La tutela internazionale della proprietà intellettuale: il fenomeno del copyleft/Conclusioni

Capitolo 2.6 Bibliografia e sitografia

“Evoluzione” e “complementarietà” sembrano le due parole più adatte a sintetizzare l’intera analisi: il copyleft rappresenta un’evoluzione, dai risvolti ancora non pienamente esplicati, del copyright – le cui regole non saranno totalmente soppiantate, ma affiancate dalle nuove.

È necessario ricordare come sia completamente fuori luogo immaginare un mondo futuro senza copyright, dal momento che «l’imposizione di certe regole di utilizzo del programma, sia pure di contenuto più permissivo [...], attraverso il modello contrattuale della licenza, costituisce pur sempre esercizio di un’esclusiva d’autore, e cioè comporta l’imposizione di regole di utilizzo al licenziatario, cioè esercizio del copyright».1

Queste nuove regole hanno avuto il pregio di scardinare alcuni luoghi comuni sull’attuale sistema di tutela, di rendere note e criticabili le distorsioni più evidenti e di fornire una alternativa praticabile e costruttiva, tale da far intravedere una via percorribile che possa in futuro riequilibrare la ricerca del profitto e i profitti della ricerca.

Si può riconoscere, dunque, che il profitto economico «non è il solo stimolo della ricerca scientifica e tecnologica, e non è il solo strumento capace di indirizzarla verso obiettivi socialmente utili»2 – con ciò falsificando una delle estremizzazioni recenti operate da chi difende l’attuale sistema di tutela dei diritti – e che la ricerca è soprattutto condivisione delle idee, che la produzione di nuove opere (sia letterarie che tecniche) può essere anche frutto di una rielaborazione di ciò che altri hanno prodotto in passato.

Il funzionamento di questo paradigma è stato analizzato e dimostrato ampiamente in questa analisi, dunque non si ritiene di dovervi ritornare. Tuttavia, così come è lecito aspettarsi un’improvvisa impennata nella produzione di opere culturali e creative, similmente a quanto avvenuto in ambito informatico, è altrettanto lecito nutrire dubbi sulla qualità di queste nuove opere.

Sarà proprio la qualità uno dei banchi di prova del futuro: se il tempo ha dimostrato che in ambito informatico la sfida è stata vinta, non è detto che una vittoria del genere possa essere replicata in ambito culturale, dove non è il bene e la sua funzionalità a fare la differenza, quanto i gusti del consumatore. «Sarà dunque importante verificare se, negli anni a venire, i commons creativi continueranno a essere alimentati da prodotti di buona qualità, ovvero se si ridurranno a veicolo di distribuzione di contenuti di seconda scelta».3

Allo stesso modo, sarà di enorme interesse anche valutare le reazioni dei “grandi autori” rispetto a questo nuovo fenomeno. Al momento si registrano già importanti adesioni: un esempio abbastanza importante è dato dal canale satellitare di informazione arabo al-Jazeera, che agli inizi del 2009 ha creato un Creative Commons Repository, ossia una collezione di registrazioni video effettuate dall’emittente rilasciate con licenza CC Attribuzione. A questo si è poi aggiunta la piattaforma blog per i propri giornalisti, interamente rilasciata con licenza CC Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate.

Un altro esempio interessante è il progetto OpenCourseWare, promosso dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), col quale il prestigioso ateneo statunitense rilascia con licenza licenza CC Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo materiali e testi che vengono utilizzati per i loro corsi. Sulla stessa falsariga si inserisce la Public Library of Science (PloS), un’organizzazione no profit che raccoglie pubblicazioni in ambito medico e scientifico e che rilascia i propri contenuti con licenza licenza CC Attribuzione.

Per quanto riguarda gli autori “non professionisti”, «è evidente che lo straordinario successo riscontrato dal modello creative commons è in buona parte dipeso anche dal fatto che il sistema di beni comuni creativi proposto ha rappresentato, in ultima analisi, l’attesa risposta a un’esigenza già da tempo spontaneamente avvertita»,4 soprattutto per quelle piattaforme che ospitano prevalentemente o solamente contenuti prodotti dai propri utenti (i c.d. user generated content) come Flickr e Wikipedia.

Tutto questo non ci autorizza comunque a trarre conclusioni definitive: le dinamiche dei mercati interessati sono complesse e differiscono da ambito ad ambito. Le stesse ricerche economiche condotte finora hanno avuto modo di individuare solo delle linee di tendenza generali. Tuttavia, è stato raggiunto un risultato, che Sanfilippo giustamente riteneva fondamentale: «sin quando i mondi open source non si aggregheranno intorno a centri di interessi, specie imprenditoriali, [...] la tutela dell’ordinamento riguardo al fenomeno in discorso non può che continuare a mostrare i tratti di una tutela debole».5

Vale la pena ricordare ancora una volta come questo risultato dipenda dalla correttezza di fondo dell’approccio, sia nei suoi principi che nella sua applicazione, e da come questo si sia combinato con la produzione di opere di qualità a basso costo. Così come vale la pena sottolineare ancora l’eccezionale evoluzione rappresentata dalle licenze Creative Commons e, in particolar modo, dalle due clausole più limitative (la “Non commerciale” e la “Non opere derivate”). Proprio queste limitazioni, pur entrando in conflitto con l’approccio classico delle licenze libere, permetteranno una transizione più morbida di certi autori verso il nuovo modello, senza pregiudicare i loro diritti.

Il fenomeno del copyleft, infine, permette di opporre una alternativa credibile e costruttiva alla posizione estremamente restrittiva adottata dagli Stati membri del WTO e della WIPO riguardo la tutela della proprietà intellettuale. Come già notato nell’analisi, la filosofia open potrebbe essere la chiave per rispettare gli obblighi pattizi contratti dai Paesi occidentali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, riguardo le promesse di trasferimento di tecnologia e di cooperazione tecnica ed economica. Senza contare che potrebbe costituire un metodo anche per la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale in quei Paesi in cui scarseggiano i fondi relativi.

Questo presupporrebbe comunque la rettifica della posizione fin qui tenuta da molti Paesi occidentali, così come la decisione di rivedere in senso più permissivo gli accordi che regolamentano brevetti e licenze, senza che questo pregiudichi i legittimi diritti di chi crea opere. Serve, insomma, una soluzione politica a un fenomeno che non deve essere criminalizzato, né soppresso, ma solo regolamentato.

Note

  1. G. Giannelli, “Open source e diritti morali”, in M. Bertani (a cura di), op. cit., pag. 200.
  2. G. Sartor, “Proprietà e comunione del sapere informatico”, in M. Bertani (a cura di), op. cit., pag. 147.
  3. M.G. Jori, “Creative Commons: passato, presente e futuro dei beni comuni”, in G. Ziccardi (a cura di), op. cit., pagg. 77-78.
  4. M.G. Jori, op. cit., pag. 81.
  5. P.M. Sanfilippo, “Organizzazione dei mondi open source: i controlli sulle opere”, in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 66.