La scienza moderna e l'anarchia/Parte prima/XII

Il Fourierismo

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Fourier, contemporaneo della Grande Rivoluzione, non viveva più all'epoca della fondazione dell'Internazionale. Ma le sue idee erano state così bene popolarizzate dai suoi seguaci – sopratutto da Considérant col dare ad esse una certa autorità scientifica – che, scientemente o no, le menti più sagaci dell'Internazionale subivano l'influenza del fourierismo1.

Bisogna nondimeno rilevare, per comprendere l'influenza del fourierisrno in quegli anni, che l'idea dominante di Fourier non era quella dell'Associazione del Capitale, del Lavoro e dell'Ingegno per la produzione delle ricchezze, la quale si trova sempre messa in prima linea nei libri di storia del socialismo. Il suo scopo principale era di mettere fine al commercio individuale, che facendosi a scopo di guadagno, conduce necessariamente alle grandi speculazioni dolose. E per giungere a tanto, egli proponeva d'istituire una libera organizzazione nazionale per lo scambio di tutti i prodotti, ciò che era, come si vede, un ritorno all'idea che la Grande Rivoluzione tentò di attuare nel 1793-94, dopo che il popolo di Parigi ebbe espulso i girondini dalla Convenzione, e che la legge del massimo fu votata.

Come lo diceva Considérant nel suo Socialismo davanti al Vecchio Mondo (opera che non si raccomanderà mai abbastanza ai socialisti moderni), Fourier vedeva il mezzo di metter fine a tutte le infamie dello sfruttamento attuale col «mettere in relazione diretta il produttore col consumatore, mediante l'organizzazione di agenzie comunali intermediarie – depositarie e non proprietarie delle derrate, prendendole direttamente alle sorgenti della produzione e distribuendole direttamente al consumo».

Il loro prezzo, in queste condizioni, non sarebbe più stato oggetto di speculazioni, e non potrebbe essere aumentato che «delle sole spese di trasporto, di manipolazione e d'amministrazione, che ne costituirebbero un soprappiù quasi impercettibile».

Fin dalla sua infanzia, Fourier, messo dai suoi genitori in una casa di commercio, aveva concepito dell'odio pel commercio, di cui vedeva da vicino le frodi. E da allora egli giurò di combatterlo. Più tardi, durante la Grande Rivoluzione, egli potè assistere da vicino alle feroci speculazioni che si facevano sulle compere dei beni nazionali, e così pure sull'aumento dei prezzi di tutte le derrate durante la guerra. Potè anche vedere da vicino come nè la Convenzione giacobina, nè il Terrore, potessero dominare quelle speculazioni, e come la mancanza di uno scambio socializzato paralizzasse perfino gli effetti di una rivoluzione economica, fatta mediante l'espropriazione dei beni del clero e della nobiltà a vantaggio della democrazia. Allora egli dovette comprendere la necessità della nazionalizzazione del commercio, ed apprezzare il tentativo fatto in questo senso dai sanculotti nel 1793 e 1794. E se ne fece l'apostolo2.

Il comune libero, depositario delle derrate, doveva dare, secondo la sua idea, la soluzione del grande problema dello scambio e della distribuzione dei prodotti di prima necessità. Ma il comune non ne sarebbe il proprietario, come lo sono oggi i commercianti, o anche le stesse cooperative attuali. Il comune non ne sarebbe che il depositario, un'agenzia che riceverebbe i prodotti nei magazzini per distribuirli, senza prelevare alcun tributo dai consumatori e senza la possibilità di speculare sulla fluttuazione dei prezzi.

L'aver affrontato il problema sociale col consumo e lo scambio, è ciò che fa di Fourier il più profondo dei pensatori socialisti.

Ma Fourier non s'arrestò qui. Egli diede un'estensione alla sua idea. Suppose che tutte le famiglie d'un comune rurale, o industriale, o piuttosto misto, costituirebbero una falange, mettendo in comune le loro terre, il bestiame; gli strumenti di lavoro, le macchine, ecc., come se fossero loro proprietà comune – pur tenendo, ciò non ostante, un conto esatto di quanto ogni membro ha contribuito al capitale della comunità.

Due principii fondamentali, diceva egli, devono essere rispettati nella falange. Prima di tutto, non vi devono essere lavori sgradevoli. Tutto il lavoro deve essere organizzato, ripartito e variato, in modo che sia sempre attraente. E poi, nessuna specie di coercizione potrebbe essere ammessa in una società organizzata sul principio della libera associazione, nessuna specie di coercizione vi potrebbe essere tollerata, nè vi sarebbe alcuna ragione per farlo.

Con un po' di considerazione intelligente pei bisogni individuali di ciascun membro della falange, ed un po' di tolleranza per le particolarità dei diversi temperamenti, combinando il lavoro agricolo, industriale, intellettuale ed artistico, i membri della falange non tarderebbero a riconoscere che le passioni stesse degli uomini, che nell'organizzazione attuale rappresentano spessissimo un male e un pericolo e, per questa ragione, servono sempre di pretesto all'impiego della forza – le passioni stesse potevano divenire una fonte di progresso. Bastava riconoscerle e trovar loro un'applicazione sociale. Le nuove imprese, le avventure pericolose, l'animazione sociale, il bisogno di cambiamenti, ecc., offrirebbero ad esse gli sfoghi necessari.

Gli è vero che Fourier pagava ancora il tributo alle idee statali. Egli ammetteva che per fare la prova della sua Associazione – per tentare «un'armonia semplice», che sarebbe la precorritrice della «vera armonia» – «un principe potrebbe intervenire». – «Si potrà serbare al capo della Francia l'onore di strappare il genere umano dal caos sociale, d'essere il fondatore dell'armonia sociale e il liberatore del globo», diceva egli in uno dei suoi primi scritti; e ripeteva la stessa idea nel 1808, nella sua Teoria dei quattro movimenti. Più tardi egli doveva perfino rivolgersi a Luigi Filippo con questo scopo (Ch. Pellarin, Fourier, sa vie, sa théorie, 4a edizione, p. 114). Ma ciò era sempre per tentare la prova preliminare.

Quanto alla «vera armonia», l'«armonia universale», non doveva avere alcun governo. Essa non poteva nemmeno introdursi «pezzo a pezzo». La trasformazione doveva essere sociale, politica, economica e morale nel contempo. E quando Fourier arriva alla critica dello Stato, egli la fa in modo così spietato come la facciamo noi oggi. – «Il disordine politico», dice, «è nello stesso tempo la conseguenza e l'espressione del disordine sociale. L'ineguaglianza vi si traduce in iniquità. Lo Stato, nel cui nome agisce il potere, è risolutamente, per origine e per principio, il servitore ed il protettore delle classi privilegiate contro le altre». – «Se voi volete sottrarre i molti al dominio dei pochi, cercate l'arte di corporare i molti, e di dar loro una potenza attiva che non sia mai delegata». E così di seguito.

Nella «società armonica», che sorgerà dall'applicazione tutt'intera dei suoi principii, ogni coercizione dovrà essere esclusa3.

Scrivendo immediatamente dopo la disfatta della Grande Rivoluzione, Fourier era necessariamente propenso alle soluzioni pacifiche. Egli insisteva sulla necessità di riconoscere il principio di associazione tra il Capitale, il Lavoro e l'Ingegno. Per cui il valore di ciascun prodotto ottenuto nella falange, doveva essere diviso in tre parti, delle quali l'una (la metà o i sette dodicesimi) sarebbe la rimunerazione del Lavoro; l'altra (tre dodicesimi) andrebbe al Capitale, e la terza (due o tre dodicesimi) all'Ingegno.

Nondimeno, la maggior parte di coloro che ci tenevano alle idee fourieriste nell'Internazionale, non annettevano alcuna importanza a questa parte del suo sistema, perchè comprendevano l'influenza dei tempi in cui Fourier aveva scritto. Invece, essi ritenevano sopratutto le parti seguenti, essenziali, dell'insegnamento fourierista:

1° Il comune libero, vale a dire una piccola agglomerazione territoriale, indipendente, diventa la base, l'unità nella nuova società socialista.

2° Il comune è il depositario di tutto ciò che è prodotto nel vicinato, e l'intermediario di tutti gli scambi. Esso rappresenta pure l'associazione dei consumatori, e molto probabilmente sarà anche, nella maggior parte dei casi, l'unità di produzione (la quale, del resto, potrà anche essere un gruppo professionale, o meglio ancora una federazione di gruppi produttori).

3° I comuni si federano liberamente tra essi per costituire la Federazione, la Regione, la Nazione.

4° Il lavoro deve essere reso attraente, senza di che sarebbe sempre la schiavitù. E finchè ciò non sarà fatto, non sarà possibile alcuna soluzione della questione sociale. Ma, in realtà, è perfettamente fattibile. Il lavoro deve essere pure, e lo può essere, assai più produttivo di quanto non lo sia oggi.

5° Per mantenere l'armonia in un comune di questo genere, non è necessaria alcuna coercizione. L'influenza dell'opinione pubblica basterà all'uopo.

In quanto alla ripartizione dei prodotti ed al consumo, le opinioni erano ancora ben divergenti.

Dopo la fondazione dell'Internazionale, l'idea socialista aveva progredito, e al Congresso di Bruxelles, nel 1868, come a quello di Basilea, nel 1869, una forte maggioranza si pronunciò per la proprietà collettiva del suolo arabile, delle foreste, delle ferrovie, dei canali, dei telegrafi, ecc., delle miniere ed anche delle macchine.

Avendo accettata la proprietà collettiva e l'espropriazione per realizzarla, gli avversari dello Stato in seno all'Internazionale presero il nome di collettivisti, per distinguersi nettamente dai partigiani di Marx e di Engels e del loro comunismo statale ed accentratore, nonchè da quei comunisti francesi che erano rimasti fedeli alla tradizione autoritaria di Babeuf e di Cabet4.

Si troverà, nell'opuscolo Idee sull'organizzazione sociale, pubblicato nel 1876 da James Guillaume, che prese lui stesso una parte attiva alla propaganda del collettivismo, come pure nella sua opera fondamentale, L'Internationale: Documents et souvenirs, pubblicata a Parigi negli anni 1905-1910, e finalmente nel suo articolo sul «Collettivismo dell'Internazionale», scritto recentemente per l'Encyclopédie Syndicaliste, tutti i particolari sul senso preciso che fu attribuito alla parola «collettivismo» dai membri più attivi dell'Internazionale federalista, Varlin, Guillaume, De Paepe, Bakunin ed i loro amici. Dichiararono che, di fronte al comunismo autoritario, volevano designare col nome di «Collettivismo» un Comunismo non autoritario, federalista od anarchico. Col chiamarsi collettivisti, si affermavano prima di tutto anti-autoritari, senza voler pregiudicare la forma che assurgerebbe il consumo in una società che compirebbe l'espropriazione. L'essenziale, per essi, era di non pretendere di rinchiudere la società in un quadro rigido riserbando così ai gruppi avanzati la più grande latitudine in proposito.

Disgraziatamente le idee lanciate nell'Internazionale sulla proprietà collettiva, non avevano ancora avuto il tempo di diffondersi nelle masse operaie, quando la guerra franco-tedesca scoppiò, appena dieci mesi dopo il Congresso di Basilea. Ecco perchè nessun tentativo serio fu fatto in tal senso durante la Comune di Parigi. E dopo la disfatta della Francia e della Comune, l'Internazionale federalista dovette concentrare tutti i suoi sforzi sul mantenimento della sua idea fondamentale: l'organizzazione antiautoritaria delle forze operaie nella lotta diretta del Lavoro contro il Capitale, per giungere alla rivoluzione sociale. Necessariamente, le questioni d'avvenire dovettero essere trascurate, e se l'idea del collettivismo, inteso come comunismo anarchico, continuò ad essere propagata da alcuni, essa si urtava, da un lato, alle concezioni del collettivismo statale, sviluppate dai marxisti da quando cominciarono ad abbandonare le idee del Manifesto comunista, e, dall'altro, al comunismo autoritario dei blanquisti ed ai pregiudizî molto diffusi contro il comunismo in generale, che s'erano impiantati nelle masse operaie dei paesi latini dopo il 1848, in seguito alla poderosa critica del comunismo autoritario fatta da Proudhon. Questa resistenza fu così forte che in Ispagna, per esempio, dove l'Internazionale federalista era in stretti rapporti con una vasta federazione di organizzazioni operaie di mestiere, si interpretò allora e molto più tardi, il collettivismo come una semplice affermazione della proprietà collettiva, aggiungendovi «e anarchia» (anarquia y collectivismo), per affermare l'idea antistatale, senza pregiudicare il modo di consumo, comunista od altro, che potrebb'essere accettato da ogni gruppo separato di produttori e consumatori.

Infine, per ciò che concerne i mezzi di passaggio dalla società attuale alla società socialista, i lavoratori dell'Internazionale non davano alcuna importanza a quanto ne aveva detto Fourier. Essi sentivano il maturarsi di una situazione rivoluzionaria, e vedevano venire una rivoluzione più profonda e più generale ancora di quella del 1848. E allora, dicevano, senza aspettare gli ordini del governo, essi stessi farebbero tutto ciò che sarebbe in loro potere per spodestare il Capitale dei monopolii che s'era appropriato.

L'IMPULSO DATO DALLA COMUNE. BAKUNIN.

Si è potuto vedere, dal rapido sunto dato negli articoli precedenti, il terreno su cui l'idea anarchica stava per svilupparsi nell'Internazionale.

Vi era, come si è detto, una mescolanza d'idee del giacobinismo centralista e autoritario, con idee d'indipendenza locale e di federazione. Le une e le altre – noi lo sappiamo oggi – avevano la loro origine nella grande Rivoluzione francese. Se da un lato, le idee centraliste derivavano in linea diretta dal giacobinismo del 1793, dall'altro, quelle d'azione locale indipendente rappresentavano l'eredità della potente azione costruttiva e rivoluzionaria delle sezioni di Parigi e dei comuni del 1793-94.

Bisogna dire, però, che la prima di queste due correnti, la corrente giacobina, era senza dubbio la più potente. Gli intellettuali borghesi, entrati nell'Internazionale, erano quasi tutti giacobini nell'anima, e i lavoratori ne subivano l'influenza.

Ci volle un avvenimento d'una portata così grave come la Comune di Parigi per imprimere una nuova direzione al pensiero rivoluzionario fra le masse operaie d'Europa e d'America.

Nel luglio 1870 incominciava la terribile guerra franco-tedesca, nella quale Napoleone III e i suoi consiglieri si erano lanciati per salvare l'Impero da una rivoluzione repubblicana imminente. La guerra portò una disfatta schiacciante, la rovina dell'Impero, il Governo provvisorio di Thiers e Gambetta, e la Comune di Parigi, con tentativi consimili a Saint-Etienne, Narbona ed altre città del mezzogiorno, più tardi, a Barcellona e Cartagena, in Ispagna.

Per l'Internazionale – per coloro, almeno, che sapevano riflettere sugli avvenimenti e ricavarne un'insegnamento – queste sollevazioni comunaliste furono una rivelazione. Fatte spiegando la bandiera rossa della rivoluzione sociale, che i lavoratori difendevano fino alla morte sulle loro barricate, queste sollevazioni indicarono quale doveva essere, quale sarebbe stata probabilmente, nelle nazioni latine, la forma politica della prossima rivoluzione.

Non la repubblica democratica, come si credeva nel 1848, ma il COMUNE libero, indipendente e, molto probabilmente, comunista.

Inutile dire che la Comune di Parigi s'era risentita della confusione che regnava allora nelle menti, riguardo alle misure economiche e politiche che bisognava prendere durante una rivoluzione popolare per assicurarne il trionfo. La stessa confusione che abbiamo visto regnare nell'Internazionale, regnava nella Comune.

Giacobini e comunalisti – ossia centralisti governativi e federalisti – erano egualmente rappresentati nella sollevazione di Parigi, e si trovarono ben presto in lotta gli uni contro gli altri. L'elemento più combattivo era coi giacobini ed i blanquisti. Ma Blanqui era in prigione, e nei capi blanquisti – borghesi in maggior parte – non rimaneva gran che delle idee comuniste dei loro predecessori babouvisti. Per essi, la questione economica era una questione di cui si sarebbero occupati più tardi, dopo il trionfo della Comune, e quest'opinione essendo prevalsa fin dal principio, l'opinione comunista popolare non ebbe il tempo di svilupparsi e ancor meno di affermarsi durante la vita così breve della Comune di Parigi.

In queste condizioni la disfatta non si fece attendere, e la vendetta feroce dei borghesi impauriti dimostrò una volta di più che il trionfo d'una Comune popolare è materialmente impossibile, se uno sviluppo parallelo delle conquiste sul terreno economico non appassiona la massa del popolo per la Comune.

Per compiere una rivoluzione politica bisogna provvedere altresì alla rivoluzione economica.

Ma, nello stesso tempo, la Comune di Parigi diede un altro insegnamento prezioso col precisare, nelle nazioni latine, le idee dei proletari rivoluzionari.

Il comune libero – ecco la forma politica che dovrà essere presa da una rivoluzione sociale. Non importa se tutta la nazione, se tutte le nazioni vicine saranno contro questa maniera d'agire – ma una volta che gli abitanti di un comune o di un dato territorio avranno deciso di voler comunalizzare il consumo degli oggetti necessari alla soddisfazione dei loro bisogni, come pure lo scambio di questi prodotti e la loro produzione – essi dovranno farlo da sè, in casa propria. E se lo faranno, se metteranno le loro energie al servizio di una causa così grande, troveranno nel loro comune una forza che non troverebbero mai se tentassero d'avere seco tutta la nazione, con le sue parti arretrate, ostili e indifferenti, che sarà meglio combattere apertamente, invece di trascinarsele dietro come altrettante palle di cannone ribadite ai piedi della rivoluzione.

Noi fummo altresì in grado di comprendere che se non v'ha bisogno di un governo centrale per comandare ai comuni liberi – se non si accetta il governo nazionale, e se l'unità nazionale si ottiene mediante la libera federazione dei comuni – allora diventa egualmente inutile e nocivo un governo centrale municipale. Gli affari che si devono decidere in un comune sono, infatti, molto meno complicati, e gli interessi dei cittadini meno varî e meno contradittorî di quanto lo sono in una nazione. Il principio federativo deve dunque bastare per stabilire l'accordo fra i diversi gruppi di produzione, di consumo o d'altro nel comune.

La Comune di Parigi risolveva così una questione che aveva preoccupato tutti i veri rivoluzionari. Due volte la Francia aveva tentato di compiere una rivoluzione nel senso socialista, cercando d'imporla per mezzo d'un governo centrale: nel 1793-1794, quando tentò, dopo la caduta dei girondini, d'introdurre l'eguaglianza di fatto – l'eguaglianza reale economica – per mezzo di severe misure legislative; e nel 1848, quando tentò di costituire con la sua Assemblea Nazionale una «Repubblica democratica socialista».

E, per due volte, essa non vi riuscì. Ma ora la vita stessa ci indicava una nuova soluzione: il Comune libero. È desso che deve fare la rivoluzione sul suo proprio territorio, nel medesimo tempo che si sbarazza dello Stato accentrato. E quest'idea servì a rafforzare l'ideale dell'ANARCHIA.

Noi comprendemmo allora che l'Idea generale sulla Rivoluzione nel diciannovesimo secolo, di Proudhon, conteneva un'idea profondamente pratica: l'idea d'Anarchia. E, nelle nazioni latine, il pensiero degli uomini avanzati cominciò a lavorare in tal senso.

Ma, purtroppo, nei paesi latini soltanto: in Francia, in Ispagna, in Italia, nella Svizzera romanda e nella parte vallone del Belgio. I tedeschi, invece, tirarono dalla loro vittoria sulla Francia un altro insegnamento; giunsero a un ben diverso ideale: l'adorazione dell'accentramento statale. Non hanno peranco superata la fase robespierrista, e conservano tuttora il culto del Club dei Giacobini, come l'hanno descritto (contrariamente alla realtà) gli storici giacobini.

La Stato accentrato, ostile perfino alle tendenze d'indipendenza nazionale delle sue diverse parti; un forte accentramento gerarchico ed un forte governo – tali furono le conclusioni a cui giunsero i socialisti ed i radicali tedeschi. Non volevano nemmeno comprendere che la loro vittoria era una vittoria di grossi battaglioni – del servizio militare universale sul sistema di reclutamento, ancora in vigore in Francia – una vittoria ottenuta sopratutto sulla corruzione del Secondo Impero, al momento in cui era già minacciato da una rivoluzione che avrebbe giovato all'umanità tutta quanta, se non fosse stata impedita dall'invasione tedesca.

Così, dunque, nei paesi latini la Comune di Parigi diede uno slancio all'idea dell'Anarchia. D'altra parte, le tendenze autoritarie del Consiglio generale dell'Internazionale, affermandosi sempre più e minacciando di distruggere la forza dell'Associazione, servirono pure a rinforzare la corrente anarchica. Il Consiglio generale, diretto da Marx ed Engels ed appoggiato dai profughi blanquisti francesi, rifugiatisi a Londra dopo la Comune, approfittò dei poteri che gli erano stati conferiti per fare un colpo di Stato nell'Internazionale. Sostituì, nel programma d'azione dell'Associazione, la lotta diretta del Lavoro contro il Capitale con l'agitazione nei parlamenti borghesi.

Questo colpo di Stato uccise l'Internazionale, ma aprì pure molti occhi. Dimostrò, anche ai più creduloni, quanto fosse assurdo il confidare i propri affari ad un governo, dovesse pur essere eletto democraticamente come era il Consiglio generale dell'Internazionale. In tal modo fu provocata la rivolta autonomista delle federazioni spagnuola, italiana, giurassiana e del Belgio vallone, come pure di una sezione degli inglesi, contro l'autorità del Consiglio generale5.

Con Michele Bakunin la tendenza anarchica, che si sviluppava in seno all'Internazionale, trovò un difensore potente ed inspirato. E intorno a Bakunin ed ai suoi amici giurassiani si formò un piccolo cerchio di giovani italiani e spagnuoli, che diedero un più largo sviluppo alle sue idee.

Grazie alle sue vaste cognizioni di storia e di filosofia, Bakunin stabilì il principio dell'Anarchia moderna in una serie di vigorosi opuscoli, d'articoli di giornale e di lettere.

Lanciò arditamente l'idea dell'abolizione completa dello Stato, con tutta la sua organizzazione, il suo ideale e le sue tendenze. Nel passato, lo Stato aveva rappresentato una necessità storica – un'istituzione nata e cresciuta dall'autorità acquistata dalla casta religiosa. Ma oggi, il completo annientamento dello Stato è, a sua volta, una necessità storica, poichè lo Stato è la negazione della libertà e dell'uguaglianza, e poichè non può che nuocere a quanto cerca di fare, anche quando si occupa di mettere in pratica un'idea d'interesse generale.

Ogni nazione, per quanto piccola, ogni regione, ogni comune devono essere assolutamente liberi d'organizzarsi come intendono, fintanto che non lo fanno per minacciare i loro vicini. «Federalismo» e «autonomia» non bastano. Non sono che parole per coprire sempre l'autorità dello Stato accentrato. L'indipendenza completa dei comuni, la federazione dei comuni liberi e la rivoluzione sociale nel comune, ossia i gruppi corporativi per la produzione sostituenti l'organizzazione statale dell'odierna società – tale è, e lo dimostrava Bakunin, l'ideale che sorge davanti alla nostra civiltà dalle nebbie del passato. L'individuo comprende che non sarà realmente libero, se non nella misura della libertà d'ogni altro intorno a lui.

Con queste concezioni, Bakunin era nello stesso tempo un ardente propagandista della rivoluzione sociale, che la più parte dei socialisti credeva allora imminente, e che invocava con parole di fuoco nelle sue lettere e nei suoi scritti.

  1. Il nostro amico Tcherkesoff ha provato, con un suo lavoro ben noto, come dal manifesto di Considérant, intitolato: Principii del Socialismo: Manifesto della Democrazia del XIX secolo e pubblicato nel 1843, Marx ed Engels avessero tolto i principii economici esposti nel loro Manifesto comunista. Basta infatti leggere i due manifesti per persuadersi che non solamente le idee economiche, ma la forma stessa sono state copiate da Marx ed Engels da Considérant. Quanto al programma d'azione pratica del Manifesto comunista di Marx ed Engels, esso è, come l'ha dimostrato il professore Andler, il programma delle organizzazioni segrete comuniste francesi e tedesche, che hanno continuato l'opera delle società segrete di Babeuf e Buonarroti.
  2. Noi l'ignoravamo nell'Internazionale, ma si sa oggi che il lionese L'Ange, colpito dalla miseria di Lione durante la Rivoluzione, aveva già pubblicato un progetto di «Associazione volontaria», estesa a tutta la nazione. Quest'associazione avrebbe 30.000 granai d'abbondanza, istituiti in ciascun comune – ciò che sopprimerebbe la proprietà privata ed il commercio privato degli oggetti di prima necessità, e stabilirebbe lo scambio dei prodotti al loro vero valore. (Vedere l'analisi degli opuscoli di L'Ange, fatta prima da Michelet, poi da Jaurès e ultimamente da Uberto Bougin nel suo volume: Fourier, Parigi, 1905). Si sarà ispirato a questo progetto di L'Ange il Fourier che meditava sul medesimo soggetto? Non lo si sa con certezza. Ma evidentemente Fourier sapeva del grande progetto dei sanculotti del 1793-1794, di nazionalizzare, cioè, il commercio – e ha dovuto ispirarvisi. Come l'ha detto Michelet in una delle note manoscritte citate da Jaurès: «Chi ha prodotto Fourier? Nè L'Ange, nè Babeuf: «Lione, sola precorritrice di Fourier». Noi possiamo dire ora: «Lione e la Rivoluzione del 1793-94».
  3. Anche Fourier fa delle restrizioni, e parla con un'incoerenza che stupisce, delle «distinzioni» e dei «gradi da conquistare», per stimolare l'ardore del lavoro, o dell'obbedienza alle leggi e alle regole nelle esperienze relative alla prova della sua teoria, ma l'idea generale del suo sistema è la libertà completa dell'individuo nella società armonica dell'avvenire. La libertà, egli dice, consiste «nel compiere quegli atti ai quali ci stimolano le nostre attrazioni». «Se vi è della gente che si lusinga di piegare la natura umana alle esigenze della società attuale, e che la studia a questo scopo, noi non siamo con essa», aggiungeva il suo allievo Pellarin (p. 222).
  4. A quell'epoca i social-democratici non avevano ancora proposto il loro sistema di collettivismo di Stato; molti di essi erano ancora comunisti autoritari. E si era, a quanto pare, dimenticato completamente il senso ben preciso di capitalismo di Stato e di retribuzione secondo le ore di lavoro che era stato dato alla parola «collettivismo» alla vigilia e durante la rivoluzione del 1848 – prima da C. Pecqueur, nel 1839 (Economia sociale: Degli interessi del commercio, dell'industria e dell'agricoltura, e della civilizzazione in generale sotto l'influenza delle applicazioni del vapore), e sopratutto nel 1842 (Teoria nuova dell'economia sociale e politica: studi sull'organizzazione delle società), e poi, da F. Vidal, segretario della Commissione operaia del Lussemburgo, in un'opera notevolissima: Vivere lavorando! Progetti, vie e mezzi di riforme sociali, pubblicata a Parigi alla fine del giugno 1848.
  5. Per conoscere i particolari di questo colpo di Stato e le sue conseguenze, bisogna consultare l'eccellente opera storica di James Guillaume, L'Internationale: Documents et souvenirs (1864-1878), 4 vol., Parigi, P-V. Stock, editore, 1905-1910.