La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XC

Libro primo
Capitolo XC

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Avendo atteso alla mia bottega, e seguitavo alcune mie faccende, non già di molto momento, perché mi attendevo alla restaurazione della sanità, e ancora non mi pareva essere assicurato dalla grande infirmità che io avevo passata. In questo mentre lo Imperadore tornava vittorioso dalla impresa di Tunizi, e il Papa aveva mandato per me e meco si consigliava che sorte di onorato presente io lo consigliavo per donare allo Imperatore. Al quale io dissi, che il piú a proposito mi pareva donare a Sua Maestà una croce d’oro con un Cristo, al quale io avevo quasi fatto uno ornamento, il quale sarebbe grandemente a proposito e farebbe grandissimo onore a Sua Santità e a me. Avendo già fatto tre figurette d’oro, tonde, di grandezza di un palmo in circa: queste ditte figure furno quelle che io avevo cominciate per il calice di papa Clemente; erano figurate per la Fede, la Speranza e la Carità; onde io aggiunsi di cera tutto il restante del piè di detta croce; e portatolo al Papa con il Cristo di cera e con molti bellissimi ornamenti, sadisfece grandemente al Papa; e innanzi che io mi partissi da Sua Santità rimanemmo conformi di tutto quello che si aveva a fare, e appresso valutammo la fattura di detta opera. Questo fu una sera a quattro ore di notte: el Papa aveva dato commessione a messer Latino Iuvinale che mi facessi dar danari la mattina seguente. Parve al detto messer Latino, che aveva una gran vena di pazzo, di volere dar nuova invenzione al Papa, la qual venissi dallui stietto; che egli disturbò tutto quello che si era ordinato; e la mattina, quando io pensai andare per li dinari, disse con quella sua bestiale prosunzione: - A noi tocca a essere gl’inventori, e a voi gli operatori. Innanzi che io partissi la sera dal Papa, noi pensammo una cosa molto migliore -. Alle qual prime parole, non lo lasciando andar piú innanzi, gli dissi: - Né voi né il Papa non può mai pensare cosa migliore, che quelle dove e’ s’interviene Cristo; sí che dite ora quante pappolate cortigianesche voi sapete -. Sanza dir altro si partí da me in còllora, e cercò di dare la ditta opera a un altro orefice; ma il Papa non volse, e subito mandò per me e mi disse, che io avevo detto bene, ma che si volevan servire di uno Uffiziuolo di Madonna, il quale era miniato maravigliosamente, e ch’era costo al cardinal de’ Medici a farlo miniare piú di dumila scudi: e questo sarebbe a proposito per fare un presente alla Imperatrice, e che allo Imperadore farebbon poi quello che avevo ordinato io, che veramente era presente degno di lui; ma questo si faceva per aver poco tempo, perché lo Imperadore s’aspettava in Roma in fra un mese e mezzo. Al ditto libro voleva fare una coperta d’oro massiccio, riccamente lavorata, e con molte gioie addorna. Le gioie valevano in circa sei mila scudi: di modo che, datomi le gioie e l’oro, messi mano alla ditta opera, e sollecitandola in brevi giorni io la feci comparire di tanta bellezza, che il Papa si maravigliava e mi faceva grandissimi favori, con patti che quella bestia de l’Iuvinale non mi venissi intorno. Avendo la ditta opera vicina alla fine, comparse lo Imperatore, a il quale s’era fatti molti mirabili archi trionfali, e giunto in Roma con maravigliosa pompa, qual toccherà a scrivere ad altri, perché non vo’ trattare se non di quel che tocca a me, alla sua giunta subito egli donò al Papa un diamante, il quale lui aveva compero dodicimila scudi. Questo diamante il Papa lo mandò per me e me lo dette, che io gli facessi un anello alla misura del dito di Sua Santità; ma che voleva che io portassi prima el libro al termine che gli era. Portato che io ebbi el libro al Papa, grandemente gli sodisfece: di poi si consigliava meco che scusa e’ si poteva trovare con lo Imperadore, che fussi valida, per essere quella ditta opera imprefetta. Allora io dissi che la valida iscusa si era, che io arei detto della mia indisposizione, la quale Sua Maestà arebbe facilissimamente creduta, vedendomi cosí macilente e scuro come io ero. A questo il Papa disse che molto gli piaceva; ma che io arrogessi da parte di Sua Santità, faccendogli presente del libro, di fargli presente di me istesso: e mi disse tutto il modo che io avevo attenere, delle parole che io avevo a dire, le qual parole io le dissi al Papa, domandandolo se gli piaceva che io dicessi cosí. Il quale mi disse: - Troppo bene dicesti, se a te bastassi la vista di parlare in questo modo allo Imperadore, che tu parli a me -. Allora io dissi, che con molta maggior sicurtà mi bastava la vista di parlate con lo Imperadore; avvenga che lo Imperadore andava vestito come mi andavo io, e che a me saria parso parlare a uno uomo che fussi fatto come me; qual cosa non m’interveniva cosí parlando con Sua Santità, innella quale io vi vedevo molto maggior deità, sí per gli ornamenti eclesiastici, quali mi mostravano una certa diadema, insieme con la bella vecchiaia di Sua Santità: tutte queste cose mi facevano piú temere, che non quelle dello Imperadore. A queste parole il Papa disse: - Va, Benvenuto mio, che tu sei un valente uomo: facci onore, ché buon per te.