La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LXXVI

Libro secondo
Capitolo LXXVI

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Messo che io mi fui nel letto, comandai alle mie serve che portassino in bottega da mangiare e dabbere attutti; e dicevo loro: - Io non sarò mai vivo domattina -. Loro mi davano pure animo, dicendomi che ’l mio gran male si passerebbe, e che e’ mi era venuto per la troppa fatica. Cosí soprastato dua ore con questo gran combattimento di febbre; e di continuo io me la sentivo crescete, e sempre dicendo - Io mi sento morire - la mia serva, che governava tutta la casa, che aveva nome monna Fiore di Castel del Rio: questa donna era la piú valente che nascessi mai e altanto la piú amorevole, e di continuo mi sgridava, che io mi ero sbigottito, e dall’altra banda mi faceva le maggiore amorevolezze di servitú che mai far si possa al mondo. Imperò, vedendomi con cosí smisurato male e tanto sbigottito, con tutto il suo bravo cuore lei non si poteva tenere che qualche quantità di lacrime non gli cadessi dagli occhi; e pure lei quanto poteva si riguardava che io non le vedessi. Stando in queste smisurate tribulazione, io mi veggo entrare in camera un certo omo, il quale nella sua persona ei mostrava d’essere storto come una esse maiuscola; e cominciò a dire con un certo suon di voce mesto, afflitto, come coloro che danno il commandamento dell’anima a quei che hanno a ’ndare a giostizia, e disse: - O Benvenuto! la vostra opera si è guasta, e non ci è piú un rimedio al mondo -. Subito che io senti’ le parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito dal cielo del fuoco; e sollevatomi del letto presi li mia panni e mi cominciai a vestire; e le serve e ’l mio ragazzo e ognuno che mi si accostava per aiutarmi, attutti io davo o calci o pugna, e mi lamentavo dicendo: - Ahi traditori, invidiosi! Questo si è un tradimento fatto a arte; ma io giuro per Dio che benissimo i’ lo conoscerò e innanzi che io muoia lascerò di me un tal saggio al mondo, che piú d’uno ne resterà maravigliato -. Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: - Orsú intendetemi, e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io v’insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell’opera mia; e non sia nessuno che mi si contraponga, perché questi cotai casi hanno bisogno di aiuto e non consiglio -. A queste mie parole e’ mi rispose un certo maestro Alessandro Lastricati e disse: - Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a fare una impresa, la quale mai nollo promette l’arte, né si può fare in modo nissuno -. A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al male, che ei e tutti gli altri, tutti a una voce dissono: - Sú, comandate, che tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si potrà resistere con la vita -. E queste amorevol parole io mi penso che ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l’essersi fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali, che andassino al dirimpetto, in casa ’l Capretta beccaio, per una catasta di legne di quercioli giovani, che erano secchi di piú di uno anno, le quali legne madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva offerte; e venute che furno le prime bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola. E perché la quercia di quella sorte fa ’l piú vigoroso fuoco che tutte l’altre sorte di legne, avvenga che e’ si adopera legne di ontano o di pino per fondere per l’artiglierie, perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a schiarire, e lampeggiava. Dall’altra banda sollecitavo i canali, e altri avevo mandato sul tetto arriparare al fuoco, il quale per la maggior forza di quel fuoco si era maggiormente appiccato; e di verso l’orto avevo fatto rizzare certe tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all’acqua.