La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CXVII

Libro primo
Capitolo CXVII

../Capitolo CXVI ../Capitolo CXVIII IncludiIntestazione 16 luglio 2008 75% Autobiografie

Libro primo - Capitolo CXVI Libro primo - Capitolo CXVIII

In questo mezzo il Castellano sopraditto si fece portare in quel luogo dove io ero, e cosí ammalato e afflitto disse: - Ve’ che ti ripresi? - Sí - dissi io - ma ve’ che io mi fuggi’, come io ti dissi? e se io non fussi stato venduto, sotto la fede papale, un vescovado da un veniziano cardinale e un romano da Farnese, e’ quali l’uno e l’altro ha graffiato il viso alle sacre sante legge, tu mai non mi ripigliavi. Ma da poi che ora da loro s’è messa questa male usanza, fa’ ancora tu il peggio che tu puoi, ché di nulla mi curo al mondo -. Questo povero uomo cominciò molto forte a gridare, dicendo: - Oimè! oimè! costui non si cura né di vivere né di morire, ed è piú ardito che quando egli era sano: mettetelo là sotto il giardino, e non mi parlate mai piú di lui, che costui è causa della morte mia -. Io fui portato sotto un giardino in una stanza oscurissima, dove era dell’acqua assai, piena di tarantole e di molti vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra, e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro porte: cosí istetti insino alle dicianove ore il giorno seguente. Allora mi fu portato da mangiare: ai quali io domandai che mi dessino alcuni di quei miei libri da leggere. Da nessuno di questi non mi fu parlato, ma riferirno a quel povero uomo del Castellano, il quale aveva domandato quello che io dicevo. L’altra mattina poi mi fu portato un mio libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro dove eran le Cronache di Giovan Villani. Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io non arei altro e che io avevo troppo di quelli. Cosí infelicemente mi vivevo in su quel materasso tutto fradicio, ché in tre giorni era acqua ogni cosa; onde io stavo continuamente senza potermi muovere, perché io avevo la gamba rotta; e volendo andare pur fuor del letto per la necessità de’ miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per non fare lordure in quel luogo dove io dormiva. Avevo un’ora e mezzo del dí di un poco di riflesso di lume il quale m’entrava in quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del tempo leggevo, e ’l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de’ pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio che io potevo da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dispiacere e’ mi saria istato innel passare della vita mia, sentire quella inistimabil passione del coltello, dove istando a quel modo io la passavo con un sonnifero, il quale mi s’era fatto molto piú piacevole che quello di prima: e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a tanto che la mia buona complessione si fu accomodata a quel purgatorio. Di poi che io senti’ essersi lei accomodata e assuefatta, presi animo di comportarmi quello inistimabil dispiacere in sino a tanto quanto lei stessa me lo comportava.