La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXXI

Libro secondo
Capitolo XXXI

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Quando la perversa fortuna, o sí veramente vogliam dire quella nostra contraria istella, toglie a perseguitare uno uomo, non gli manca mai modi nuovi da mettere in campo contro a di lui. Parendomi d’esser uscito di uno inistimabil pelago, pensando pure che per qualche poco di tempo questa mia perversa istella mi dovessi lasciare istare, non avendo ancora ripreso il fiato da quello inistimabil pericolo, che lei me ne dette dua a un tratto innanzi. In termine di tre giorni mi occorre dua casi; a ciascuno dei dua la vita mia è in sul bilico della bilancia. Questo si fu che, andando io a Fontana Beliò a ragionare con il Re, che m’aveva iscritto una lettera, per la quale lui voleva che io facessi le stampe delle monete di tutto il suo regno, e con essa lettera m’aveva mandato alcuni disegnetti per mostrarmi parte della voglia sua; ma ben mi dava licenzia che io facessi tutto quel che a me piaceva: io avevo fatto nuovi disegni, sicondo il mio parere e sicondo la bellezza de l’arte. Cosí giunto a Fontana Beliò, uno di quei tesaurieri, che avevano commessione dal Re di provvedermi, - questo si chiamava monsignor della Fa - il quale subito mi disse: - Benvenuto, il Bologna pittore ha aùto dal Re commessione di fare il vostro gran colosso e tutte le commessione che ’l nostro Re ci aveva dato per voi, tutte ce l’ha levate, e datecele per lui. A noi c’è saputo grandemente male, e c’è parso che questo vostro italiano molto temerariamente si sia portato inverso di voi; perché voi avevi di già aùto l’opera per virtú de’ vostri modelli e delle vostre fatiche; costui ve la toglie solo per il favore di madama di Tampes: e sono oramai di molti mesi, che gli ha aùto tal commessione, e ancora non s’è visto che dia ordine a nulla -. Io, maravigliato, dissi: - Come è egli possibile che io non abbia mai saputo nulla di questo? - Allora mi disse che costui l’aveva tenuta segretissima, e che l’aveva aúta con grandissima difficultà, perché il Re non gnene voleva dare; ma le sollecitudine di madama di Tampes solo gnene avevan fatto avere. Io sentitomi a questo modo offeso e a cosí gran torto, e veduto tormi un’opera la quale io m’avevo guadagnata con le mia gran fatiche, dispostomi di fare qualche gran cosa di momento con l’arme, difilato me n’andai a trovare il Bologna. Trava’lo in camera sua, e inne’ sua studii: fecemi chiamare drento, e con certe sue lombardesche raccoglienze mi disse qual buona faccenda mi aveva condotto quivi. Allora io dissi: - Una faccenda bonissima e grande -. Quest’uomo commesse ai sua servitori che portassino da bere, e disse: - Prima che noi ragioniamo di nulla, voglio che noi beviamo insieme; che cosí è il costume di Francia -. Allora io dissi: - Misser Francesco, sappiate che quei ragionamenti che noi abbiamo da fare insieme non richieggono il bere imprima: forse dappoi si potria bere -. Cominciai a ragionar seco dicendo: - Tutti gli uomini che fanno professione di uomo dabbene, fanno le opere loro che per quelle si cognosce quelli essere uomini dabbene; e faccendo il contrario, non hanno piú il nome di uomo da bene. Io so che voi sapevi che il Re m’aveva dato da fare quel gran colosso, del quale s’era ragionato diciotto mesi, e né voi né altri mai s’era fatto innanzi a dir nulla sopracciò; per la qual cosa con le mie gran fatiche io m’ero mostro al gran Re, il quale, piaciutogli i mia modelli, questa grande opera aveva dato a fare a me; e son tanti mesi che non ho sentito altro: solo questa mattina ho inteso che voi l’avete aúta e toltola a me; la quale opera io me la guadagnai con i mia maravigliosi fatti, e voi me la togliete solo con le vostre vane parole.