, in un suo interessante lavoro sull’Evoluzione storico-politica delle comunità ladine nel corso del Novecento fino ai nostri giorni (1998, p. 75) di come, tornata al suo paese, una volta terminati gli studi, decise di approfondire la «questione ladina» dal punto di vista storico. E scrive: «Mi tornavano alla mente episodi della mia infanzia, fin da piccola mi era stato fatto capire in modo molto naturale che ero ladina: cosa voleva dire, cosa implicava? Avevo sempre avvertito fra la mia gente la simpatia di tanti per il mondo tedesco tirolese, lo spontaneo differenziarsi dagli italiani, cioè da coloro che provenivano non da Roma o dalla Sicilia, ma dai vicini paesi dell’Agordino distanti pochi chilometri, di là dal vecchio confine fra Austria e Italia che separò fino al 1915 il confine di Livinallongo da quello di Rocca Pietore e di Alleghe» (p.75).

Questa contrapposizione, come si vede da questa testimonianza, è viva nelle zone che appartenevano al Tirolo, inteso come regione facente parte dell’impero asburgico: da una parte, coloro che erano appartenuti al vecchio Tirolo asburgico, i «ladini», anzi, come vengono oggi chiamati, i ladini «storici», dall’altra coloro che, al di là del confine, erano gli «italiani» (ed ecco allora perché per es. Cortina d’Ampezzo è definita «storicamente» ladina, ma San Vito di Cadore, a pochi chilometri di distanza, no). Per ripercorrere la nuova storia del termine ladino, che ora si arricchisce di una connotazione politica, che va oltre le definizioni linguistiche, seguo ancora Kramer 1998b, secondo il quale (p. 170) «la propagazione del nome ladin (tedesco ladinisch, italiano ladino) per i dialetti del Sella e per l’ampezzano è da collocare nella cornice degli sforzi di sviluppo linguistico e culturale sullo sfondo della problematica austriaca delle nazionalità del periodo tra il Compromesso austro-ungarico (1867) [la spartizione dell’Impero asburgico in due parti, di cui quella occidentale, d’impronta tedesca, era uno Stato plurinazionale, in cui si riconoscevano diverse nazionalità, definite dai nomi dei parlanti diverse lingue: ad es. Kärtner, Tiroler, Mailänder, Trientiner, Furlaner, Ladiner, ecc.: cfr. Kramer 2000, p. 56)] e la prima guerra mondiale (1914- 1918)». Infatti in Tirolo «la prova dell’indipendenza del ladino e la dimostrazione del suo statuto di lingua, non di dialetto, era la premessa necessaria e la condizione inevitabile per il riconoscimento dei suoi parlanti, cioè dei ladini, come popolo, come Volksstamm, nel senso della costituzione austriaca. Solo un popolo ladino con una

propria lingua ladina poteva essere un alleato serio dei tirolesi di lingua tedesca; senza tale premessa i ladini sarebbero stati necessariamente aggregati agli altri parlanti tirolesi di un idioma romanzo e considerati Welschtiroler come i trentini» (Kramer 2000, p. 57).

Viene da qui la questione dell’identità ladina, che si manifesta nella assunzione che i ladini costituiscano un vero e proprio popolo (come sostenuto da Alton), atteggiamento che si accentua in seguito all’annessione all’Italia dopo la I guerra mondiale e all’espandersi dalla politica nazionalistica del fascismo. Cito ancora un passo da Palla 1998: «Le questioni di identità, prima della guerra fatte proprie da una élite, si imposero come prioritarie fra la popolazione dopo l’annessione all’Italia, proprio allora si accelerò la consapevolezza etnico-linguistica dei ladini, che cercavano così di garantire la sopravvivenza della propria comunità dal punto di vista socio-economico e culturale: si temevano gli effetti del contatti con la diversità italiana, e si cercava di difendersi potenziando la specificità propria. Il pericolo era percepito come incombente perché storia, lingua, tradizioni ladine non erano riconosciute nel nuovo stato, neppure nell’immediato primo dopoguerra, nonostante le promesse proclamate di rispetto per le nuove province, e tanto meno poi sotto il fascismo: i ladini erano considerati semplicemente italiani, cui il nazionalismo tedesco aveva fatto dimenticare le antiche origini, senz’altro italiane» (p. 77).

Ma la questione dell’identità ladina non è rimasta circoscritta a quest’area: ha successivamente travalicato i vecchi confini italo-austriaci e si è avuta «l’espansione della definizione [di ladini] verso dialetti a meridione dell’antico confine austriaco-italiano [che] va attribuita al periodo dopo il 1968, allorché in settori della vita pubblica in Italia cominciò a prendere piede una coscienza del valore di forme linguistiche e culturali regionali e ci si poteva aspettare che un dialetto venisse considerato con maggior interesse e simpatia qualora esso forse attribuito al gruppo delle «lingue delle minoranze» (Kramer 1998b, p. 170).

In questo senso, la «questione ladina» non si può più considerare solo una questione linguistica, così come era nata, ma è diventata una questione «politico-culturale», una questione che come tale viene riconosciuta con l’entrata in vigore della legge 482 del 1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche, dove all’art. 2, comma 1, sono elencate le lingue a cui si applicano i provvedimenti legislativi di tutela, che sono: albanese, catalano, tedesco, greco, sloveno, croato, francese, franco-provenzale, occitano, friulano, ladino, sardo (l’assenza di ogni accenno alle varietà del ladino occidentale è ovviamente dovuta alla loro appartenenza a territori non italiani).

Ciò che va messo in rilievo è che nel testo della legge si utilizza ladino in una accezione più ristretta rispetto a quella ascoliana: ci si riferisce infatti solo al ladino dolomitico, l’area centrale del gruppo (è l’accezione che abbiamo trovato in Schneller (1870), che parla di un gruppo friaulisch-ladinisch-churwälschen), mentre il friulano viene citato con questo nome (e va osservato che l’assegnazione del nome di «ladino» al friulano non ha mai incontrato molto fortuna). Va piuttosto rilevato che questa separazione tra ladino e friulano va messa in relazione con la tendenza generale, che si riscontra attualmente, di mantenere da una parte la peculiarità delle varietà del gruppo ladino originario, ma di allentare dall’altra i rapporti tra le singole componenti del gruppo, in modo particolare tra ladino dolomitico e friulano.

Ma, un po’ paradossalmente, nel momento in cui una legge dello Stato, cioè un atto di valenza chiaramente politica, chiama in causa esplicitamente la nozione di «ladino» come lingua, ecco che di nuovo viene riattivata la questione linguistica, che sembrava chiusa almeno dal punto di vista della comunità scientifica. Nel momento in cui il ladino viene dichiarato oggetto di tutela, ecco che si riapre il dibattito su chi possa usufruire di questo titolo e chi no. E diventa discriminante stabilire se una certa varietà vada considerata ladina piuttosto che veneta o lombarda o trentina. Da questo riconoscimento dipende l’appartenenza alla minoranza linguistica tutelata (il che implica, beninteso, anche la possibilità di fruire dei finanziamenti previsti).

E la questione ladina riprende vigore: che cosa vuol dire essere ladini? Il dibattito tende spesso a essere condizionato più da vicende storico-politiche che dalla realtà linguistica: e allora, nell’area dolomitica, la discriminante tra ladino e non ladino è sovente equiparata a quella tra ladini «storici» (cioè, come abbiamo visto, appartenenti o meno a territori ex-asburgici) e non.

Si chiede il parere dei linguisti, ma i linguisti hanno già detto quello che avevano da dire. Abbiamo visto che il ladino nasce come una nozione puramente linguistica e se la trattiamo come tale, è difficile se non impossibile tracciare dei confini netti tra ciò che si definisce ladino e ciò che si definisce non-ladino. Ricordiamo che Ascoli definiva il «tipo» ladino sulla base della compresenza di fenomeni linguistici particolari definiti appunto «ladini». Il problema è che, su questa base, come definiamo le varietà che presentano alcuni, ma non tutti i tratti ladini? I linguisti non hanno problemi particolari con le varietà «miste» (in realtà «tipi» linguisticamente puri non esistono in natura), ma i parlanti sì. E allora forse la soluzione, ammesso che ci sia una soluzione, davvero non è più linguistica, ma ha a che fare presumibilmente con una questione di autocoscienza dei parlanti, di senso di appartenenza a una comunità piuttosto che a un’altra. Insomma il problema è proprio politico-culturale. E su questo versante forse il linguista è bene che taccia, e se riprende la parola, lo faccia in un’altra sede, come cittadino.

Bon Nadal e Bon An 2007 a dute!

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  • • Vigolo M.T. (1986), La palatalizzazione di C, G + A nei dialetti veneti, «Archivio Glottologico Italiano» 71, pp. 60-80.
  • • Vigolo M.T. (1989), La palatalizzazione di CA e GA nel dialetto vicentino, in Dialettologia e varia linguistica per Manlio Cortelazzo, Padova, Unipress, pp. 383-389.
  • • Vigolo M. T. (1994), La palatalizzazione di C, G + A nelle colonie gallo-italiche ed in particolare a san Fratello, in Migrazioni interne: i dialetti galloitalici della Sicilia, XVII Convegno di Studi Dialettali Italiani, Padova, Unipress, pp. 273-282.