La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXXIV

Libro primo
Capitolo LXXXIV

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Dappoi quattro giorni appresso, mi prese una grandissima febbre con freddo inistimabile: e postomi a letto, subito mi giudicai mortale. Feci chiamare i primi medici di Roma, in fra i quali si era un maestro Francesco da Norcia, medico vecchissimo e di maggior credito che avessi Roma. Contai alli detti medici quale io pensavo che fussi stata la causa del mio gran male, e che io mi sarei voluto trar sangue, ma io fui consigliato di no; e se io fussi a tempo, li pregavo che me ne traessino. Maestro Francesco rispose, che il trarre sangue ora non era bene, ma allora sí, che non arei aùto un male al mondo; ora bisognava medicarmi per un’altra via. Cosí messono mano a medicarmi con quanta diligenzia e’ potevano e sapevano al mondo; e io ogni dí peggioravo a furia, in modo che in capo di otto giorni il mal crebbe tanto, che li medici disperati della impresa detton commessione che io fussi contento e mi fussi dato tutto quello che io domandavo. Maestro Francesco disse: - Insinché v’è fiato, chiamatemi a tutte l’ore, perché non si può immaginare quel che la natura sa fare in un giovane di questa sorte; però, avvenga che lui svenissi, fategli questi cinque rimedi l’un dietro all’altro, e mandate per me, che io verrò a ogni ora della notte; che piú grato mi sarebbe di campar costui, che qualsivoglia cardinal di Roma -. Ogni dí mi veniva a visitare dua o tre volte messer Giovanni Gaddi, e ogni voIta pigliava in mano di quei miei belli scoppietti e mie maglie e mie spade, e continuamente diceva: - Questa cosa è bella, e quest’altra è piú bella - cosí di mia altri modelletti e coselline: di modo che io me l’avevo recato a noia. E con esso veniva un certo Mattio Franzesi, il quale pareva che gli paressi mill’anni ancora allui io mi morissi; non perché allui avessi a toccar nulla del mio, ma pareva che lui desiderassi quel che misser Giovanni mostrava aver gran voglia. Io avevo quel Filice già detto mio compagno, il quale mi dava il maggiore aiuto che mai al mondo potessi dare uno uomo a un altro. La natura era debilitata e avvilita a fatto; e non mi era restato tanta virtú che, uscito il fiato, io lo potessi ripigliare; ma sí bene la saldezza del cervello istava forte, come la faceva quando io non avevo male. Imperò stando cosí in cervello, mi veniva a trovare alletto un vecchio terribile, il quale mi voleva istrascicare per forza drento in una sua barca grandissima; per la qual cosa io chiamavo quel mio Felice, che si accostassi a me, e che cacciassi via quel vecchio ribaldo. Quel Felice, che mi era amorevolissimo, correva piagnendo e diceva: - Tira via, vecchio traditore, che mi vuoi rubare ogni mio bene -. Messer Giovanni Gaddi allora, ch’era quivi alla presenza, diceva; - Il poverino farnetica, e ce n’è per poche ore -. Quell’altro Mattio Franzesi diceva: - Gli ha letto Dante, e in questa grande infermità gli è venuto quella vagillazione - e diceva cosí ridendo: - Tira via, vecchio ribaldo, e non dare noia al nostro Benvenuto -. Vedutomi schernire, io mi volsi a messer Giovanni Gaddi e allui dissi: - Caro mio padrone, sappiate che io non farnetico, e che gli è il vero di questo vecchio, che mi dà questa gran noia. Ma voi faresti bene il meglio a levarmi dinanzi cotesto isciagurato di Mattio, che si ride del mio male: e da poi che Vostra Signoria mi fa degno che io la vegga, doverresti venirci con messer Antonio Allegretti o con messer Annibal Caro, o con di quelli altri vostri virtuosi, i quali son persone d’altra discrezione e d’altro ingegno, che non è cotesta bestia -. Allora messer Giovanni disse per motteggio a quello Mattio, che si gli levassi dinanzi per sempre; ma perché Mattio rise, il motteggio divenne da dovero, perché mai piú messer Giovanni non lo volse vedere, e fece chiamare messer Antonio Allegretti, e messer Lodovico, e messer Annibal Caro. Giunti che furono questi uomini da bene, io ne presi grandissimo conforto, e con loro ragionai in cervello un pezzo, pur sollecitando Felice che cacciassi via il vecchio. Misser Lodovico mi dimandava quel che mi pareva vedere, e come gli era fatto. In mentre che io gnene disegnavo con le parole bene, questo vecchio mi pigliava per un braccio, e per forza mi tirava a sé; per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino, perché mi voleva gittar sotto coverta in quella sua spaventata barca. Ditto quest’ultima parola, mi venne uno sfinimento grandissimo, e a me parve che mi gettassi in quella barca. Dicono che allora in questo svenire, che io mi scagliavo e che io dissi di male parole a messer Giovanni Gaddi, sí che veniva per rubarmi e non per carità nessuna; e molte altre bruttissime parole, le quale fecion vergognare il ditto messer Giovanni. Di poi dissono che io mi fermai come morto; e soprastati piú d’un’ora, parendo loro che io mi freddassi, per morto mi lasciorono. E ritornati a casa loro, lo seppe quel Mattio Franzesi, il quale scrisse a Firenze a messer Benedetto Varchi mio carissimo amico, che alle tante ore di notte lor mi avevano veduto morire. Per la qual cosa quel gran virtuoso di messer Benedetto e mio amicissimo, sopra la non vera ma sí ben creduta morte fece un mirabil sonetto, il quale si metterà al suo luogo. Passò piú di tre grande ore prima che io mi rinvenissi; e fatto tutti e’ rimedi del sopraditto maestro Francesco, veduto che io non mi risentivo, Felice mio carissimo si cacciò a correre a casa maestro Francesco da Norcia, e tanto picchiò che egli lo svegliò e fecelo levare, e piagnendo lo pregava che venissi a casa, che pensava che io fossi morto. Al quale, maestro Francesco, che era collorosissimo, disse: - Figlio, che pensi tu che io faccia a venirvi? se gli è morto, a me duol egli piú che a tte; pensi tu che con la mia medicina, venendovi, io li possa soffiare in culo e rendertelo vivo? - Veduto che ’l povero giovane se ne andava piangendo, lo chiamò indietro e gli dette certo olio da ugnermi e’ polsi e il cuore, e che mi serrassino istrettissime le dita mignole dei piedi e delle mane; e che se io rinvenivo, che subito lo mandassimo a chiamare. Partitosi Felice, fece quanto maestro Francesco gli aveva detto; e essendo fatto quasi di chiaro e parendo loro d’esser privi di speranza, dettono ordine a fare la vesta e a lavarmi. In un tratto io mi risenti’, e chiamai Felice, che presto presto cacciassi via quel vecchio che mi dava noia. Il quale Felice volse mandare per maestro Francesco, e io dissi che non mandassi e che venissi quivi da me, perché quel vecchio subito si partiva e aveva paura di lui. Accostatosi Felice a me, io lo toccavo e mi pareva che quel vecchio infuriato si scostassi; però lo pregavo che stessi sempre da me. Comparso maestro Francesco, disse che mi voleva campare a ogni modo, e che non aveva mai veduto maggior virtú in un giovane, a’ sua dí, di quella; e dato mano allo scrivere, mi fece profumi, lavande, unzioni, impiastri e molte cose inistimabile. Intanto io mi risenti’ con piú di venti mignatte al culo, forato, legato e tutto macinato. Essendo venuto molti mia amici a vedere il miracolo de il resuscitato morto, era comparso uomini di grande importanza e assai; presente i quali io dissi che quel poco de l’oro e de’ danari, quali potevano essere in circa ottocento scudi fra oro, argento, gioie e danari, questi volevo che fussino della mia povera sorella che era a Firenze, quale aveva per nome monna Liperata; tutto il restante della roba mia, tanto arme quanto ogni altra cosa, volevo fussino del mio carissimo Filice, e cinquanta ducati d’oro piú, acciò che lui si potessi vestire. A queste parole Filice mi si gittò al collo, dicendo che non voleva nulla, altro che mi voleva vivo. Allora io dissi: - Se tu mi vuoi vivo, toccami accotesto modo, e sgrida a cotesto vecchio, che ha di te paura -. A queste parole v’era di quelli che spaventavano, conosciuto che io non farneticavo, ma parlavo a proposito e in cervello. Cosí andò faccendo il mio gran male, e poco miglioravo. Maestro Francesco eccellentissimo veniva quattro volte o cinque il giorno: misser Giovanni Gaddi, che s’era vergognato, non mi capitava piú innanzi. Comparse il mio cognato, marito della ditta mia sorella: veniva di Fiorenze per la eredità: e perché gli era molto uomo da bene, si rallegrò assai l’avermi trovato vivo; il quale a me dette un conforto inistimabile il vederlo, e subito mi fece carezze dicendo d’esser venuto solo per governarmi di sua mano propria; e cosí fece parecchi giorni. Di poi io ne lo mandai, avendo quasi sicura isperanza di salute. Allora lui lasciò il sonetto di messer Benedetto Varchi, quale è questo:


IN LA CREDUTA E NON VERA MORTE
DI BENVENUTO CELLINI


Chi ne consolerà, Mattio? chi fia
che ne vieti il morir piangendo, poi
che pur è vero, oimè, che sanza noi
cosí per tempo al Ciel salita sia4

quella chiara alma amica, in cui fioria
virtú cotal, che fino a’ tempi suoi
non vidde equal, né vedrà, credo, poi
il mondo, onde i miglior si fuggon pria?8

Spirto gentil, se fuor del mortal velo
S’ama, mira dal Ciel chi in terra amasti,
pianger non già ’l tuo ben, ma ’l proprio male. 11

Tu ten sei gito a contemplar su ’n Cielo
l’alto Fattore, e vivo il vedi or quale
con le tue dotte man quaggiú il formasti. 14