La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LXXXVI

Libro secondo
Capitolo LXXXVI

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Egli era alla guardia della porta al Prato un capitano lombardo: questo si era uno uomo di terribil forma robusta, e con parole molto villane; ed era prosuntuoso e ignorantissimo. Questo uomo subito mi cominciò a domandare quel che io volevo fare; al quale io piacevolmente gli mostrai i mia disegni, e con strema fatica gli davo addintendere il modo che io volevo tenere. Or questa villana bestia ora scoteva ’l capo, e ora e’ si voggeva in qua e ora in là, mutando spesso ’l posar delle gambe, artorcigliandosi i mostacci della barba, che gli aveva grandissimi, e spesso ci si tirava la piega della berretta in su gli occhi dicendo spesso: - Maidè, cancher! Io nolla intendo questa tua fazenda -. Di modo che, essendomi questa bestia venuto annoi’, dissi: - Or lasciatela addunche fare a me, che la ’ntendo - e voltandogli le spalle per andare al fatto mio, questo uomo cominciò minacciando col capo; e colla man mancina, mettendola in su ’l pomo della sua spada, gli fece alquanto rizzar la punta, e disse: - Olà, mastro, tu vorrai che io facci quistion teco al sangue -. Io me gli volsi con grande còllora, perché e’ mi aveva fatto adirare, e dissi: - E’ mi parrà manco fatica il far quistione con esso teco, che il fare questo bastione a questa porta -. A un tratto tutt’a dua mettemmo le mani in su le nostre spade, e nolle sfoderammo affatto, che subito si mosse una quantità di uomini dabbene, sí de’ nostri Fiorentini e altri cortigiani; e la maggior parte sgridorno lui dicendogli che gli aveva ’l torto, e che io ero uomo da rendergli buon conto, e che se ’l Duca lo sapessi, che guai a lui. Cosí egli andò al fatto sua: e io cominciai il mio bastione. E come io ebbi dato l’ordine al detto bastione, andai all’altra porticciuola d’Arno, dove io trovai un capitano da Cesena, il piú gentil galante uomo che mai io conoscessi di tal professione: ci dimostrava di essere una gentil donzelletta, e al bisogno egli si era de’ piú bravi uomini e ’l piú miciduale che immaginar si possa. Questo gentile uomo mi osservava tanto che molte volte ei mi faceva peritare: e’ desiderava di intendere e io piacevolmente gli mostravo: basta che noi facevàno a chi si faceva maggior carezze l’un l’altro, di sorte che io feci meglio questo bastione, che quello, assai. Avendo presso e finiti li mia bastioni, per aver dato una correria certe gente di quelle di Piero Strozzi, e’ si era tanto spaventato ’l contado di Prato, che tutto ci si sgombrava, e per questa cagione tutte le carra di quel contado venivano cariche, portando ogniuno le sue robe alla città. E perché le carra si toccavano l’uno l’altra, le quali erano una infinità grandissima, vedendo un tal disordine, io dissi alle guardie delle porte che avvertissono che a quella porta e’ nonnaccadessi un disordine come avvenne alle porte di Turino; ché bisognando l’aversi asservirsi della saracinesca, la non potria fare l’uffizio suo, perché la resterebbe sospesa in su uno di que’ carri. Sentendo quel bestion di quel capitano queste mia parole, mi si volse con ingiuriose parole, e io gli risposi altanto; di modo che noi avemmo affar molto peggio che quella prima volta: imperò noi fummo divisi; e io, avendo finiti i mia bastioni, toccai parecchi scudi innaspettatamente, che e’ me ne giovò, e volentieri me ne tornai affinire ’l mio Perseo.