La scienza nuova seconda/Libro secondo/Prolegomeni/Introduzione
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[INTRODUZIONE]
361Per ciò che sopra si è detto nelle Degnitá: che tutte le storie delle nazioni gentili hanno avuto favolosi principi, e che appo i greci (da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbiamo dell’antichitá 1gentilesche)i primi sappienti furon i poeti teologi, e la natura delle cose che sono mai nate o fatte porta che sieno rozze le lor origini; tali e non altrimenti si deono stimare quelle della sapienza poetica. E la somma e sovrana stima con la qual è fin a noi pervenuta, ella è nata dalle due borie nelle Degnitá divisate, una delle nazioni, l’altra de’ dotti, e piú che da quella delle nazioni ella è nata dalla boria de’ dotti, per la quale, come Manetone, sommo pontefice egizio, portò tutta la storia favolosa egiziaca ad una sublime teologia naturale, come dicemmo nelle Degnitá, cosí i filosofi greci portarono la loro alla filosofia. Né giá solamente per ciò — perché, come sopra pur vedemmo nelle Degnitá, erano loro entrambe cotal’istorie pervenute laidissime, — ma per queste cinque altre cagioni.
382La prima fu la riverenza della religione, perché con le favole furono le gentili nazioni dappertutto sulla religione fondate. La seconda fu il grande effetto indi seguito di questo mondo civile, si sappientemente ordinato che non potè esser effetto che d’una sovraumana sapienza. La terza furono l’occasioni che, come qui dentro vedremo, esse favole, assistite dalla venerazione della religione e dal credito di tanta sapienza, dieder a’ filosofi di porsi in ricerca e di meditare altissime cose in filosofia. La quarta furono le comoditá, come pur qui dentro farem conoscere, di spiegar essi le sublimi da lor meditate cose in filosofia con l’espressioni che loro n’avevano per ventura lasciato i poeti. La quinta ed ultima, che val per tutte, per appruovar essi filosofi le cose da essolor meditate con l’autoritá della religione e con la sapienza de’ poeti. Delle quali cinque cagioni le due prime contengono le lodi, l’ultima le testimonianze, che, dentro i lor errori medesimi, dissero i filosofi della sapienza divina, la quale ordinò questo mondo di nazioni; la terza e quarta sono inganni permessi dalla divina provvedenza ond’essi provenisser filosofi per intenderla e riconoscerla, qual ella è veramente, attributo del vero Dio.
363E per tutto questo libro si mostrerá che quanto prima avevano sentito d’intorno alla sapienza volgare i poeti, tanto intesero poi d’intorno alla sapienza riposta i filosofi; talché si possono quelli dire essere stati il senso e questi l’intelletto del gener umano. Di cui anco generalmente sia vero quello da Aristotile detto particolarmente di ciascun uomo: «Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu», cioè che la mente umana non intenda cosa, della quale non abbia avuto alcun motivo (ch’i metafisici d’oggi dicono «occasione») da’ sensi, la quale allora usa l’intelletto quando, da cosa che sente, raccoglie cosa che non cade sotto de’ sensi; lo che propiamente a’ latini vuol dir «intelligere».