La servitù delle donne/II
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Traduzione dall'inglese di Anna Maria Mozzoni (1926)
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Giova ora entrare nella discussione dei particolari della questione movendo dal punto in cui siamo arrivati, la condizione che le leggi aggiungono al contratto matrimoniale. Siccome il matrimonio è il destino che la società forma alle donne, l’avvenire al quale si educano, e la meta alla quale s’intende che tutte camininino, quelle eccettuate che non hanno sufficienti attrattive perchè un uomo possa scegliere fra esse la compagna della sua vita, v’è luogo a credere che si è fatto di tutto per rendere questa condizione più desiderabile che sia possibile, affinchè le donne non abbiano alcuna ragione di rammaricarsi di non aver potuto sceglierne un’altra. Niente affatto: la società in questo caso, come in tutti gli altri, ha preferito giungere al suo fine con mezzi vergognosi piuttosto che con mezzi onesti. È il solo caso nel quale essa abbia in fondo persistito quei suoi traviamenti. Nel principio si prendevano le donne per forza, oppure il padre le vendeva al marito. Da poco tempo ancora in Europa un padre avea diritto di disporre di sua figlia e maritarla, senza riguardo ai suoi sentimenti. La Chiesa rimaneva ancora abbastanza fedele ad una morale superiore per esigere un sì formale dalla donna al momento del suo matrimonio; ma questo non provava per nulla che il consenso non fosse forzato; era affatto impossibile ad una giovinetta ricusare al padre obbedienza s’egli persisteva nell’esigerla, a meno di ottenere la protezione della religione colla ferma risoluzione di pronunciare i voti monastici. Una volta marito, l’uomo, aveva altre volte (avanti al cristianesimo) diritto di vita e di morte sulla moglie. Ella non poteva invocare la legge contro di lui; egli era l’unico suo giudice e la sola sua legge. Per lunga pezza egli potè ripudiarla, mentre ella non aveva contro di lui lo stesso dritto. Nelle vecchie leggi inglesi, il marito si chiama signore di sua moglie, egli era, alla lettera, considerato come suo Sovrano, in guisa che l’omicidio di un uomo per fatto di sua moglie si chiamava tradimento (basso tradimento per distinguerlo dall’alto tradimento) ed era vendicato più atrocemente che il delitto d’alto tradimento, dacchè la pena era d’esser bruciata viva. Dappoichè queste orridezze sono cadute in disuso (poichè per la maggior parte non sono abolite, o non lo furono che lungo tempo dopo esserne cessata l’applicazione) si suppone che tutto è per lo meglio nel patto matrimoniale qual’è oggigiorno, e non si cessa di ripetere che la civiltà ed il cristianesimo hanno ristabilito la donna nei suoi giusti diritti. Non è però men vero che la sposa è realmente la schiava del marito non meno, nei limiti dell’obbligazione legale, che gli schiavi propriamente detti. Ella giura all’altare una obbedienza di tutta la vita al marito, e vi è tenuta, per legge, tutta la vita. I casisti diranno che questa obbedienza ha un confine, ch’essa si arresta là dove la donna diverrebbe complice di un delitto, ma si estende a tutto il rimanente. La donna non può far nulla senza il permesso, almeno tacito, del marito. Ella non può acquisire dei beni che per lui; dal punto che ella acquista una proprietà, foss’anche per successione ereditaria, dessa è ipso fatto proprietà di lui. In questo la situazione fatta alla donna dalla legge inglese, è peggio che quella degli schiavi dietro i codici di molti paesi. Nella legge romana per esempio, lo schiavo poteva possedere, in proprio, un piccolo peculio, che gli era fino ad un dato punto guarentito dalla legge pel suo uso esclusivo. Le classi elevate d’Inghilterra hanno dato alle donne dei vantaggi analoghi mediante contratti speciali, che deludono la legge, stipulando per la donna la libera disposizione di date somme. Siccome i sentimenti paterni la vincono nei padri sullo spirito di corpo del loro sesso, un padre preferisce generalmente la figlia al genero, che gli è straniero. I ricchi cercano di sottrarre, con disposizioni ad hoc, in totalità od in parte, i beni patrimoniali della donna alla direzione del marito, ma non riescono a metterli sotto la direzione della donna. Tutto quel che possono ottenere è d’impedire al marito di sciuparli; ma il legittimo proprietario è sempre privato del libero uso dei suoi beni. La proprietà resta fuori dall’amministrazione dei due sposi, ed il reddito è ricevuto dalla donna, non dal marito, dietro le disposizioni più favorevoli alla donna, il che si chiama il regime della separazione. Se non che, se è d’uopo che il reddito passi per le mani della moglie, il marito può tuttavia strapparglielo colla violenza, della quale non deve rendere nessun conto, nè è passibile di castigo, nè può essere forzato in verun modo a restituirlo. Tale è la protezione che le leggi dell’Inghilterra permettono ai membri della più alta nobiltà di dare alle loro figlie contro i loro mariti.
Nell’immensa maggioranza dei casi non v’è disposizione legale speciale; il marito assorbe tutto, i diritti, le proprietà, la libertà della donna. Il marito e la moglie non costituiscono che una sola persona legale; il che vuol dire che tutto quel che è della moglie è del marito, ma senza la reciprocità, tutto quel che è del marito è della moglie: quest’ultima massima non si applica all’uomo, se non per altro che per renderlo responsabile verso altrui delle azioni della sua moglie, come un padrone dell’operato dei suoi schiavi o del suo bestiame. Io sono ben lontano dal disconoscere che le donne sono in generale meglio trattate che non gli schiavi: ma non vi è schiavo la cui schiavitù vada così lungi quanto quella della donna. È raro che uno schiavo, a meno d’essere attaccato alla persona del padrone, sia schiavo a tutte l’ore ed in tutti i minuti: in generale, questi ha come il soldato il suo compito fisso; questo compito eseguito e fatto il suo servizio egli dispone fino ad una certa misura del suo tempo: ed ha una vita domestica nella quale il padrone penetra di rado. Lo Zio Tom, sotto il suo primo padrone aveva la sua famiglia in sua casa, quanto un operaio che lavora al di fuori può avere nel suo domicilio; non è altrettanto della sposa. Anzitutto; una donna schiava gode d’un diritto riconosciuto (nei paesi cristiani) v’è anzi per lei un dovere morale di negare i suoi ultimi favori al suo padrone: non è così della sposa; per quanto brutale e tiranno sia l’uomo al quale è incatenata, benchè se ne sappia odiata, ch’egli goda di torturarla di continuo, sebbene ella non possa assolutamente vincere una profonda avversione per lui, questo brutale può esigere da lei ch’ella si sottoponga all’ultima degradazione alla quale un essere umano possa discendere, forzandola a farsi suo malgrado lo strumento di una funzione animale. Se non che mentre ella è soggetta colla sua persona alla peggiore delle schiavitù, qual è la sua posizione verso i figli, oggetti di comune interesse per lei e pel suo padrone? In legge i figli sono del marito: egli solo ha sopra di loro dei dritti legali: ella non può far nulla per essi, nè intorno ad essi, senza esservi delegata dal marito; e perfino dopo la morte del marito, la donna non è la custode legale dei suoi figli, a meno ch’egli non l’abbia espressamente designata; egli poteva separarli da lei, impedirle di vederli, vietarle di corrispondere con essi, fino ad un’epoca recente in cui questo potere fu ristretto dalla legge. Ecco lo stato giuridico della donna, ella non ha mezzo di sottrarvisi: se ella abbandona il marito, ella non può portar nulla con lei, nè i suoi figli, nè alcuna cosa che sia pure di sua legittima proprietà: s’egli lo vuole, può in nome della legge costringerla a ritornare, può impiegare perciò la forza fisica, o limitarsi ad impadronirsi, per proprio uso e consumo, di tutto quello che ella può guadagnare o che le può essere fornito dai suoi parenti. Non v’è che un decreto giudiziario che possa autorizzarla a vivere separata, dispensarla dal rientrare sotto la guardia d’un carnefice esasperato, e farle facoltà d’applicare ai suoi propri bisogni i guadagni ch’ella può fare, senza il timore che un uomo, ch’ella non ha visto da vent’anni forse, le venga sopra, un bel giorno, a rapirle tutto quel che possiede. Fino a questi ultimi tempi le corti di giustizia non potevano decretare queste separazioni che al prezzo di spese enormi il che le rendeva inacessibili alli individui che non appartenevano ai più alti ranghi sociali. Oggi ancora la separazione non è accordata che pel caso d’abbandono, o per gli ultimi eccessi di cattivi trattamenti; e ancora si deplora ogni giorno ch’essa sia accordata troppo facilmente. Certamente, se la donna non ha che un destino per tutta la vita, quello d’essere la schiava di un despota, se tutto per lei dipende dal trovare uno che faccia di lei la sua favorita piuttosto che una sofferente, è un atroce aggravamento della sua sorte quella di non poter tentarla che una sola volta. Dappoichè tutto, nella vita, per lei dipende dal caso fortuito di trovare un buon padrone, sarebbe necessario ch’ella avesse il dritto di cangiare, eppoi ancora cangiare, fino a ch’ella l’avesse trovato. Non intendo dire che si debba conferirle questo privilegio. È un’altra questione. Non intendo entrare nella questione del divorzio, colla libertà d’un nuovo matrimonio. Mi limito a dire, adesso, che per quelli che non hanno altro destino che la servitù non v’ha altro mezzo di mitigazione di rigore, ed ancora è ben insufficiente, quello, cioè, di scegliersi liberalmente il loro padrone. Il diniego di questa libertà, completa l’assimilazione della donna allo schiavo, ed allo schiavo nella più dura servitù, poichè vi furono codici che in certi casi di dure sevizie accordavano allo schiavo, il diritto di costringere legalmente il padrone a venderlo. Ma in Inghilterra non v’è sevizia, per quanto ripetuta e grave, eccettuato che l’adulterio del marito venga ad aggravarla, che possa liberare una donna dal suo carnefice.
Io non voglio esagerare, nè ho bisogno di farlo. Ho descritto la condizione giuridica della donna, non il trattamento che le è realmente fatto. Le leggi della pluralità dei paesi sono peggiori delle persone che le applicano, e molte leggi debbono la loro durata all’infrequenza della loro applicazione. Se la vita coniugale fosse tutto quel che può essere, al punto di vista legale soltanto, la società sarebbe un inferno sulla terra. Fortunatamente, vi sono contemporaneamente dei sentimenti e degli interessi che presso molti uomini escludono, e presso la maggior parte moderano, gli impulsi e le tendenze che conducono alla tirannia: di tutti questi, il vincolo che unisce il marito a sua moglie è incorporabilmente il più forte; il solo che se ne avvicina, quello che attacca il padre ai suoi figli, tende sempre a restringere il primo non mai a rallentarlo. Ma perchè le cose vanno di questo passo, perchè gli uomini non fan subire alle donne tutti i martirii che potrebbero infligger loro, se usassero del pieno potere che hanno di tiranneggiarle, i difensori della forma attuale di matrimonio, s’immaginano che tutto quello che ha d’iniquo è giustificato, e che i lamenti che se ne fanno non sono che vane recriminazioni a proposito di un male largamente compensato dal bene. Ma i temperamenti che la pratica concilia, con la conservazione severa di una data forma di tirannia, in luogo di farne l’apologia, non servono che a dimostrare la forza colla quale la natura umana reagisce contro le istituzioni più vergognose, e la vitalità colle quali i sensi del bene, commisti a quelli del male, nella umana tempra si diffondono e propagano. Tutto quanto si può dire del dispotismo domestico, vale pel dispotismo politico. Tutti i re assoluti non si mettono mica al balcone per ricrearsi coi gemiti dei loro sudditi che si torturano, non tutti li spogliano degli ultimi brandelli delle loro vesti per mandarli poi a gelare sulla pubblica via. Il dispotismo di Luigi XVI non era quello di Filippo il Bello, di Nadir-Schah o di Calligula, ma era abbastanza cattivo per ispiegare la rivoluzione francese e farne scusare fino ad un certo punto gli orrori. Indarno si invoca il possente attaccamento di alcune mogli pei loro mariti; si potrebbero anche citare degli esempii cavati dalla schiavitù domestica. Nella Grecia, come a Roma, non era infrequente il caso di schiavi che perivano nei tormenti anzichè tradire i loro padroni. Durante le proscrizioni che seguirono le guerre civili dei romani si è notato che le donne e gli schiavi erano fedeli fino all’eroismo, mentre i figli sovente erano traditori. E tuttavia sappiamo con quanta crudeltà i romani trattavano i loro schiavi. Ma si può con ogni verità asseverare che, questi pronunciatissimi sentimenti individuali non raggiungono la loro massima bellezza altrove che sotto le istituzioni più atroci. È l’ironia della vita, che i più energici sentimenti di riconoscenza e di devozione, di cui la natura umana sia suscettibile, si sviluppino in noi verso quelli che, potendo annichilare la nostra terrena esistenza, se ne astengono. Sarebbe crudeltà l’indagare qual posto occupa spesso questo sentimento nella stessa devozione religiosa. Abbiamo sovente opportunità di osservare che ciò che sviluppa maggiormente la riconoscenza degli uomini verso Dio è la vista di quei loro simili, per i quali Egli non si è mostrato benigno quanto a loro stessi.
Qualunque sia l’istituzione dispotica che si vuol difendere, la schiavitù, l’assolutismo politico, o l’assolutismo domestico, si pretende costantemente che sia giudicato sugli esempi più favorevoli. Ci si spiegano dinnanzi quadri edificanti nei quali, la tenerezza della sommissione risponde alla sollecitudine dell’autorità, nei quali un savio padrone dispone tutto per il bene e per il meglio dei subordinati, e vive circondato di benedizioni. Tutto questo sarebbe a proposito, se noi pretendessimo sostenere che non vi siano uomini onesti. Chi mai pone in dubbio che il governo assoluto di un uomo virtuoso non possa produrre una somma di felicità pei governati, e trovare in questi una immensa gratitudine? Ma le leggi sono fatte, e debbono farsi, in vista degli uomini cattivi. Il matrimonio non è una istituzione fatta per un piccol numero di eletti. Non si domanda all’uomo, prima del matrimonio, se si possa guarentirsi ch’egli eserciterà nei debiti onesti modi, il potere assoluto. I vincoli d’affetto e di dovere che uniscono il marito alla moglie ed ai figli sono fortissimi, per coloro che sentono fortemente la responsabilità, ed anche per un gran numero di quelli che non sono guari sensibili agli altri doveri sociali. Ma vi sono tutte le gradazioni di misura nel sentimento di questi doveri, come si trovano tutti i gradi di bontà e di scelleraggine, discendendo fino agli individui che nulla rispettano e sui quali la società non ha che l’ultima ratio, le penalità decretate dalla legge. In tutti i gradi di questa scala discendente vi sono uomini investiti dei poteri assoluti e legali del marito. Il più vile malfattore ha una donna infelice, sulla quale può commettere tutte le atrocità, salvo l’assassinio, e s’egli è destro, può anche farla perire senza incorrere castigo legale. Quante migliaia d’individui vi sono nelle basse classi d’ogni paese, che senza essere malfattori al punto di vista della legge, perchè le loro prepotenze incontrano dappertutto degli ostacoli, si abbandonano a tutti gli eccessi della violenza sulla misera donna, che sola, coi suoi figli, non può nè respingere la loro brutalità, nè sottrarvisi! L’eccesso della dipendenza in cui la donna è ridotta, ispira a queste nature ignobili e selvagge, non già generosità e sentimento d’onore di ben trattare colei la cui sorte è tutta affidata alla loro benevolenza, ma al contrario ispira loro l’idea che la legge l’ha data in loro balia, come una cosa, per usarne a discrezione, e li ha dispensati verso di lei dai riguardi che debbono alle altre persone. La legge che, ancora recentemente, non tentava neppur quasi di punire questi uggiosi eccessi d’oppressione domestica, ha fatto in questi ultimi anni, dei deboli sforzi per reprimerli. Essi diedero pochissimi risultati, e non si deve aspettarsene di più, perchè è contrario alla ragione ed all’esperienza che si possa metter freno alla brutalità lasciando la vittima nelle mani del carnefice. Fino a che una condanna per vie di fatto, o se si vuole per una recidiva, non darà alla donna, ipso facto, diritto al divorzio, od almeno alla separazione giudiziaria, tutti gli sforzi per reprimere le «sevizie gravi» con penalità, rimarranno senza effetto, per mancanza d’un querelante e d’un testimonio.
Che se si considera il numero immenso di uomini, che, in tutti i paesi, non s’innalzano guari al disopra dei bruti, se si pensa, che nulla impedisce loro di entrare, per mezzo del matrimonio, in possesso di una vittima, si vedrà quale spaventoso abisso di miseria si scava, sotto questa sola forma. Tuttavia non sono questi che i casi estremi, le ultime voragini, ma prima di arrivarvi, quante tetre gole in sul pendio! Nella tirannia domestica al par che nella politica, i mostri provano quanto valga l’istituzione: da essi s’impara che non v’è orrore che non si possa commettere sotto questo regime se il despota vuole, e si calcola con esattezza la spaventosa frequenza dei delitti meno atroci. I demonii sono rari nella specie umana al par degli angeli, più rari forse; ma è frequentissimo di vedere feroci selvaggi suscettibili di accessi di umanità; e negl’intervalli che li separano dai nobili rappresentanti dell’umana specie, quante forme, quante gradazioni nelle quali la bestialità e l’egoismo si nascondono sotto una vernice di civiltà e di coltura! Gl’individui vi vivono in pace colle leggi; essi si presentano con un’esteriore rispettabile a tutti quelli che non sono in loro potere; ma hanno però abbastanza cattiveria da rendere, a quelli che vi sono, intollerabile la vita. Sarebbe noioso ripetere qui tutti i luoghi comuni sull’incapacità degli uomini in generale all’esercizio del potere; dopo secoli di politiche discussioni, tutti li sanno a memoria, ma niuno pensa ad applicare queste massime al caso al quale calzano, più che a tutti gli altri, ad un potere che non è affidato ad un uomo od a parecchi, ma a tutti gli adulti del sesso maschile fino al più vile, ed al più feroce. Poichè un uomo non è in voce d’aver violato uno dei dieci comandamenti, e che gode di buona riputazione presso quelli che non può forzare ad avere relazione con lui, o che non gli sono sfuggiti violenti trasporti contro quelli che non sono in debito di sopportarlo, non è per questo possibile di presumere la condotta ch’egli terrà in sua casa, quando vi sarà assoluto padrone. Gli uomini i più volgari, riservano il lato violento, triste, apertamente egoista del loro carattere per quelli che non possono loro resistere. Il rapporto del superiore al subordinato è il semenzaio di questi vizi di carattere: dovunque essi sono, cavano di là il loro sugo. Un uomo violento e tristo coi suoi eguali, è certamente un uomo che ha vissuto fra inferiori che poteva dominare col timore e colle vessazioni. Se la famiglia è, come spesso si dice, una scuola di simpatia, di tenerezza, di una affettuosa dimenticanza di sè stesso, è ancora, più spesso, pel suo capo, una scuola di testardaggine, d’arroganza, d’abbandono senza confine, e d’un egoismo raffinato ed idealizzato di cui il sacrificio non è esso stesso che una forma particolare, dappoichè non s’interessa alla moglie ed ai figli se non perchè sono parte delle sue proprietà, e sacrifica in tutti i modi la loro felicità alle sue minime preferenze. Che cosa aspettarci di meglio dall’attuale forma dell’unione coniugale? Noi sappiamo che le prave tendenze dell’umana natura non restano nei loro limiti se non quando non possono scorazzare all’aperto. Si sa che per un’inclinazione ed un’abitudine, se non deliberatamente, ognuno, quasi, usurpa sopra colui che cede fino a forzarlo alla resistenza. Gli è in presenza di queste tendenze dell’umanità, che le nostre attuali istituzioni, danno all’uomo un potere presso a poco illimitato sopra un membro dell’umanità, quello col quale dimora, che ha sempre con lui. Questo potere va a cercare i germi latenti dell’egoismo nelle pieghe più recondite del cuore dell’uomo, vi rianima le più deboli scintille, soffia sul fuoco che covava e rallenta le briglie a degli istinti che, in altre circostanze, l’uomo avrebbe sentito il dovere di reprimere e di dissimulare al punto di farsi col tempo una seconda natura. So che v’ha il rovescio della medaglia; riconosco che se la donna non può resistere, gli restano almeno delle rappresaglie: ella ha il potere di rendere infelice la vita dell’uomo e ne approfitta per far prevalere la sua volontà in molte cose nelle quali ha ragione ed in molte altre in cui avrebbe torto. Ma questo istrumento di protezione personale, che si potrebbe chiamare la potenza del gridio, la sanzione del malumore, ha un vizio fatale; ed è che serve per lo più contro i padroni meno tirannici ed a favore dei subordinati meno degni. È l’arma delle donne iraconde e passionate che farebbero il peggior uso del potere, se l’avessero, e che fanno mal uso del potere che usurpano. Le donne d’indole dolce non possono ricorrere a quest’arma e quelle che hanno l’animo elevato la sdegnano. D’altro lato i mariti contro i quali si impiega con maggior successo sono i più miti ed innocui, quelli che per nessuna provocazione si risolverebbero a far uso severo della loro autorità. Il potere che ha la donna di riescire sgradita ha per effetto generale d’impiantare una controtirannia, e di fare delle vittime nell’altro sesso esercitandosi, sopratutto, sui mariti meno inclinati a divenir tiranni.
Che cosa dunque modera realmente gli effetti corruttori del potere e li rende compatibili colla somma di bene che vediamo intorno a noi? Le carezze femminili, che possono avere grande efficacia nei casi particolari, ne hanno assai poca per modificare le tendenze generali della situazione. Infatti questa efficacia dura soltanto finchè la donna è giovine ed attraente, o finchè l’attrattiva è recente e non ancora surrogata dalla famigliarità; poi vi son molti uomini sui quali questi mezzi non hanno mai molta influenza. Le forze che contribuiscono realmente ad addolcire l’istituzione sono l’affetto personale prodotto dalla convivenza, nella misura che la natura dell’uomo è capace di concepire, od il carattere della donna è capace d’ispirare per reciproca omogeneità: i comuni interessi riguardo ai figli, ed altri interessi comuni, ma passibili di gran restrizioni, riguardo ai terzi; l’importanza dalla parte della donna per abbellire la vita dell’uomo: il valore che il marito riconosce nella moglie, al suo punto di vista personale, che in un uomo generoso diviene la ragione dell’affetto ch’egli le porta per lei stessa; l’influenza acquisita su quasi tutti gli esseri umani da quelli che li avvicinano, che, se non isgradiscono, possono insieme e colle preghiere, e coll’inconscia comunicazione dei loro sentimenti e disposizioni ottenere sulla condotta dei loro superiori un impero eccessivo ed irrazionale, a meno di essere contro-bilanciati da altra influenza diretta. Gli è per queste diverse vie che la donna giunge spesso ad esercitare un potere esorbitante sull’uomo e ad influenzare la sua condotta nelle cose, pur anco, nelle quali ella è incapace a farlo pel meglio, nelle quali la sua influenza può, non solo, mancare di lumi, ma impiegarsi in favore di una causa intrinsecamente cattiva, quando l’uomo agirebbe meglio se lasciato alle sue proprie tendenze. Ma nella famiglia al par che nello stato, il potere non può sostituire la libertà. La potenza che la donna esercita sul marito le dà sovente quel che non ha nessun diritto d’avere, mentre non le dà i mezzi d’assicurarsi i suoi proprii diritti. La schiava favorita di un sultano, possiede ella stessa a sua posta degli schiavi che ella tiranneggia: sarebbe assai meglio che non ne avesse e che non fosse schiava ella stessa. Assorbendo la sua propria esistenza in quella del marito, non avendo volontà alcuna, o persuadendogli ch’ella non vuole che quel che egli vuole nelli affari comuni, ed impiegando tutta la sua vita ad agire in questo senso, ella può darsi la soddisfazione d’influenzare e probabilmente pervertire la sua condotta in affari, nei quali ella non si è messa mai a portata di poter giudicare, o nei quali ella è totalmente dominata da motivi personali o da qualche pregiudizio. Conseguentemente nell’attuale ordine di cose quelli, che si comportano compiacentemente colle loro mogli, sono altresì tanto facilmente corrotti, quanto rafforzati nel bene dall’influenza loro, per ciò che concerne gl’interessi che si estendono fuori della famiglia. Si è insegnato alla donna che ella non deve occuparsi delle cose situate fuori della sua sfera: ella non ha, perciò, che assai di rado un’opinione illuminata e coscienziosa intorno a quelle: per conseguenza ella non se ne preoccupa giammai in uno scopo legittimo, e non vi tocca guari che per uno scopo interessato. In politica ella ignora da qual parte è il diritto, e non se ne cura, ma ella sa ciò che può procurare a suo marito una dignità, a suo figlio un posto, a sua figlia un buon collocamento.
Ma, si domanderà, come mai una società può sussistere senza un governo? In una famiglia, al par che in uno stato, dev’esservi una persona che comanda, una volontà che prevale e che decide quando i congiunti differiscono d’opinione: non può l’uno camminare a diritta e l’altro a mancina, è d’uopo prendere un partito.
Non è vero che, in tutte le associazioni volontarie di due persone, l’una debba essere padrona assoluta, meno ancora è la legge competente a determinare quale sarà. Dopo il matrimonio, la forma d’associazione che si vede più sovente è la società commerciale. Non si giudica necessario di determinare per legge che, in tutte le società, uno degli associati avrà tutta la direzione degli affari e che gli altri saranno obbligati ad obbedire ai suoi ordini. Niuno vorrebbe entrare nella società, nè sobbarcarsi alla responsabilità che pesa su un capo, non conservando che il potere d’un impiegato e d’un agente. Se la legge intervenisse in tutti i contratti, come nel contratto di matrimonio, ella ordinerebbe che uno degli associati amministrasse gli affari comuni come se fosse il solo interessato, che gli altri associati non avessero che poteri delegati, e che il capo, determinato da una disposizione generale della legge, fosse, per esempio, il decano di età. La legge non ha mai fatto nulla di simile, e l’esperienza non ha mai mostrato la necessità di stabilire una disuguaglianza teorica fra gli associati, nè d’aggiungere altre condizioni a quelle che gli associati convengono essi stessi negli articoli del loro statuto. Si può credere tuttavia che lo stabilimento di un potere assoluto sarebbe di minor pericolo pei diritti e gl’interessi degli interessati in una società commerciale che nel matrimonio, dappoichè gli associati rimangono liberi di annullare il potere ritirandosi dall’associazione. La donna non ha questa libertà, e l’avesse anche, è sempre a desiderare ch’ella tenti tutti i mezzi prima di ricorrervi.
È perfettamente vero che le cose che devono decidersi tutti i giorni non possono accomodarsi poco a poco aspettando un compromesso, dovendo dipendere da una sola volontà, una persona sola deve tagliar corto in queste questioni. Ma non ne consegue che questa persona sia sempre la stessa. V’è un modo naturalissimo di accomodamento, ed è la divisione dei poteri fra i due associati, per il quale ciascuno ha la direzione assoluta della sua partita, e nel quale ogni cangiamento di sistema e di principio esiga il consenso dei due. La divisione non deve, nè può essere prestabilita dalla legge, poichè deve dipendere dalle capacità individuali; se i due congiunti lo preferiscono, essi possono stabilirle anticipatamente nel contratto nuziale, come vi si regolano attualmente le questioni di denaro. Di rado vi sarebbero difficoltà in questi accomodamenti presi di comune accordo, eccettuato in quei casi deplorabili nei quali tutto diviene argomento di litigio e di contesa fra gli sposi. La divisione dei diritti deve naturalmente seguire la divisione dei doveri e delle funzioni, e questo già si fa di comune consenso, dalla legge in fuori, dietro il costume che il beneplacito delle persone interessate può modificare ed infatti modifica.
La decisione reale degli affari dipenderà sempre, come ora stesso dipende, dalle attitudini relative, qualunque sia il depositario dell’autorità. Perciò solo che il marito è d’ordinario più attempato della moglie, egli avrà più sovente la preponderanza, almeno, finchè giungano l’uno e l’altra a quell’epoca della vita nella quale la differenza degli anni non ha più nessuna importanza. Vi sarà poi sempre ancora una voce preponderante dal lato, qual ch’esso sia, che fornisce i mezzi di sussistenza. La disuguaglianza prodotta da questa cagione non dipenderebbe allora più dalla legge del matrimonio ma dalle condizioni generali della società umana, qual è al presente costituita. Una superiorità mentale dovuta al complesso delle facoltà, od a cognizioni speciali, una decisione di carattere più marcata, devono necessariamente avere grande influenza. Le cose camminano già oggi di questo passo, e questo fatto prova, quanto siano poco fondati i timori che non possano in modo soddisfacente dividersi i poteri e le responsabilità degli associati negli affari. Le parti s’intendono sempre in questa divisione, eccettuato nel caso in cui il matrimonio è un affare fallito.
Nella pratica non si vede il potere tutto da una banda e l’obbedienza tutta dall’altra, se non in quelle unioni che sono l’effetto di un errore completo e nelle quali sarebbe una benedizione per ambo le parti l’essere sgravate dal loro fardello. Si verrà a dirmi, che ciò che rende possibile un accomodamento si è che l’una parte tiene in riserva il potere di usare l’autorità e che l’altra lo sa; in quel modo che si si sottomette ad una decisione d’arbitri perchè si vede loro dietro le spalle una corte di giustizia che può forzare ad accettarla. Ma per rendere l’analogia più completa bisognerebbe supporre che la giurisprudenza delle corti non debba esaminare l’affare, ma semplicemente dar la sentenza sempre in favore della parte medesima, il reo per esempio. Allora, la competenza di queste corti sarebbe pel querelante un motivo d’accomodarsi dietro la decisione d’un arbitro qualunque, ma tutto il contrario accadrebbe del reo. Il potere dispotico che la legge dà al marito può bene essere una ragione perchè la donna acconsenta ad ogni compromesso che divida il potere fra lei ed il marito, ma non perchè il marito vi acconsenta. Presso le persone oneste, havvi un compromesso reale senza che l’uno dei due congiunti vi sia costretto moralmente o fisicamente, e questo prova che, i motivi naturali che menano alla conclusione volontaria d’un accomodamento per regolare la vita delli sposi in modo tollerabile per l’uno come per l’altro, prevalgono in definitiva, eccettuato nei casi sfavorevoli. Sicuramente non si migliora la situazione facendo decidere per legge che l’edificio di un governo libero si innalzerà sulla base legale del dispotismo a profitto di una parte, e della sommissione dell’altra; nè decretando che ogni concessione fatta dal despota potrà essere revocata secondo il suo beneplacito senza avvertimento. Oltre che una libertà non merita questo nome quando è così precaria, le sue condizioni hanno poca probabilità d’essere eque, quando la legge getta un peso così enorme nell’un bacino della bilancia, quando l’accomodamento stabilito fra due persone dà all’altra il diritto di far tutto ed all’altra nulla più che il dritto di far la volontà della prima, coll’obbligo morale e religioso di non rivoltarsi contro nessun eccesso d’oppressione.
Un avversario ostinato addossato ai suoi ultimi trinceramenti, dirà forse che i mariti vogliono pure fare delle concessioni convenienti alle loro associate, senza esservi costretti, mostrarsi insomma ragionevoli, ma che le donne non lo sono: che se si accordassero alle donne dei diritti, esse non ne riconoscerebbero a nessuno e che non cederebbero più in nulla, se non fossero più forzate dall’autorità dell’uomo a cedere in tutto. Qualche generazione indietro avrebbe contato molti uomini che l’avrebbero ragionata così; allora le satire sulle donne erano di moda e gli uomini credevano far dello spirito rimproverando oltraggiosamente le donne di essere quel ch’essi le avevano fatte. Ma oggi questo bel argomento non ha più per lui un oratore che meriti una risposta. L’opinione del giorno non è più che le donne sono, men che gli uomini suscettibili di buoni sentimenti e di considerazione per coloro ai quali sono unite coi più saldi legami. All’opposto, coloro che più si oppongono a che si trattino come se fossero buone al par degli uomini, ripetono continuamente che son migliori; questa confessione ha perfin finito per diventare una formula fastidiosa ed ippocrita destinata a coprire un’ingiuria con una smorfia di complimento, che ci ricorda le lodi che, secondo Gulliver, il sovrano di Lilliput dava alla sua reale clemenza in capo ai suoi più sanguinarii decreti. Se le donne son migliori degli uomini in qualche cosa, è certamente per la loro abnegazione personale in favore dei membri della loro famiglia, ma non insisto su questo punto, perchè esse sono allevate a credersi nate e create per fare olocausto della loro persona. Io credo che l’eguaglianza toglierebbe a quest’abnegazione ciò ch’essa ha d’esagerato nell’ideale che si fa oggi del carattere delle donne, e che la migliore di esse non sarebbe più portata a sagrificarsi che il migliore degli uomini; ma d’altro lato gli uomini sarebbero meno egoisti e più disposti al sagrificio della loro persona che non oggidì, perchè non sarebbero allevati ad adorare la loro propria volontà, ed a credersi una cosa talmente ammirabile da essere in diritto di dar legge ad un altro essere ragionevole. L’uomo, niente impara così facilmente come ad adorare sè stesso; gli uomini e le classi privilegiate furono sempre così. Più si discende nella scala dell’umanità più questo culto è fervido: esso lo è sopratutto presso quelli che non possono innalzarsi che al disopra di una disgraziata donna e di alcuni fanciulli. Di tutte le umane infermità è quella che presenta meno eccezioni: la filosofia e la religione, in luogo di combatterla, divengono ordinariamente i suoi manutengoli; nulla vi si oppone fuorchè il sentimento d’eguaglianza degli esseri umani che fa la base del cristianesimo, ma che il cristianesimo non farà mai trionfare finchè apporrà la sua sanzione ad istituzioni fondate su una preferenza arbitraria di un membro dell’umanità ad un altro.
Vi sono senza dubbio delle donne, come pure degli uomini, che non andranno paghi dell’eguaglianza e coi quali non potrà esservi mai nè pace, nè tregua finchè la loro volontà regnerà sola e indivisibile. È sopratutto per questi che la legge del divorzio è buona. Desse non son fatte che per vivere sole, e nessuna creatura vivente dovrebbe essere costretta ad associare la sua vita alla loro. Se non che, invece di rendere rari questi caratteri, fra le donne, la subordinazione legale in cui vivono tende piuttosto a renderli frequenti. Se l’uomo pone in atto tutto il suo potere legale, la donna vi soccombe, ma se è trattata con indulgenza, se le si permette di afferrare il potere, niuno può porre un confine alle di lei usurpazioni. La legge non determina i suoi diritti; essa non gliene dà nessuno in principio, e l’autorizza quindi ad estenderli quanto può di fatto.
L’eguaglianza legale dei coniugati non è solamente l’unico mezzo pel quale i loro rapporti possano armonizzarsi secondo giustizia, e formare la loro felicità; non v’è eziandio altro modo di fare della vita quotidiana una scuola di educazione morale nel senso più elevato. Parecchie generazioni passeranno ancora forse, prima che questa verità sia generalmente ammessa, ma non è men vero, che la sola scuola del vero sentimento morale è la società fra eguali. L’educazione morale della società si è fatta fino ad oggi colla legge della forza, e non si è guari informata che alle relazioni create dalla forza. Nelle società degli stati meno avanzati, non si conoscono relazioni fra eguali; un eguale è un nemico. La società è dall’alto al basso una interminabile catena, o meglio una scala, sulla quale ciascun individuo è al disopra od al disotto del suo più prossimo vicino; dappertutto dove non comanda gli è giuoco-forza obbedire. Tutti i precetti morali in uso oggidì, contemplano principalmente i rapporti di padrone e servo. Eppure il comando e l’obbedienza non sono che disgraziate necessità della vita umana; lo stato normale della società è l’eguaglianza. Già a quest’ora nella vita moderna, e sempre più, mano mano che s’innoltra nella via del progresso, il comando e l’obbedienza divengono fatti eccezionali. L’associazione sul piede d’eguaglianza è la regola generale. La morale dei primi secoli si basava sull’obbligo di sottomettersi alla forza, più tardi ella si è basata sul diritto del debole alla tolleranza ed alla protezione del forte. Fino a quando una forma di società si accontenterà dessa della morale che conveniva ad un’altra? Abbiamo avuto la morale della servitù; abbiamo avuto la morale della cavalleria e della generosità; la volta della morale della giustizia è venuta. Dovunque la società ha camminato verso l’eguaglianza, nei primi tempi, la giustizia ha affermato i suoi diritti a servir di base alla virtù. Vedete le repubbliche libere dell’antichità. Ma nelle migliori pur anco l’eguaglianza non si estendeva che ai liberi cittadini: le donne, gli schiavi, i residenti non investiti del diritto di città erano retti dalla legge della forza. La doppia influenza della civiltà romana e del cristianesimo cancellò queste distinzioni, ed in teoria, se non del tutto in pratica, proclamò che i dritti dell’essere umano sono superiori ai diritti di sesso, di classe e di posizione sociale. Le barriere che cominciarono ad abbassarsi furono risollevate dalla conquista dei barbari; e tutta la società moderna non è che una serie di sforzi per demolirle. Noi entriamo in un ordine di cose in cui la giustizia sarà di nuovo la prima virtù, fondata come prima sull’associazione delle persone eguali unite dalla simpatia, associazione che non avrà più la sua sorgente nell’istinto della conservazione personale, ma in una simpatia illuminata, dalla quale niuno sarà più escluso, ma nella quale tutti saranno ammessi sul piede d’eguaglianza. Non è cosa nuova che l’umanità non preveda le proprie trasformazioni, e non s’accorga che i suoi sentimenti convengono al passato e non al futuro. Vedere l’avvenire della specie è stato sempre privilegio di pochi eletti fra gli uomini colti, o di quelli che da loro furono ammaestrati. Sentire come le generazioni dell’avvenire, ecco ciò che fa la superiorità e d’ordinario il martirio di una eletta ancor meno numerosa. Le istituzioni, i libri, l’educazione, la società, tutto prepara gli uomini per l’antico regime, lungo tempo dopo che il nuovo è già comparso; a più forte ragione quando non è per anco venuto. Ma la vera virtù degli esseri umani è l’attitudine a vivere insieme siccome eguali, senza reclamare per sè cosa alcuna che non sia parimente accordata ad ogni altro; a considerare il comando, qual che ne sia la natura come una necessità eccezionale, ed in tutti i casi, temporaria; a preferire possibilmente la società di quelli fra i quali il comando e l’obbedienza si esercitano alternamente e per turno. Nella vita tal quale è costituita nulla coltiva queste virtù esercitandole. La famiglia è una scuola di dispotismo dove, le virtù del dispotismo, ed i suoi vizi ancora, sono copiosamente nudriti. La vita politica nei liberi stati sarebbe una scuola d’eguaglianza, ma la vita politica non occupa che una piccola parte della vita moderna, non penetra nelle abitudini giornaliere e non raggiunge i sentimenti più intimi. La famiglia costituita sopra basi giuste sarà la vera scuola delle libere virtù. Sarà sempre una scuola di obbedienza pei figli e di comando pei genitori. Ciò che fa d’uopo eziandio si è ch’essa sia scuola di simpatia nell’eguaglianza, di vita comune nell’amore, e dove il potere non sia tutto da un lato e l’obbedienza tutta dall’altro. Ecco ciò che vuol essere la famiglia pei parenti. Vi si imparerebbero allora le virtù che fanno d’uopo nelle altre associazioni; i figli vi troverebbero un modello dei sentimenti e della condotta che devono loro divenir naturali ed abituali, e che si cerca d’inculcar loro durante il periodo della loro educazione. L’educazione morale della specie non si adatterà mai alle condizioni del genere di vita, al quale tutti i progressi non sono che preparazione, finchè nella famiglia non si obbedirà alla stessa legge morale che normalizza la costituzione morale della umana società. Il sentimento di libertà quale può trovarsi in un uomo che ripone i suoi più vivi affetti sulle creature delle quali è assoluto padrone, non è l’amor vero e l’amor cristiano della libertà è l’amore della libertà tal quale esisteva generalmente presso gli antichi e nel Medio Evo, è un sentimento intenso della dignità e dell’importanza della propria personalità che fa sembrar degradante per sè un giogo, che non ispira orrore per sè medesimo e che si è dispostissimi ad imporre alli altri pel proprio interesse e per soddisfare la propria vanità.
Io son disposto ad ammettere, ed è su questo che fondo le mie speranze, che molte persone coniugate sotto la legge attuale e probabilmente la maggioranza nelle classi superiori, vivono secondo le leggi d’eguaglianza e di giustizia. Le leggi non si migliorerebbero mai, se non vi fossero molte persone i cui morali sentimenti valgono assai meglio delle leggi in vigore; queste persone dovrebbero appoggiare i principi ch’io qui difendo, e che hanno per solo obietto di condurre tutte le umane coppie ad assomigliarli. Ma benchè ricchi di un gran valore morale, se non si è in pari tempo forniti di uno spirito filosofico, si è tratti di leggeri a credere che le leggi e le consuetudini di cui non si sono personalmente subiti gli effetti funesti non producono alcun male, ch’esse producono probabilmente del bene, dacchè sembrano ottenere il generale consenso, e che altri ha torto di trovarvi a ridire. Questi non pensano una volta all’anno alle condizioni legali del vincolo che li unisce. Essi vivono e sentono come fossero, su tutti i punti di vista, eguali agli occhi della legge. Esse avrebbero però torto di credere che lo stesso avvenga di tutte le unioni nelle quali il marito è un miserabile finito. Sarebbe mostrare tanta ignoranza della natura umana quanto della realtà della vita. Meno un uomo è fatto pel possesso dell’autorità, meno ha probabilità di esercitarla sopra qualcuno col suo spontaneo consenso, e più si felicita del potere che la legge gli dà, e più esercita i suoi diritti legali con tutto il rigore che comporta il costume (costume dei suoi pari) e più prende piacere nell’impiego del suo potere a ravvivare il gradito senso del possederlo. V’ha di più, in quella parte delle classi inferiori nella quale l’originaria brutalità si è meglio conservata, e la più sfornita di morale educazione, la legale schiavitù della donna e la sua obbedienza passiva, quasi strumento inerte alla volontà del marito, ispira a questi una sorta di disprezzo, ch’egli non prova per un’altra donna nè per un’altra persona, e che gli fa considerare sua moglie come un oggetto fatto e nato per subire ogni specie d’indegnità. Che un uomo capace di osservare, e che si trova a portata di farlo, venga a smentirci, ma s’egli vede le cose al par di noi, non si meravigli del ribrezzo e dell’indignazione che possono ispirare istituzioni che conducono l’uomo ad un grado simile di depravazione.
Ci si dirà forse che la religione impone il dovere dell’obbedienza. Quando una cosa è troppo manifestamente cattiva perchè non si possa in nessun modo giustificare, ci si viene invariabilmente a dire ch’essa è prescritta dalla religione. La Chiesa, è vero, prescrive l’obbedienza nei suoi formulari; ma sarebbe assai difficile far sortire questo precetto dal cristianesimo. Ci si grida che S. Paolo ha detto: «Donne state soggette ai vostri mariti;» ma egli ha anche detto agli schiavi: «Obbedite ai vostri padroni.» Il cômpito di S. Paolo non era di spingere alla rivolta contro le leggi esistenti; istigazioni di tal natura non convenivano al suo scopo, la propagazione del Cristianesimo. Ma dacchè l’Apostolo accettava le istituzioni sociali come le trovava, non ne consegue ch’egli fosse per disapprovare tutti gli sforzi che si fossero potuti fare in tempo utile per migliorarle, come la sua dichiarazione «ogni potere viene da Dio» non sancisce il dispotismo militare, non riconosce questa forma di governo come sola cristiana e non comanda l’obbedienza assoluta. Pretendere che il cristianesimo avesse per iscopo di stereotipare tutte le forme di governo e di società allora esistenti, è abbassarlo al livello dell’Islamismo e del Braminismo. È appunto perchè il Cristianesimo non ha fatto questo, che divenne la religione progressiva dell’umanità e che l’Islamismo, il Braminismo e le religioni analoghe furono le religioni della parte immobile o piuttosto retrograda, poichè non havvi società veramente stazionaria. In tutte le epoche del Cristianesimo vi furono molti che tentarono di farne qualche cosa che rassomigliasse a quelle religioni immobili, per fare dei cristiani degli arnesi di gusto musulmano colla Bibbia per Corano: costoro godettero immenso potere, e molti uomini dovettero sagrificare la vita per resistere loro: ma si è loro resistito, e la resistenza ci ha fatti quel che siamo e ci farà quel che dobbiamo essere.
Dopo ciò che esponemmo intorno all’obbligo dell’obbedienza, è press’a poco superfluo di nulla aggiungere sul punto accessorio di questa gran questione, sul diritto che ha la donna di disporre de’ suoi beni. Io non mi lusingo che questo scritto faccia qualche impressione sopra coloro, ai quali bisognerebbe dimostrare che i beni che una donna eredita, o che sono il prodotto del di lei lavoro, debbono appartenerle dopo il suo matrimonio, non meno di quel che le appartenessero prima. La regola è semplice; tutto che sarebbe proprietà del marito o della moglie fuori del matrimonio, rimane sotto la loro esclusiva direzione nel matrimonio. Ciò non vieta loro di vincolarsi mediante speciale accomodamento onde conservare i loro beni ai loro figli. V’hanno persone il cui sentimento è urtato dal pensiero d’una separazione di beni, come da una negazione dell’idea del matrimonio, la fusione di due vite in una. Per conto mio, io parteggio energicamente quanto chicchessia per la comunione dei beni, quando questa risulta fra i proprietari da una intera unità di sentimenti che fa tutto comune fra loro. Ma non ho però nessun gusto per la dottrina, in forza della quale, ciò che è mio è tuo, senza che quel che è tuo sia mio; io non vorrei saperne di un simile trattato con chicchessia quand’anche dovesse stipularsi a mio profitto.
L’ingiustizia di questo genere di oppressione che gravita sulla donna è generalmente riconosciuto, si può porvi rimedio senza toccare alli altri punti della questione e non v’ha dubbio che non sia la prima a cancellarsi. Già a quest’ora in molti stati nuovi ed in parecchi degli antichi stati della Confederazione Americana, si è messo, non nella legge soltanto, ma altresì nella costituzione, delle disposizioni che assicurano alle donne gli stessi diritti che agli uomini, da questo punto di vista, e migliorano nel matrimonio la condizione delle donne che posseggono, lasciando nelle loro mani un istrumento potente del quale non si spogliano maritandosi. Rimane con ciò impedito che, con abuso scandaloso del matrimonio, un uomo s’impadronisca dei beni di una fanciulla persuadendola a sposarlo senza contratto. Quando il mantenimento della famiglia viene non dalla proprietà ma dal guadagno, mi pare che la divisione più conveniente del lavoro fra i due sposi è quella che secondo l’uso comune incarica l’uomo di guadagnare il reddito e la donna di dirigere la domestica economia. Se alla pena fisica di fare dei figli, e tutta la responsabilità delle cure ch’essi richieggono e della loro educazione nei primi anni, la donna aggiunge il dovere d’applicare accuratamente al bene della famiglia i guadagni del marito, ella piglia a suo carico una buona parte e d’ordinario la più grave dei lavori di corpo e di spirito che richiede l’unione coniugale. S’ella assume altri incarichi, ella depone questi di rado, ma non fa che porsi nella impossibilità di ben adempirli. La cura, ch’ella si rende incapace di prendere dei figli e della casa, nessun’altri se la piglia; quelli dei figli che non muoiono, crescono come possono, e la direzione della casa è così cattiva che, arrischia di trascinare perdite maggiori di quel che la donna non faccia guadagni. Non è dunque a desiderarsi, secondo me, che in una equa divisione di parti, la donna contribuisca col suo lavoro a creare il reddito della famiglia. In uno stato ingiusto di cose gli può esser utile di contribuirvi, poichè questo rialza il suo valore agli occhi dell’uomo suo padrone legale: ma d’altro lato questo permette meglio al marito di abusarne forzandola al lavoro, e lasciandole la cura di provvedere ai bisogni della famiglia co’ suoi sforzi mentr’egli passa la maggior parte del tempo a bere e non far nulla. È essenziale alla dignità della donna ch’ella possa guadagnare s’ella non ha una proprietà indipendente, quand’anche non dovesse usarne mai. Ma se il matrimonio fosse un contratto equo, non implicante l’obbligo dell’obbedienza; se l’unione cessasse d’essere forzata e d’opprimere quelli pei quali essa non è che un male; se una separazione equa (del divorzio non parlo) potesse essere ottenuta da una donna che ne avesse realmente il diritto, e se questa donna potesse allora trovare ad impiegarsi così decorosamente quanto l’uomo, non sarebbe allora necessario per la sua guarentigia che durante il matrimonio ella potesse usare di questi mezzi. Come un uomo sceglie una professione, così è da presumersi che una donna maritandosi sceglie la direzione d’una casa e l’educazione d’una famiglia, come scopo principale del suo lavoro per tutti quegli anni di sua vita che occorrono all’esecuzione di questo compito, e ch’ella rinuncia non già a tutte le altre occupazioni, ma a tutte quelle che sono incompatibili colle esigenze di queste. Ecco la ragione che interdice alla pluralità delle donne maritate l’esercizio abituale e sistematico di una occupazione che le chiama al di fuori, e che non può essere compita nelle loro case. Ma è d’uopo lasciare le regole generali, addattarsi liberamente alle attitudini particolari, e nulla deve impedire alle donne dotate di facoltà eccezionali o speciali d’obbedire alla loro vocazione, nonostante il matrimonio, purchè riparino alle lacune che potrebbero prodursi nel compimento delle loro funzioni ordinarie di padrone di casa. Se l’opinione si occupasse una volta di questa questione, nessun inconveniente vi sarebbe a lasciargliela normalizzare senza che la legge dovesse intervenirvi.