La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky

russo

Lenin 1918 1947 Anonimo La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky Intestazione 17 aprile 2018 75% Filosofia

Prefazione

L'opuscolo di Kautsky La dittatura del proletariato (Vienna 1918, Ignaz Brand, pp. 63), uscito recentemente, è uno degli esempi più lampanti del completo e ignominioso fallimento della II Internazionale, di cui da molto tempo parlano tutti i socialisti onesti di tutti i paesi. La questione della rivoluzione proletaria si pone ora praticamente all'ordine del giorno in tutta una serie di Stati. E' quindi necessario analizzare i sofismi da rinnegato e la totale abiura del marxismo da parte di Kautsky.

Innanzitutto è necessario sottolineare come l'autore di queste pagine sin dall'inizio della guerra abbia dovuto richiamare più di una volta l'attenzione sul fatto che Kautsky ha rotto con il marxismo. A questo argomento ho dedicato una serie di articoli apparsi negli anni 1914-1916 nel Sozial-demokrat e nel Komniunist, pubblicati all'estero. Questi articoli furono poi raccolti e pubblicati dal Soviet di Pietrogrado con il titolo Contro corrente di G. Zinov’ev e N. Lenin, Pietrogrado 1918 (pp. 550). In un opuscolo edito nel 1915 a Ginevra, che fu immediatamente tradotto in tedesco e in francese, così parlavo del «kautskismo»:

"Kautsky, la massima autorità della II Internazionale, è l'esempio più tipico e più lampante del modo come il riconoscimento verbale del marxismo abbia in realtà portato alla sua trasformazione in «struvismo» o «brentanismo», in una dottrina cioè borghese liberale, che riconosce la lotta «di classe» non rivoluzionaria del proletariato, dottrina esposta con particolare chiarezza dallo scrittore russo Struve e dall'economista tedesco Brentano). Lo stesso fenomeno vediamo in Plekhanov. Con sofismi evidenti si svuota il marxismo del suo vivo spirito rivoluzionario; del marxismo si riconosce tutto, fuorché i mezzi rivoluzionari di lotta, la loro propaganda e la loro preparazione, l'educazione delle masse appunto in questa direzione. Kautsky «concilia», a dispetto dei principi, il pensiero fondamentale del socialsciovinismo - il riconoscimento della difesa della patria in questa guerra con una concessione diplomatica, fittizia, alla sinistra mediante l'astensione dal voto dei crediti di guerra, il riconoscimento verbale della propria opposizione, ecc. Kautsky, che nel 1909 scrisse un intiero libro sull'avvicinarsi dell'era delle rivoluzioni e sulla connessione esistente fra guerra e rivoluzione; Kautsky, che nel 1912 firmò il Manifesto di Basilea sull'utilizzazione rivoluzionaria della guerra imminente, giustifica e abbellisce ora in tutti i toni il socialsciovinismo e, sull'esempio di Plekhanov, si associa alla borghesia nel mettere in ridicolo ogni idea di rivoluzione, ogni passo verso l'immediata lotta rivoluzionaria. «La classe operaia non può conseguire il suo obiettivo rivoluzionario, d'importanza mondiale, senza condurre una lotta implacabile contro questo spirito da rinnegati, questa mancanza di carattere, questo servilismo verso l'opportunismo, questo inaudito svilimento teorico del marxismo. Il kautskismo non è dovuto al caso, ma è il prodotto sociale delle contraddizioni della II Internazionale, della combinazione della fedeltà al marxismo a parole e della sottomissione all'opportunismo nei fatti». (G. Zinov'ev e N. Lenin, Il socialismo e la guerra, Ginevra 1915, pagine 13-14). Inoltre nel mio libro L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto nel 1916 (uscito a Pietrogrado nel 1917), ho analizzato ampiamente la falsità, dal punto di vista teorico, di tutti i ragionamenti di Kautsky sull'imperialismo. Ho citato la definizione dell'imperialismo data da Kautsky: «L'imperialismo è il prodotto del capitalismo industriale altamente sviluppato. Esso consiste nella tendenza di ciascuna nazione industriale capitalistica ad assoggettarsi e ad annettersi un sempre più vasto territorio agrario [il corsivo è di Kautsky] senza preoccuparsi delle nazioni che lo abitano». Ho dimostrato che tale definizione era completamente erronea, che essa era «adattata» allo scopo di dissimulare le contraddizioni più profonde insite nell'imperialismo e di trovare in seguito un terreno per conciliarsi con l'opportunismo. E ho dato la mia definizione dell'imperialismo: «L'imperialismo è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l'esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è incominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali ed è già compiuta la ripartizione dell'intiera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici». Ho dimostrato che in Kautsky la critica dell'imperialismo è inferiore persino alla critica borghese e piccolo-borghese.

Infine, nell'agosto e nel settembre 1917, prima cioè della rivoluzione proletaria in Russia (25 ottobre-7 novembre 1917), ho scritto l'opuscolo Stato e rivoluzione. La dottrina del marxismo sullo Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, uscito a Pietrogrado agli inizi del 1918. Ivi nel capitolo VI, Il marxismo degradato dagli opportunisti, ho dedicato un'attenzione particolare a Kautsky, dimostrando come egli abbia completamente deformato la dottrina di Marx, l'abbia adattata all'opportunismo e «abbia di fatto rinnegato la rivoluzione riconoscendola a parole».

In fondo, l'errore teorico fondamentale di Kautsky nel suo opuscolo sulla dittatura del proletariato consiste appunto nel travisamento opportunistico della dottrina di Marx sullo Stato, travisamento ampiamente smascherato nel mio opuscolo Stato e rivoluzione.

Era necessario fare queste osservazioni preliminari per dimostrare come, già molto tempo prima che i bolscevichi prendessero il potere statale e fossero per questo condannati da Kautsky, io avevo accusato apertamente costui di essere un rinnegato.

Come Kautsky trasformò Marx in un volgare liberale

La questione principale trattata da Kautsky nel suo opuscolo è quella del contenuto fondamentale della rivoluzione proletaria, cioè della dittatura del proletariato. E' una questione della massima importanza in tutti i paesi, particolarmente per i più progrediti, particolarmente per quelli belligeranti, e particolarmente nel momento attuale. Si può dire senza tema di esagerare che è la questione più importante di tutta la lotta di classe proletaria. E' quindi necessario soffermarvisi attentamente.

Kautsky così presenta la questione: «Il contrasto tra le due tendenze socialiste» (cioè tra i bolscevichi e i non bolscevichi) è «Il contrasto fra due metodi radicalmente diversi: il metodo democratico e il metodo dittatoriale» (p. 3).

Notiamo di sfuggita che Kautsky, chiamando socialisti i non bolscevichi russi, cioè i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, si basa sulla denominazione, cioè sulla parola, e non sul posto che in realtà costoro occupano nella lotta del proletariato contro la borghesia. Modo magnifico di concepire e di applicare il marxismo! Ma ne parleremo più ampiamente in seguito.

Dobbiamo ora soffermarci sul punto principale, la grande scoperta fatta da Kautsky: il «contrasto fondamentale» tra «il metodo democratico e il metodo dittatoriale». Questo è il nocciolo della questione. Questa è la sostanza dell'opuscolo di Kautsky. Ed è una confusione così mostruosa, un'abiura così completa del marxismo, che si deve riconoscere che Kautsky ha di molto sorpassato Bernstein.

La questione della dittatura del proletariato è la questione dell'atteggiamento dello Stato proletario verso lo Stato borghese; della democrazia proletaria verso la democrazia borghese. La cosa dovrebbe essere chiara come la luce del sole. Ma Kautsky, proprio come un professore di ginnasio mummificato dall'eterna ripetizione dei manuali di storia, volge ostinatamente le spalle al secolo ventesimo e lo sguardo al decimottavo e per la centesima volta, in tutta una serie di paragrafi, mastica e rimastica in modo incredibilmente noioso l'antica solfa dell'atteggiamento della democrazia borghese verso l'assolutismo e il Medioevo!

Invero, è proprio come se egli, nel sonno, masticasse della stoppa!

Non significa forse questo non comprendere assolutamente nulla di nulla? Gli sforzi di Kautsky per far apparire che vi sono degli uomini i quali predicano il «disprezzo per la democrazia» (p. 11), ecc. non possono che far sorridere. Kautsky deve annebbiare e rendere intricata la questione con simili futilità, giacché egli la pone dal punto di vista di un liberale, cioè come una questione di democrazia in generale e non di democrazia borghese; egli evita persino questo concetto esatto, classista e cerca di parlare di democrazia «presocialista». Il nostro ciarlone ha riempito quasi un terzo del suo opuscolo, 20 pagine su 63, con una chiacchierata assai gradita alla borghesia perché equivale a voler abbellire la democrazia borghese e celare la questione della rivoluzione proletaria.

Ma il titolo dell'opuscolo di Kautsky è tuttavia La dittatura del proletariato. Che questa costituisca appunto la sostanza della dottrina di Marx, è cosa universalmente nota. E Kautsky, dopo tutta la sua chiacchierata non pertinente al tema, ha dovuto citare le parole di Marx sulla dittatura del proletariato.

Il modo con cui il «marxista» Kautsky ha fatto ciò è una vera commedia! Udite:

«Questa concezione» (che Kautsky proclama: disprezzo per la democrazia) «si basa su una parola di Karl Marx»: così è detto, letteralmente, a p. 20. E a p. 60 Kautsky lo ripete persino in questa forma: essi (i bolscevichi) «si sono ricordati tempestivamente della parolina [des Wortchens, letteralmente!!!] sulla dittatura del proletariato, usata una volta da Marx, nel 1875, in una lettera». Ecco questa «parolina» di Marx:

Tra la società capitalista e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una e dell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, in cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato. In primo luogo, chiamare «parola», anzi «parolina», questa celebre enunciazione di Marx, che costituisce la conclusione di tutta la sua dottrina rivoluzionaria, significa farsi beffe del marxismo, significa rinnegarlo completamente. Non si deve dimenticare che Kautsky conosce Marx quasi a memoria; che, a giudicare da tutte le sue pubblicazioni, egli ha sul suo scrittoio o nella sua testa una serie di schedari nei quali gli scritti di Marx sono accuratamente classificati nel modo più comodo per citarli. Kautsky non può non sapere che tanto Marx quanto Engels hanno ripetutamene parlato della dittatura del proletariato sia in lettere che in pubblicazioni, particolarmente prima e dopo la Comune. Kautsky non può non sapere che la formula «dittatura del proletariato» è soltanto la definizione storicamente più concreta e scientificamente più esatta del compito del proletariato di «spezzare» la macchina statale borghese, del quale (compito) sia Marx che Engels, tenendo conto delle rivoluzioni del 1848 e particolarmente di quella del 1871, parlarono dal 1852 al 1891, per ben quaranta anni.

Come si può spiegare questa mostruosa deformazione del marxismo da parte di un marxista «erudito» qual è Kautsky? Se si guarda alle basi filosofiche di questo fatto, si tratta unicamente della sostituzione dell'eclettismo e della sofistica alla dialettica. Kautsky è un gran maestro nell'arte di tali sostituzioni. Dal punto di vista della politica pratica si tratta unicamente di un atteggiamento servile verso gli opportunisti, cioè, in ultima analisi, verso la borghesia. Dall'inizio della guerra in poi, Kautsky, a passi da gigante, è diventato maestro nell'arte di essere marxista a parole e lacchè della borghesia nei fatti.

Sempre più ci si convince quando si consideri in qual modo Kautsky «spiega» la «parolina» di Marx sulla dittatura del proletariato. Udite:

Disgraziatamente Marx ha trascurato di indicare più ampiamente come si rappresenta questa dittatura... (Frase di rinnegato, falsa da cima a fondo, perché Marx ed Engels hanno dato precisamente molte indicazioni assai particolareggiate, che Kautsky, pur essendo un marxista «erudito», evita di proposito)... Presa alla lettera, la parola dittatura significa soppressione della democrazia. Ma, s'intende, presa alla lettera, questa parola significa anche potere assoluto di un singolo individuo, potere non vincolato da nessuna legge. Potere assoluto, che differisce dal dispotismo perché è concepito non come un ordinamento statale permanente, ma come una misura transitoria d'emergenza. L'espressione «dittatura del proletariato», quindi non dittatura di un singolo individuo ma di una classe, esclude di per sé che Marx abbia pensato a una dittatura nel senso letterale della parola. Egli non parlava di una forma di governo, ma di uno stato di cose, il cui avvento era necessario ovunque il proletariato avesse conquistato il potere politico. Che egli qui non pensasse a una forma di governo, è provato dal fatto che, secondo lui, in Inghilterra e in America il passaggio dall'una all'altra forma potrebbe effettuarsi pacificamente, cioè per via democratica (p. 20). Abbiamo di proposito citato in extenso queste considerazioni affinché il lettore possa vedere chiaramente a quali mezzi ricorre il «teorico» Kautsky.

Kautsky ha voluto affrontare la questione dando la definizione della «parola» dittatura.

Benissimo. Trattare una questione nel modo che più piace è diritto sacrosanto di ognuno. Bisogna soltanto distinguere tra il modo serio ed onesto di affrontare una questione e il modo disonesto. Chi voglia prendere le cose sul serio, per affrontare la questione in modo serio deve dare la propria definizione della «parola». La questione allora viene posta chiaramente e direttamente. Kautsky non lo fa. «Presa alla lettera — egli scrive — la parola dittatura significa soppressione della democrazia».

Anzitutto, questa non è una definizione. Se Kautsky voleva evitare di dare una definizione del concetto di dittatura, perché ha scelto questo modo di affrontare la questione?

In secondo luogo, quanto dice Kautsky è manifestamente falso. È naturale che un liberale parli di «democrazia» in generale. Ma un marxista non deve mai dimenticare di porre la domanda: «per quale classe?». Tutti sanno, per esempio — e lo sa anche lo «storico» Kautsky — che le rivolte e anche il forte fermento tra gli schiavi nell'antichità rivelarono il fatto che in sostanza lo Stato antico era la dittatura dei proprietari di schiavi. Forse che la dittatura distruggeva la democrazia tra i proprietari di schiavi, per i proprietari di schiavi? Tutti sanno che non era così.

Il «marxista» Kautsky ha detto una cosa assolutamente assurda e una menzogna, perché «ha dimenticato» la lotta di classe.

Per trasformare l'affermazione liberale e menzognera di Kautsky in un'affermazione marxista e veritiera, bisogna dire: dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro altre classi, ma significa obbligatoriamente soppressione (o forte limitazione, che è anche un aspetto della soppressione) della democrazia per quella classe contro cui la dittatura è esercitata.

Ma per quanto questa affermazione sia esatta, essa non dà ancora la definizione della dittatura.

Esaminiamo la seguente frase di Kautsky:

...Ma, s'intende, presa alla lettera, questa parola significa anche potere assoluto di un singolo individuo, potere non vincolato da nessuna legge... Come un cucciolo cieco che annusando nel buio urta il muso or qua or là, Kautsky si è qui inavvertitamente imbattuto in un'idea giusta (cioè che la dittatura è un potere non vincolato da nessuna legge), ma tuttavia non ha dato una definizione della dittatura, e ha detto inoltre un'evidente menzogna storica, asserendo che dittatura significa potere di un solo individuo. Ciò è inesatto anche grammaticalmente, perché anche un pugno di uomini, un'oligarchia, una classe, e così via, possono esercitare la dittatura.

Kautsky indica poi ciò che distingue la dittatura dal dispotismo; ma, nonostante la manifesta inesattezza di quanto dice, non ci soffermeremo su questo punto perché ciò non ha niente a che vedere con la questione che ci interessa. È notoria la propensione di Kautsky a voltare le spalle al ventesimo secolo per guardare al diciottesimo, e da questo alla storia antica, e noi speriamo che il proletariato tedesco, conquistata la dittatura, terrà conto di questa propensione di Kautsky e gli assegnerà un posto di professore di storia antica in un liceo. Evitare, mediante divagazioni sul dispotismo, di dare la definizione di dittatura del proletariato è o stupidità estrema o trucco inabilissimo.

In fin dei conti vediamo che Kautsky, accintosi a parlare della dittatura, ha detto molte patenti falsità, ma non ha dato nessuna definizione. Pur senza fare affidamento sulle sue capacità intellettuali, avrebbe potuto chiamare in soccorso la sua memoria e tirar fuori dai suoi «schedari» tutti i casi in cui Marx parla della dittatura. Sarebbe allora probabilmente giunto alla seguente definizione, o ad un'altra che sostanzialmente coincidesse con questa:

La dittatura è un potere che poggia direttamente sulla violenza e non è vincolato da nessuna legge.

La dittatura rivoluzionaria del proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da nessuna legge.

È questa semplice verità, verità chiara come la luce del sole per ogni operaio cosciente (per il rappresentante delle masse e non dello strato superiore della canaglia piccolo-borghese venduta ai capitalisti, quali sono i socialimperialisti di tutti i paesi), questa verità evidente per ogni rappresentante degli sfruttati, i quali combattono per la loro emancipazione, questa verità inoppugnabile per ogni marxista, deve essere «strappata di viva forza» all'eruditissimo signor Kautsky. Come spiegare ciò? Con lo spirito servile di cui sono permeati i capi della II Internazionale, divenuti spregevoli sicofanti al servizio della borghesia.

In primo luogo Kautsky commette un falso affermando una assurdità evidente, cioè che la parola dittatura letteralmente significherebbe dittatura di un solo individuo, e poi, sulla base di un tale falso, dichiara che in Marx «quindi» le parole sulla dittatura di una classe non vanno prese nel loro significato letterale (ma nel senso in cui dittatura non significhi violenza rivoluzionaria, bensì conquista «pacifica» della maggioranza — notate questo! — in regime di «democrazia» borghese).

Ma, vedete, si deve fare una distinzione tra «stato di cose» e «forma di governo». Distinzione mirabilmente profonda, come se si facesse una distinzione tra lo «stato» di stupidità di un uomo che ragioni senza costrutto, e la «forma» della sua stupidità!

A Kautsky occorre interpretare la dittatura come «stato di dominio» (è questa letteralmente l'espressione da lui usata nella pagina successiva, la p. 21), perché così scompare la violenza rivoluzionaria, scompare la rivoluzione violenta. Lo «stato di dominio» è uno stato nel quale si ha una qualsiasi maggioranza in regime di... «democrazia»! Con simile trucco truffaldino la rivoluzione scompare felicemente.

Ma la truffa è troppo grossolana e non salva Kautsky. Che la dittatura presupponga e significhi uno «stato» di violenza rivoluzionaria, sgradevole per i rinnegati, di una classe contro l'altra, è cosa che non si può nascondere. L'assurdità della distinzione tra «stato di cose» e «forma di governo» viene alla luce. Parlare qui di forma di governo è cosa tre volte sciocca, giacché ogni ragazzo sa che monarchia e repubblica sono forme di governo diverse. Occorre dimostrare al signor Kautsky che ambedue le forme di governo, come tutte le «forme di governo» transitorie sotto il capitalismo, non sono in fondo che varianti dello Stato borghese, cioè della dittatura della borghesia.

Infine, parlare di forme di governo è una falsificazione, non solo sciocca ma anche grossolana, di Marx, il quale parla qui con chiarezza lampante della forma o tipo di Stato e non della forma di governo.

La rivoluzione proletaria è impossibile senza la distruzione violenta della macchina statale borghese e la sua sostituzione con una nuova, che secondo Engels «non è più uno Stato nel senso proprio della parola».

Kautsky deve sminuire e falsificare tutto ciò; lo esige la sua posizione da rinnegato.

Si veda a quali deplorevoli scappatoie egli ricorre.

Prima scappatoia: ...«Che Marx qui non pensasse a una forma di governo è dimostrato già dal fatto ch'egli riteneva che in Inghilterra e in America il passaggio si potesse effettuare pacificamente, e quindi per via democratica»...

La forma di governo non ha assolutamente a che vedere con la questione, poiché vi sono monarchie che non sono tipiche dello Stato borghese, quelle in cui, per esempio, non esiste militarismo, e vi sono repubbliche veramente tipiche, con militarismo e burocrazia. Questo è un fatto storico e politico a tutti noto, e Kautsky non riuscirà a falsarlo.

Se Kautsky avesse voluto ragionare seriamente e onestamente, avrebbe dovuto chiedersi: le rivoluzioni sono governate da leggi storiche che non conoscono eccezioni? La risposta sarebbe stata: no, non vi sono leggi simili. Marx ha definito l'«ideale», alludendo a un capitalismo medio, normale, tipico.

E ancora. Esisteva, negli anni settanta qualcosa che, sotto questo rapporto, facesse dell'Inghilterra e dell'America delle eccezioni? È evidente per chiunque abbia una conoscenza più o meno vasta delle esigenze scientifiche nel campo delle questioni storiche che tale questione va posta. Non porla significa falsar la scienza, significa giocare ai sofismi. Ma una volta posta la questione, la risposta non può essere dubbia. La dittatura rivoluzionaria del proletariato è violenza contro la borghesia; e la necessità di questa violenza è particolarmente dovuta all'esistenza del militarismo e della burocrazia, come è stato ripetutamente e in modo molto ampio esposto da Marx e da Engels (specialmente nella Guerra civile in Francia e nella relativa prefazione). Ma nell'epoca in cui Marx faceva questa osservazione, in Inghilterra e in America, e appunto negli anni settanta, questi istituti non esistevano. (Oggi invece esistono tanto in Inghilterra quanto in America).

Kautsky a ogni passo è costretto a ricorrere a trucchi, nel vero sènso della parola, per mascherare la sua abiura!

E osservate come egli inavvedutamente lasci scorgere il piede forcuto. Egli scrive: «pacificamente, e quindi per via democratica »!!

Nel definire la dittatura Kautsky fa ogni sforzo per nascondere il tratto caratteristico essenziale di questo concetto, la violenza rivoluzionaria. Ora però la verità è venuta a galla: si tratta del contrasto tra rivolgimento pacifico e rivolgimento violento.

Qui è il nocciolo della questione. Kautsky ha bisogno di tutte le scappatoie, di tutti i sofismi, di tutte le falsificazioni truffaldine appunto per scansare la rivoluzione violenta, per mascherare il fatto ch'egli la rinnega ed è passato dalla parte della politica operaia liberale, cioè dalla parte della borghesia. Qui è il nocciolo della questione.

Lo «storico» Kautsky falsifica in modo così spudorato la storia da dimenticare l'essenziale: che il capitalismo premonopolistico — che raggiunse il suo apogeo appunto negli anni settanta — si distingueva nei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo particolarmente tipico in Inghilterra e in America, per un amore della pace e della libertà relativamente grande. L'imperialismo invece, cioè il capitalismo monopolistico maturato definitivamente solo nel ventesimo secolo, si distingue nei suoi tratti economici essenziali per il suo minimo amore per la pace e la libertà e per il massimo e universale sviluppo del militarismo. «Non notare» questo nell'esaminare fino a che punto sia verosimile o tipico un rivolgimento pacifico o un rivolgimento violento, vuoi dire scendere al livello del più volgare lacchè della borghesia.

Seconda scappatoia. La Comune di Parigi fu una dittatura del proletariato, ma essa fu eletta a suffragio universale, cioè senza che la borghesia venisse privata del diritto di voto, cioè «democraticamente». E Kautsky proclama trionfalmente: ...«La dittatura del proletariato era per Marx» (o secondo Marx) «uno stato di cose che scaturisce necessariamente dalla democrazia pura, se il proletariato costituisce la maggioranza» (bei iibenviegendem Proletariat, p. 21).

Questo argomento di Kautsky è così spassoso che si prova veramente un embarras de richesses (imbarazzo di fronte all'abbondanza... delle obiezioni). Innanzitutto è notorio che il fiore, lo stato maggiore, i capi della borghesia erano scappati da Parigi a Versailles. A Versailles c'era il «socialista» Louis Blanc, ciò che fra l'altro dimostra la falsità dell'affermazione di Kautsky, secondo cui «tutte le correnti» del socialismo avrebbero partecipato alla Comune. Non è ridicolo rappresentare come «democrazia pura» con «suffragio universale» la divisione degli abitanti di Parigi in due campi nemici, nell'uno dei quali era concentrata tutta la borghesia combattiva, politicamente attiva? In secondo luogo, la Comune combatteva contro Versailles in quanto governo operaio della Francia contro un governo borghese. Che c'entrano qui la «democrazia pura» e il «suffragio universale» quando Parigi decideva delle sorti della Francia? Allorché Marx riteneva che la Comune avesse commesso un errore perché non si era impadronita della Banca appartenente a tutta la Francia, partiva forse dai principi e dalla prassi della «democrazia pura»?

Si vede veramente che Kautsky scrive in un paese in cui la polizia proibisce di ridere «in coro», altrimenti il riso lo avrebbe ucciso.

In terzo luogo. Mi permetto di ricordare umilmente al signor Kautsky, che conosce a memoria gli scritti di Marx e di Engels, il seguente apprezzamento di Engels sulla Comune, formulato dal punto di vista della... «democrazia pura»:

Non hanno mai veduto una rivoluzione questi signori [antiautoritari]? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è l'atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all'altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuoi avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente? Eccovela la «democrazia pura»! Come Engels avrebbe deriso il volgare filisteo, il «socialdemocratico» (nel senso che questa parola ebbe in Francia negli anni quaranta e nel senso che ha avuto in tutta l'Europa negli anni 1914-1918) al quale, in generale, fosse venuto in mente di parlare di «democrazia pura» in una società divisa in classi!

Ma basta! È impossibile enumerare tutte le assurdità che Kautsky si lascia sfuggire, perché ogni sua frase è un abisso senza fondo di abiura.

Marx ed Engels hanno dato un'analisi estremamente particolareggiata della Comune di Parigi, dimostrando che il suo merito fu quello di aver tentato di spezzare, di distruggere la «macchina statale già pronta». Essi ritenevano così importante tale conclusione, che nel 1872 introdussero questa sola modificazione nel programma «invecchiato» (in qualche sua parte) del Manifesto del Partito comunista. Essi dimostrarono che la Comune aveva distrutto l'esercito e la burocrazia, aveva distrutto il parlamentarismo, aveva eliminato «l'escrescenza parassitaria: lo Stato», ecc, ma il saggissimo Kautsky, copertosi il capo con il berretto da notte, ripete le favole sulla «democrazia pura», raccontate già mille volte dai professori liberali.

Non per nulla Rosa Luxemburg il 4 agosto 1914 dichiarò che la socialdemocrazia tedesca era un fetido cadavere.

La terza scappatoia è questa: «Se si parla della dittatura come forma di governo, non possiamo parlare della dittatura di una classe. Poiché, come già abbiamo osservato, una classe può soltanto dominare, ma non governare»... Governare possono soltanto «organizzazioni» o «partiti ».

Voi imbrogliate, imbrogliate impudentemente le cose, signor «consigliere dell'imbroglio»! La dittatura non è una «forma di governo»: tale affermazione è un ridicolo nonsenso. E Marx parla non della «forma di governo», ma della forma o tipo di Stato. È qualcosa di diverso, di totalmente diverso. Inoltre è assolutamente inesatto che una classe non possa governare. Solo un «cretino parlamentare» che non vede nulla all'infuori del parlamento borghese, che non vede nulla all'infuori dei «partiti al governo», poteva dire una tale assurdità. Qualsiasi paese europeo può fornire a Kautsky esempi di governo di una classe dominante, come era, per esempio, nonostante la sua deficiente organizzazione, la classe dei proprietari fondiari nobili nel Medioevo.

Risultato: Kautsky ha deformato in modo inaudito il concetto di dittatura del proletariato, trasformando Marx in un liberale qualunque; è cioè caduto egli stesso al livello di un liberale che pronuncia frasi banali sulla «democrazia pura», abbellendo e velando il contenuto di classe della democrazia borghese, e paventa soprattutto la violenza rivoluzionaria esercitata dalla classe oppressa. Quando Kautsky «interpreta» il concetto di «dittatura rivoluzionaria del proletariato» in modo tale da far scomparire la violenza rivoluzionaria della classe sfruttata contro gli sfruttatori, egli raggiunge il primato mondiale nel campo delle deformazioni liberali del pensiero di Marx. A quanto pare, il rinnegato Bernstein non è che un cucciolo in confronto al rinnegato Kautsky

Democrazia borghese e democrazia proletaria

La questione, imbrogliata da Kautsky in modo inaudito, si presenta in realtà come segue.

Se non si vuole prendere in giro e il buon senso e la storia, è chiaro che è impossibile parlare di «democrazia pura» finché esistono differenti classi; si può parlare unicamente di democrazia di classe. (Sia detto tra parentesi: «democrazia pura» è non solo una frase da ignoranti, che rivela l'incomprensione sia della lotta di classe che dell'essenza dello Stato, ma è anche tre volte vuota di senso; perché nella società comunista la democrazia, rigenerandosi, trasformandosi in un abito, si estinguerà, ma non sarà mai democrazia «pura»).

«Democrazia pura» è la frase menzognera del liberale che vuol trarre in inganno gli operai. La storia conosce la democrazia borghese che prese il posto del feudalismo, e la democrazia proletaria che prende il posto di quella borghese.

Kautsky dedica decine di pagine alla «dimostrazione» di una verità: che la democrazia borghese è progressiva in confronto al Medioevo, e che il proletariato la deve necessariamente utilizzare nella sua lotta contro la borghesia; ma si tratta appunto di una chiacchiera liberale, destinata ad abbindolare gli operai. Non solo nella colta Germania, ma anche nell'incolta Russia questo è un truismo. Kautsky non fa altro che gettare polvere «erudita» negli occhi degli operai parlando con aria d'importanza di Weitling e dei gesuiti del Paraguay e di molte altre cose per non parlare della sostanza borghese della democrazia odierna, cioè capitalistica.

Kautsky prende del marxismo ciò che è accettabile per i liberali, per la borghesia (la critica del Medioevo, la funzione storica progressiva del capitalismo in generale e della democrazia capitalistica in particolare), e getta a mare, tace e nasconde tutto ciò che del marxismo è inaccettabile per la borghesia (la violenza rivoluzionaria del proletariato contro la borghesia per l'annientamento di quest'ultima). Ecco perché, per la sua posizione oggettiva, qualunque possa essere la sua convinzione soggettiva, Kautsky è inevitabilmente un lacchè della borghesia.

La democrazia borghese, benché sia stata un grande progresso storico in confronto al Medioevo, rimane sempre — e sotto il capitalismo non può non rimanere — limitata, monca, falsa, ipocrita, un paradiso per i ricchi, una trappola e un inganno per gli sfruttati, i poveri. Questa verità, che costituisce la parte essenziale della dottrina di Marx, non è stata capita dal «marxista» Kautsky. E, trattando questa questione fondamentale, Kautsky dice cose che fanno «piacere» alla borghesia, invece di fare una critica scientifica delle condizioni che di ogni democrazia borghese fanno una democrazia per i ricchi.

Ricordiamo anzitutto al dottissimo signor Kautsky le enunciazioni teoriche di Marx e di Engels, che il nostro erudito (per far piacere alla borghesia) ha vergognosamente «dimenticato», e poi illustreremo la questione in modo molto elementare.

Non solo lo Stato antico e lo Stato feudale, ma anche «lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale» (Engels nel suo scritto sullo Stato). «Non essendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato popolare libero" è pura assurdità: finché il proletariato ha bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere» (lettera di Engels a Bebel del 28 marzo 1875). «Lo Stato non è in realtà che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, nella repubblica democratica non meno che nella monarchia» (Engels nella prefazione della Guerra civile in Francia di Marx). Il suffragio universale è «l'indice della maturità della classe operaia. Non può essere e non sarà mai nulla di più nello Stato attuale». (Engels nel suo scritto sullo Stato. Il signor Kautsky rimastica in modo straordinariamente noioso la prima parte di questa tesi accettabile per la borghesia. Sulla seconda parte, che è stata da noi sottolineata e che è inaccettabile per la borghesia, serba il silenzio!).

La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo... Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante doveva mal rappresentare (ver und zertreten) il popolo nel parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni, così come il suffragio individuale serve a ogni altro imprenditore privato per cercare gli operai e gli organizzatori della sua azienda (Marx nella sua opera sulla Comune di Parigi: La guerra civile in Francia, capitolo terzo). Ognuna di queste tesi, tutte ben note al dottissimo signor Kautsky, è per lui uno schiaffo in pieno viso, smaschera in pieno la sua abiura. In tutto il suo opuscolo non si trova un briciolo di comprensione di queste verità. L'intiero contenuto del suo libro è una caricatura del marxismo!

Prendete le leggi fondamentali degli Stati moderni, i loro apparati governativi, prendete la libertà di riunione o di stampa, la «eguaglianza dei cittadini davanti alla legge», e troverete ad ogni passo l'ipocrisia della democrazia borghese, ben nota ad ogni operaio onesto e cosciente. Non vi è un solo Stato, anche il più democratico, nella cui Costituzione non esistano scappatoie o clausole che assicurano alla borghesia la possibilità di procedere manu militari contro gli operai, di dichiarare lo stato di assedio, ecc. «in caso di perturbazione dell'ordine pubblico», in realtà nel caso in cui la classe sfruttata «turbi» il proprio stato di schiavitù o tenti di agire come una classe non schiava. Kautsky inorpella spudoratamente la democrazia borghese, tacendo, per esempio, quanto la più democratica e più repubblicana borghesia dell'America e della Svizzera fa contro gli operai in sciopero.

Oh! il saggio e dotto Kautsky tace tutto ciò! Questo dotto uomo politico non comprende che tale silenzio è un'infamia e preferisce raccontare agli operai delle favolette come quella che democrazia significa «tutela della minoranza». È incredibile, ma vero! Nell'anno di grazia 1918, nel quinto anno della carneficina imperialista mondiale e della repressione delle minoranze internazionalistiche (che non hanno cioè commesso il vergognoso tradimento contro il socialismo perpetrato dai Renaudel, dai Longuet, dagli Scheidemann, dai Kautsky, dagli Henderson e dai Webb, ecc.) in tutti «i paesi democratici» del mondo, il dotto signor Kautsky decanta con voce melliflua la «tutela della minoranza». Chi lo desidera, può leggerlo a p. 15 dell'opuscolo di Kautsky. E a p. 16 questo dotto individuo vi parlerà dei whigs e dei tories nell'Inghilterra del diciottesimo secolo!

O erudizione! O raffinato servilismo di fronte alla borghesia! O maniera civile di strisciare sul ventre davanti ai capitalisti e di leccar loro i piedi! Se io fossi Krupp o Scheidemann o Clemenceau o Renaudel, pagherei dei milioni al signor Kautsky, lo coprirei di baci di Giuda, ne vanterei i meriti davanti agli operai, raccomanderei l'«unità del socialismo» con uomini così «degni di stima» come Kautsky. Scrivere degli opuscoli contro la dittatura del proletariato, parlare dei whigs o dei tories nell'Inghilterra del diciottesimo secolo, affermare che democrazia vuol dire «tutela della minoranza» e tacere i pogrom contro gli internazionalisti nella «democratica» repubblica d'America, non sono forse questi servizi da lacchè resi alla borghesia?

Il dotto signor Kautsky ha con tutta probabilità «dimenticato», casualmente dimenticato, questa «inezia»: che in una democrazia borghese il partito dominante estende la tutela della minoranza unicamente a un altro partito borghese; al proletariato invece, in ogni questione seria, profonda, fondamentale, in luogo della «tutela della minoranza» si regalano lo stato d'assedio o i pogrom. Quanto più sviluppata è la democrazia, tanto più essa, in ogni profondo contrasto politico che minacci la borghesia, si avvicina ai pogrom o alla guerra civile. Il dotto signor Kautsky avrebbe potuto studiare questa «legge» della democrazia borghese durante l'affare Dreyfus nella Francia repubblicana, nel linciaggio di negri e di internazionalisti nella repubblica democratica d'America, negli esempi dell'Irlanda e dell'Ulster nella democratica Inghilterra, nella caccia ai bolscevichi e nell'organizzazione di pogrom contro di essi nell'aprile del 1917 nella repubblica democratica russa. Scelgo appositamente esempi non solo del periodo della guerra, ma anche dell'anteguerra, del periodo di pace. Al mellifluo signor Kautsky fa comodo chiudere gli occhi su questi fatti del ventesimo secolo, e raccontare invece agli operai cose sorprendentemente nuove, estremamente interessanti, straordinariamente ricche d'insegnamenti, incredibilmente importanti sui whigs e i tories del diciottesimo secolo.

Si prenda il parlamento borghese. Si può ammettere che l'erudito Kautsky non abbia mai sentito dire che la Borsa e i banchieri tanto più controllano i parlamenti borghesi quanto più fortemente è sviluppata la democrazia? Da ciò non si deve dedurre che non si debba utilizzare il parlamentarismo borghese (i bolscevichi l'hanno utilizzato con successo come forse nessun altro partito al mondo, giacché negli anni 1912-1914 hanno conquistato tutta la curia operaia della IV Duma). Ma ciò significa tuttavia che soltanto un liberale può dimenticare, come fa Kautsky, la limitatezza storica e il carattere contingente del parlamentarismo borghese. Nello Stato borghese più democratico le masse oppresse urtano ad ogni passo contro la più stridente contraddizione tra l'uguaglianza formale, proclamata dalla «democrazia» dei capitalisti, e le infinite restrizioni e complicazioni reali, che fanno dei proletari degli schiavi salariati. Appunto questa contraddizione apre gli occhi alle masse sulla putrescenza, la menzogna e l'ipocrisia del capitalismo. È appunto questa la contraddizione che gli agitatori e i propagandisti del socialismo rivelano alle masse, per prepararle alla rivoluzione. Ma quando l'era delle rivoluzioni è incominciata, Kautsky le ha voltato le spalle e si è messo a decantare le delizie della morente democrazia borghese.

La democrazia proletaria, di cui il potere dei Soviet è una delle forme, ha dato appunto alla stragrande maggioranza della popolazione, agli sfruttati e ai lavoratori, uno sviluppo e una estensione della democrazia finora mai visti nel mondo. Scrivere un intiero libro sulla democrazia, come ha fatto Kautsky, (che dedica due pagine alla dittatura e decine alla «democrazia pura») e non rilevare questo fatto, significa travisare completamente le cose da liberale.

Si prenda la politica estera. In nessun paese, neanche nel più democratico, essa è condotta pubblicamente. In tutti i paesi democratici, in Francia, in Svizzera, in America, in Inghilterra, le masse vengono ingannate in modo cento volte più esteso e raffinato che negli altri paesi. Il potere dei Soviet ha strappato rivoluzionariamente alla politica estera il manto del segreto. Kautsky non se n'è accorto, non ne fa parola, sebbene nell'epoca delle guerre di rapina e dei trattati segreti per la «ripartizione delle sfere d'influenza» (cioè per la ripartizione del mondo tra i briganti capitalisti) ciò abbia un'importanza fondamentale, poiché è quel che decide la questione della pace, la vita e la morte di decine di milioni di uomini.

Si prenda la struttura dello Stato. Kautsky si aggrappa alle «inezie», sino a rilevare che le elezioni (secondo la Costituzione sovietica) sono «indirette», ma non vede la sostanza della questione. Non vede l'essenza di classe dell'apparato statale, della macchina statale. Nella democrazia borghese, i capitalisti con mille raggiri, tanto più abili ed efficaci quanto più la democrazia «pura» è sviluppata, precludono alle masse la partecipazione al governo dello Stato, la libertà di riunione e di stampa, ecc. Il potere dei Soviet, primo nel mondo (il secondo, a rigor di termine, perché la Comune di Parigi diede il primo avvio), chiama le masse, e proprio le masse sfruttate, a partecipare al governo dello Stato. L'accesso al parlamento borghese (che mai nella democrazia borghese decide le questioni più importanti, che vengono decise dalla Borsa, dalle banche) è sbarrato alle masse lavoratrici da mille ostacoli, e i lavoratori sanno e sentono, vedono e intuiscono perfettamente che il parlamento borghese è un istituto a loro estraneo, un'arme di cui si serve la borghesia per opprimere i proletari, un istituto della classe nemica, della minoranza sfruttatrice.

I Soviet sono l'organizzazione diretta delle stesse masse lavoratrici sfruttate, alle quali dà la possibilità di organizzare lo Stato e di governarlo in tutti i modi possibili. È precisamente l'avanguardia dei lavoratori e degli sfruttati, il proletariato urbano, che in questo sistema gode del vantaggio, essendo meglio organizzato dalla grande impresa, di eleggere e controllare le elezioni. L'organizzazione sovietica facilita automaticamente l'unione di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati intorno alla loro avanguardia, il proletariato. L'antico apparato borghese: la burocrazia, i privilegi della ricchezza, della cultura borghese, delle aderenze e così via (e questi privilegi reali assumono aspetti tanto più vari quanto più è sviluppata la democrazia borghese), tutto ciò scompare nell'organizzazione sovietica. La libertà di stampa cessa di essere un'ipocrisia, una volta che le tipografie e la carta sono tolte alla borghesia. Lo stesso avviene dei migliori edifici, palazzi, ville, dimore dei proprietari fondiari. Il potere dei Soviet ha tolto decisamente agli sfruttatori migliaia di questi edifici ed ha in tal modo «democratizzato» mille volte il diritto di riunione per le masse, quel diritto di riunione senza il quale la democrazia è un inganno. Le elezioni indirette ai Soviet non locali facilitano la convocazione dei congressi dei Soviet, rendono l'intiero apparato meno costoso, più agile e accessibile agli operai e ai contadini in un periodo in cui la vita pulsa ed è particolarmente viva la necessità di poter richiamare rapidamente un deputato o di poterlo inviare al Congresso generale dei Soviet.

La democrazia proletaria è mille volte più democratica di qualsiasi democrazia borghese; il potere dei Soviet è mille volte più democratico della più democratica repubblica borghese.

Soltanto un uomo che si sia posto deliberatamente al servizio della borghesia o sia morto politicamente, un uomo cui le pagine polverose dei libri borghesi impediscono di vedere la vita che pulsa, un uomo imbevuto dei pregiudizi borghesi e quindi oggettivamente trasformatosi in lacchè della borghesia, poteva non vedere tutto questo.

Soltanto un uomo incapace di porre la questione dal punto di vista delle classi sfruttate poteva non vedere tutto questo.

Vi è forse al mondo, tra i paesi borghesi più democratici, anche un solo paese in cui l'operaio medio, comune, il salariato agricolo medio, comune, o il semiproletario delle campagne in generale (cioè i rappresentanti delle masse sfruttate, la stragrande maggioranza della popolazione) godano anche solo approssimativamente della libertà di organizzare assemblee negli edifici più belli, della libertà di servirsi, per esprimere le loro idee e per difendere i loro interessi, delle più grandi tipografie e dei migliori depositi di carta, della libertà di affidare il governo e l'«organizzazione» dello Stato precisamente ai rappresentanti della loro classe, come nella Russia dei Soviet?

Sarebbe ridicolo anche solo pensare che, in qualsiasi paese, tra mille operai e salariati agricoli che sappiano come stanno le cose, il signor Kautsky ne trovi sia pure uno che abbia dei dubbi circa la risposta da dare a questa domanda.

Gli operai di tutto il mondo, che apprendono sprazzi di verità dai giornali borghesi, simpatizzano istintivamente con la Repubblica dei Soviet appunto perché vedono in essa una democrazia proletaria, una democrazia per i poveri, e non una democrazia per i ricchi, come è in realtà ogni democrazia borghese, anche la migliore.

Noi siamo governati (e il nostro Stato è «governato») da funzionari borghesi, da parlamentari borghesi, da giudici borghesi: questa è la semplice verità, ovvia, inconfutabile che decine e centinaia di milioni di uomini appartenenti alle classi sfruttate in tutti i paesi borghesi, compresi i più democratici, conoscono per esperienza personale, sentono e costatano ogni giorno.

In Russia invece tutto l'apparato burocratico è stato spezzato, non ne è stato lasciato pietra su pietra. Tutti i vecchi giudici sono stati rimossi, il parlamento borghese è stato sciolto e appunto agli operai e ai contadini è stata data una rappresentanza molto più accessibile; i loro Soviet hanno sostituito la burocrazia o i loro Soviet sono stati messi al di sopra dei funzionari, ai loro Soviet è stata data la facoltà di eleggere i giudici. Questo solo fatto è bastato perché tutte le classi sfruttate riconoscessero il potere dei Soviet, cioè quella forma della dittatura del proletariato mille volte più democratica della più democratica repubblica borghese.

Kautsky non capisce questa verità che è chiara e intelligibile ad ogni operaio, perché «ha dimenticato», «disimparato» a porre la domanda: democrazia per quale classe? Egli ragiona dal punto di vista della democrazia «pura» (cioè senza classi? o al di fuori delle classi). Egli ragiona come Shylock: «una libbra di carne», e niente più. Uguaglianza per tutti i cittadini, altrimenti non vi è democrazia.

Bisognerà rivolgere al dotto Kautsky, al «marxista» e «socialista» Kautsky la domanda seguente: Vi può essere eguaglianza tra sfruttati e sfruttatori?

È mostruoso, è incredibile che occorra formulare una simile domanda discutendo un libro scritto dal capo ideologico della II Internazionale. Ma una volta accintisi a un compito, lo si deve condurre a termine. Ti sei messo a scrivere su Kautsky? Spiega dunque a questo dotto perché non vi può essere uguaglianza tra sfruttatori e sfruttati.

Vi può essere eguaglianza tra sfruttatori e sfruttati?

Kautsky dice:

1) «Gli sfruttatori hanno sempre costituito soltanto una piccola minoranza della popolazione» (p. 14 del suo opuscolo).

Questa è una verità incontestabile. Come si deve ragionare partendo da questa verità? Si può ragionare da marxista, da socialista, e allora si devono prendere come base i rapporti tra sfruttati e sfruttatori. Si può ragionare da liberale, da democratico borghese, e allora si devono prendere come base i rapporti tra maggioranza e minoranza.

Se si ragiona da marxisti, si deve dire: gli sfruttatori trasformano inevitabilmente lo Stato (parliamo della democrazia, cioè di una delle forme dello Stato) in uno strumento di dominio della loro classe — la classe degli sfruttatori — sugli sfruttati. Anche lo Stato democratico quindi, finché ci sono sfruttatori che esercitano il loro dominio sulla maggioranza degli sfruttati, sarà inevitabilmente una democrazia per gli sfruttatori. Lo Stato degli sfruttati deve distinguersi fondamentalmente da un simile Stato, deve essere democrazia per gli sfruttati e repressione per gli sfruttatori. Ma la repressione di una classe significa l'ineguaglianza per questa classe, la sua esclusione dalla «democrazia».

Se si ragiona da liberale, si è costretti a dire: la maggioranza decide, la minoranza ubbidisce. Chi non ubbidisce è punito. Ed è tutto. Inutile dissertare sul carattere di classe dello Stato in generale e sulla «democrazia pura» in particolare; ciò non ha a che fare con l'argomento, perché la maggioranza è maggioranza e la minoranza è minoranza. Una libbra di carne è una libbra di carne, e basta.

Kautsky ragiona precisamente così. Egli dice: 2) «Per quali ragioni il dominio del proletariato dovrebbe prendere e prenderebbe necessariamente una forma inconciliabile con la democrazia?» (p. 21). Segue quindi la spiegazione, una spiegazione molto circostanziata e prolissa, completata con una citazione di Marx e con i risultati elettorali della Comune di Parigi: il proletariato ha dalla sua parte la maggioranza. Conclusione: «Un regime che ha così profonde radici nelle masse non ha alcun motivo di violare la democrazia. Non può non ricorrere alla violenza nei casi in cui si usi la violenza per sopprimere la democrazia. Alla violenza si può rispondere unicamente con la violenza. Ma un regime che sa di avere l'appoggio delle masse, farà uso della violenza unicamente per salvaguardare la democrazia, e non per sopprimerla. Commetterebbe un vero suicidio se volesse sopprimere la sua base più sicura, il suffragio universale, sorgente profonda di una potente autorità morale» (p. 22).

Vedete quindi che il rapporto tra sfruttati e sfruttatori è scomparso nell'argomentazione di Kautsky. È rimasta unicamente la maggioranza in generale, la minoranza in generale, la «democrazia pura» che noi già conosciamo.

E notate che ciò è detto a proposito della Comune di Parigi! Vediamo dunque, per rendere chiare le cose, in qual modo Marx ed Engels affrontano la questione della dittatura a proposito della Comune:


Marx: ...Se gli operai sostituiscono la loro dittatura rivoluzionaria alla dittatura della classe borghese... per schiacciare la resistenza della classe borghese... essi gli danno [allo Stato] una forma rivoluzionaria... Engels: ... E il partito vittorioso [nella rivoluzione] se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente? Lo stesso: ...Non essendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno «Stato popolare libero» è pura assurdità; finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere... Kautsky è lontano da Marx e da Engels come il cielo dalla terra, come un liberale da un rivoluzionario proletario. La democrazia pura, la «democrazia» senza aggettivi, di cui parla Kautsky, altro non è che una perifrasi di quello stesso «Stato popolare libero», è cioè una pura assurdità. Kautsky, con l'erudizione di un dottissimo imbecille da tavolino, o con il candore di una ragazzina decenne, domanda: perché ci vuole la dittatura dal momento che si ha la maggioranza? E Marx ed Engels spiegano:

per spezzare la resistenza della borghesia, per ispirare terrore ai reazionari, per assicurare l'autorità del popolo armato di fronte alla borghesia, perché il proletariato possa schiacciare con la forza i propri nemici.

Queste spiegazioni, Kautsky non le comprende. Infatuatosi della «purezza» della democrazia, di cui non vede il carattere borghese, egli sostiene «in modo conseguente» che la maggioranza, dal momento che è maggioranza, non ha bisogno di «spezzare la resistenza» della minoranza, non ha bisogno di «schiacciarla con la forza», e che basta reprimere singoli casi di violazione della democrazia. Kautsky, infatuatosi della «purezza» della democrazia, incorre inavvertitamente nel piccolo errore che sempre commettono tutti i democratici borghesi: prende l'eguaglianza formale (profondamente menzognera e ipocrita in regime capitalista) per eguaglianza effettiva! Un'inezia!

Lo sfruttatore non può essere eguale allo sfruttato.

Questa verità, per quanto sgradita possa essere a Kautsky, è la quintessenza del socialismo.

Altra verità: non vi può essere reale ed effettiva eguaglianza finché non è eliminata qualsiasi possibilità che una classe sia sfruttata da un'altra.

Gli sfruttatori possono essere battuti di colpo, con una insurrezione riuscita al centro o un ammutinamento delle truppe. Ma, fatta eccezione di casi rarissimi ed eccezionali, non possono essere annientati di colpo. Non si possono espropriare di colpo tutti i grandi proprietari fondiari e i capitalisti di un paese più o meno grande. Inoltre l'espropriazione da sola, come semplice atto giuridico o politico, è ben lontana dal risolvere il problema, giacché è necessario destituire di fatto i grandi proprietari fondiari e i capitalisti, e sostituirli effettivamente con un'altra gestione delle fabbriche e dei fondi agrari, con una gestione operaia. Non ci può essere eguaglianza tra gli sfruttatori che per molte generazioni si sono distinti per la loro cultura, le loro condizioni di vita agiata e le loro abitudini, e gli sfruttati, che nella loro massa, anche nelle repubbliche borghesi più progredite e più democratiche, sono oppressi, incolti, ignoranti, intimoriti, disuniti. Per lungo tempo dopo la rivoluzione gli sfruttatori conservano inevitabilmente una serie di grandi vantaggi pratici: rimangono loro il denaro (che non si può sopprimere immediatamente), una certa quantità di beni mobili, spesso considerevoli; rimangono loro le relazioni, la pratica organizzativa e amministrativa, la conoscenza di tutti i «segreti» dell'amministrazione (consuetudini, procedimenti, mezzi, possibilità), rimangono loro una istruzione più elevata, strette relazioni con lo strato superiore del personale tecnico (che vive e pensa da borghese), rimane loro una conoscenza infinitamente superiore dell'arte militare (il che è molto importante), ecc. ecc.

Se gli sfruttatori sono battuti soltanto in un paese — questa è naturalmente la regola, poiché una rivoluzione simultanea in parecchi paesi è una rara eccezione — essi restano tuttavia più forti degli sfruttati, perché i legami internazionali degli sfruttatori sono immensi. Tutte le rivoluzioni, la Comune compresa, hanno finora mostrato che una parte degli sfruttati, delle masse dei contadini medi, degli artigiani, ecc. meno evoluti, segue e può seguire gli sfruttatori (infatti tra le truppe versagliesi vi erano anche dei proletari, cosa che il dottissimo Kautsky «ha dimenticato»).

In una simile situazione, pensare che in una rivoluzione più o meno seria e profonda il fattore decisivo sia semplicemente il rapporto tra maggioranza e minoranza è il massimo dell'ottusità, vuol dire ingannare le masse, nascondere loro una verità storica stabilita. Questa verità storica dice che in ogni rivoluzione profonda una resistenza lunga, tenace, disperata degli sfruttatori — che per decine di anni mantengono ancora grandi vantaggi reali sugli sfruttati — è la regola. Mai, se non nelle sentimentali fantasie di uno sciocco sentimentale quale è Kautsky, gli sfruttatori si sottometteranno alle decisioni della maggioranza degli sfruttati senza prima aver fatto uso dei loro vantaggi, in un'ultima disperata battaglia o in una serie di battaglie.

Il passaggio dal capitalismo al comunismo abbraccia un'intiera epoca storica. Finché quest'epoca non è chiusa, gli sfruttatori conservano inevitabilmente la speranza in una restaurazione, e questa speranza si traduce in tentativi di restaurazione. Anche dopo la prima disfatta seria, gli sfruttatori rovesciati, che non si aspettavano di esserlo, che non ci credevano, che non ne ammettevano neanche l'idea, si scagliano nella battaglia con energia decuplicata, con furiosa passione, con odio cento volte più intenso, per riconquistare il «paradiso» perduto alle loro famiglie, che vivevano una vita così dolce e che la «canaglia popolare» condanna ora alla rovina e alla miseria (o ad un lavoro «ordinario»...). E a rimorchio dei capitalisti sfruttatori si trascina la grande massa della piccola borghesia, la quale, come attestano decenni di esperienza storica in tutti i paesi, oscilla ed esita, oggi marcia al seguito del proletariato, domani si spaventa delle difficoltà della rivoluzione, è presa dal panico alla prima sconfitta o al primo scacco degli operai, cade in preda al nervosismo, non sa dove batter la testa, piagnucola, passa da un campo all'altro... come fanno i nostri menscevichi e i nostri socialisti-rivoluzionari.

In questa situazione, in un'epoca di guerra disperata, accanita, nella quale la storia pone all'ordine del giorno la questione di vita o di morte di privilegi secolari, parlare di maggioranza e di minoranza, di democrazia pura, dell'inutilità della dittatura, di eguaglianza tra sfruttatori e sfruttati! Quale abisso di stoltezza, quale voragine di filisteismo sono necessari per giungere a ciò!

Ma in decenni di capitalismo relativamente «pacifico», dal 1871 al 1914, si sono accumulate nei partiti socialisti, che cercano di adattarsi all'opportunismo, delle vere stalle di Augia di filisteismo, di grettezza, di apostasia.



II lettore avrà probabilmente notato che Kautsky, nel passo succitato del suo libro, parla di attentato al suffragio universale (che — sia detto tra parentesi — egli esalta come fonte profonda di una potente autorità morale, mentre Engels, a proposito della stessa Comune di Parigi e della stessa questione della dittatura, parla dell'autorità del popolo armato contro la borghesia; caratteristica la differenza tra il punto di vista del filisteo e quello del rivoluzionario circa l’ «autorità»...)

Occorre notare che la privazione del diritto di voto per gli sfruttatori è un problema puramente russo, e non già della dittatura del proletariato in generale. Se Kautsky avesse, senza ipocrisia, intitolato il suo opuscolo: «Contro i bolscevichi», questo titolo avrebbe corrisposto al contenuto del suo scritto, e Kautsky avrebbe allora potuto parlare esplicitamente del diritto di voto. Invece Kautsky ha voluto innanzitutto presentarsi come «teorico». Egli ha intitolato genericamente il suo opuscolo La dittatura del proletariato. E parla particolarmente dei Soviet e della Russia solo nella seconda parte dell'opuscolo, a partire dal paragrafo 5. Nella prima parte (da cui ho preso il passo citato) si parla di democrazia e di dittatura in generale. Trattando del diritto di voto, Kautsky si rivela un oppositore dei bolscevichi, rivela di aver messo la teoria sotto i piedi. Giacché la teoria, cioè lo studio delle basi classiste generali (e non nazionali e particolari) della democrazia e della dittatura, non deve occuparsi di una questione particolare, come il diritto di voto, ma del problema generale, e cioè: nel periodo storico in cui gli sfruttatori vengono rovesciati e il loro Stato viene sostituito da uno Stato degli sfruttati, può la democrazia essere mantenuta anche per i ricchi, per gli sfruttatori?

Così e soltanto così un teorico può porre la questione.

Noi conosciamo l'esempio della Comune, conosciamo tutto quel che hanno detto i fondatori del marxismo sulla Comune. Prendendo come base questa documentazione, nel mio opuscolo Stato e rivoluzione, scritto prima della rivoluzione d'Ottobre, ho analizzato per esempio il problema della democrazia e della dittatura. Sulla restrizione del diritto di voto non ho detto una sola parola. Ed oggi si deve dire che la restrizione del diritto di voto è una questione specificamente nazionale, e non già un problema generale della dittatura. La questione della restrizione del diritto di voto deve essere affrontata esaminando le condizioni particolari della rivoluzione russa, il corso particolare del suo sviluppo. È ciò che faremo nel seguito della nostra esposizione. Ma sarebbe un errore voler affermare in anticipo che le imminenti rivoluzioni proletarie d'Europa — tutte o la maggior parte di esse — apporteranno necessariamente una restrizione del diritto di voto per la borghesia. Può darsi che così avvenga. Dopo la guerra e dopo le esperienze della rivoluzione russa, è anzi probabile che sia così, ma ciò non è obbligatorio per l'attuazione della dittatura, non è un indizio necessario del concetto logico della dittatura, non costituisce una condizione essenziale del concetto storico e classista di dittatura.

L'indizio necessario, la condizione necessaria della dittatura è la repressione violenta degli sfruttatori come classe, e quindi la violazione della «democrazia pura», cioè dell'eguaglianza e della libertà nei riguardi di questa classe.

Così e soltanto così si deve porre la questione dal punto di vista teorico. Non avendo Kautsky posto la questione in questo modo, egli ha dimostrato di attaccare i bolscevichi non da teorico, ma da sicofante al servizio della borghesia e degli opportunisti.

In quali paesi, in quali condizioni nazionali particolari di questo o quel capitalismo verrà limitata o violata la democrazia nei confronti degli sfruttatori? Ciò dipenderà dalle particolarità nazionali di questo o quel capitalismo, di questa o quella rivoluzione. Teoricamente, la questione si pone altrimenti, e cioè: è possibile la dittatura del proletariato senza violare la democrazia nei riguardi della classe degli sfruttatori?

Kautsky ha evitato precisamente questa questione, che teoricamente è la sola importante ed essenziale. Egli ha citato tutti i passi possibili di Marx e di Engels, ad eccezione di quelli che si riferiscono a questa questione e che io ho citato sopra.

Kautsky ha parlato di tutto, di tutto ciò che è accettabile ai liberali, ai democratici borghesi, e che non esce dalla cerchia delle loro idee, ma non dice nulla della cosa principale, che il proletariato cioè non può vincere senza spezzare la resistenza della borghesia, senza reprimere con la violenza i propri avversari, e che dove vi è «repressione violenta», dove non vi è «libertà», naturalmente non vi è democrazia.

Kautsky non l'ha capito.

Passiamo ora alle esperienze della rivoluzione russa e alla divergenza tra i Soviet e l'Assemblea costituente, la quale (divergenza) portò allo scioglimento di quest'Assemblea e alla privazione del diritto di voto della borghesia.

I Soviet non hanno diritto di trasformarsi in organizzazioni statali

I Soviet sono la forma russa della dittatura proletaria. Se un teorico marxista, accintosi a scrivere sulla dittatura del proletariato, avesse realmente studiato questo fenomeno (invece di ripetere, come fa Kautsky, le querimonie piccolo-borghesi contro la dittatura ricantando le melodie mensceviche), questo teorico avrebbe dato innanzitutto la definizione generale di dittatura, ne avrebbe quindi esaminato la forma particolare, nazionale, i Soviet; avrebbe sottoposto a critica questi ultimi, come una delle forme della dittatura del proletariato.

È chiaro che non c'era da aspettarsi nulla di serio da Kautsky dopo che egli aveva «rimaneggiato» in senso liberale la dottrina di Marx sulla dittatura. Ma è sommamente caratteristico vedere come egli affronti la questione di ciò che sono i Soviet e come se la cavi.

I Soviet — egli scrive —, risalendo alla loro nascita nel 1905, hanno creato «la forma di organizzazione proletaria la più universale [umfassendste] fra tutte, poiché abbraccia tutti gli operai salariati» (p. 31). Nel 1905 essi non erano che corporazioni locali; nel 1917 sono diventati un'organizzazione di tutta la Russia.

Già ora — continua Kautsky — l'organizzazione dei Soviet ha dietro a sé una storia grande e gloriosa. Ad essa è riservata una storia più grandiosa, e non solo in Russia. Dappertutto appare come, di fronte alle forze gigantesche di cui dispone il capitale finanziario nel campo economico e politico, gli antichi metodi di lotta economica e politica del proletariato siano insufficienti [versagen, la parola tedesca è un po' più forte di «insufficienti», e un po' meno di «impotenti»]. Ma non si deve rinunciare ad essi; in tempi normali rimangono necessari, ma di quando in quando si trovano di fronte a compiti che non possono adempiere, compiti che possono essere adempiuti soltanto con l'unione di tutti i mezzi di forza politici ed economici della classe operaia (p. 32). Seguono ragionamenti sullo sciopero di massa e sul fatto che la «burocrazia sindacale», altrettanto indispensabile quanto i sindacati stessi, «è incapace di guidare le imponenti battaglie di massa che diventano sempre più un segno dei tempi»...

...Pertanto — conclude Kautsky — l'organizzazione sovietica è uno dei fenomeni più importanti della nostra epoca. Essa promette di acquistare una importanza decisiva nelle grandi battaglie decisive tra capitale e lavoro che si prospettano. Ma abbiamo il diritto di esigere di più dai Soviet? I bolscevichi che, dopo la rivoluzione del novembre 1919 [ossia dell'ottobre, secondo il nostro calendario], insieme coi socialisti-rivoluzionari di sinistra, ottennero la maggioranza nei Soviet dei deputati operai in Russia, si accinsero, dopo aver sciolto la Costituente, a fare del Soviet, che era stato sino allora l'organizzazione di combattimento di una sola classe, un 'organizzazione statale. Essi soppressero la democrazia che il popolo russo aveva conquistato nella rivoluzione di marzo [ossia febbraio secondo il nostro calendario]. In relazione a questo fatto, i bolscevichi cessarono di chiamarsi socialdemocratici, e presero il nome di comunisti (p. 33; il corsivo è di Kautsky).

Chi conosce la letteratura menscevica russa vede subito come Kautsky abbia copiato servilmente Martov, Axelrod, Stein e C. «Servilmente» appunto, giacché Kautsky, per far piacere ai pregiudizi menscevichi, snatura in modo grottesco i fatti. Kautsky, per esempio, non si è preso la pena di chiedere ai suoi informatori — Stein, che è a Berlino, o Axelrod, che è a Stoccolma — quando furono sollevate le questioni del cambiamento del nome bolscevichi in comunisti e della funzione dei Soviet come organizzazioni statali. Se Kautsky avesse chiesto questa semplice informazione non avrebbe scritto quelle righe che suscitano il riso, giacché entrambe le questioni furono sollevate dai bolscevichi nell'aprile del 1917, nelle mie Tesi, per esempio, del 4 aprile 1917, vale a dire molto tempo prima della rivoluzione d'Ottobre (per non parlare poi dello scioglimento dell'Assemblea costituente avvenuto il 5 gennaio 1918).

I ragionamenti di Kautsky, da me riportati integralmente, sono il fulcro di tutto il problema dei Soviet. Precisamente perché si tratta di sapere se i Soviet devono tendere le loro forze per diventare organizzazioni statali (nell'aprile 1917 i bolscevichi avevano lanciato la parola d'ordine: «Tutto il potere ai Soviet», e nella Conferenza del Partito bolscevico, sempre nell'aprile 1917, avevano dichiarato che la repubblica parlamentare borghese non li poteva soddisfare e che reclamavano una repubblica operaia e contadina del tipo della Comune o dei Soviet); oppure se i Soviet non devono tendere a questo scopo, non devono prendere nelle loro mani il potere e non devono diventare organizzazioni statali, ma rimanere «organizzazioni di lotta» di una sola «classe» (come disse Martov, mascherando in modo plausibile col suo pio desiderio il fatto che i Soviet sotto la direzione menscevica erano uno strumento di sottomissione degli operai alla borghesia).

Kautsky ripete servilmente le parole di Martov; prende frammenti del dibattito teorico tra bolscevichi e menscevichi e li trapianta senza critica e indiscriminatamente nel terreno teorico generale europeo. Ne vien fuori un pasticcio tale che muoverebbe al riso ogni operaio russo cosciente che venisse a conoscenza di questi ragionamenti di Kautsky.

Tutti gli operai europei (ad eccezione di un pugno di social-imperialisti incalliti) quando spiegheremo loro di che si tratta accoglieranno Kautsky con una eguale risata.

Spingendo sino all'assurdo, in maniera straordinariamente evidente, l'errore di Martov, Kautsky gli ha reso un cattivo servizio. Si veda, infatti, che cosa risulta in Kautsky.

I Soviet abbracciano tutti gli operai salariati. Contro il capitale finanziario i vecchi metodi di lotta economica e politica del proletariato sono insufficienti. I Soviet sono destinati ad avere un'immensa funzione, e non soltanto in Russia. Essi avranno una funzione decisiva nelle grandi battaglie decisive tra capitale e lavoro in Europa. Cosi dice Kautsky.

Benissimo. Le «battaglie decisive tra capitale e lavoro» risolveranno forse il problema: quale di queste due classi si impadronirà del potere statale?

Niente affatto. Dio ce ne scampi e liberi!

Nelle battaglie «decisive» i Soviet, che abbracciano tutti gli operai salariati, non devono diventare un'organizzazione statale!

E che cos'è lo Stato?

Lo Stato non è che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra.

Sicché, la classe oppressa, avanguardia di tutti i lavoratori e sfruttati nell'odierna società, deve tendere alle «battaglie decisive tra capitale e lavoro», ma non deve toccare la macchina mediante la quale il capitale opprime il lavoro! Non deve spezzare questa macchina! Non deve servirsi dell'organizzazione che abbraccia tutti i suoi componenti per reprimere gli sfruttatori!

Benissimo, signor Kautsky, ottimamente! «Noi» riconosciamo la lotta di classe come la riconoscono tutti i liberali, cioè senza il rovesciamento della borghesia!

È qui che la rottura completa di Kautsky con il marxismo e con il socialismo diventa evidente. Ciò significa di fatto passare nel campo della borghesia, la quale è disposta a concedere tutto quel che si vuole, fuorché la trasformazione delle organizzazioni della classe ad essa oppressa in organizzazioni statali. Qui Kautsky non potrà ormai salvare la sua posizione, che è la posizione di chi tutto concilia e cerca di eludere con le frasi tutte le profonde contraddizioni.

O Kautsky nega categoricamente che il potere politico debba passare alla classe operaia, o egli ammette che questa prenda nelle sue mani la vecchia macchina statale, ma non ammette in nessun caso che essa la spezzi, la distrugga, la sostituisca con una macchina statale nuova, proletaria. Che i ragionamenti di Kautsky siano «interpretati» o «spiegati» nell'uno o nell'altro senso, in entrambi i casi la sua rottura con il marxismo e il suo passaggio dalla parte della borghesia sono evidenti.

Già nel Manifesto del Partito comunista [cap. 2], indicando quale Stato occorre alla classe operaia vittoriosa, Marx scriveva: lo «Stato, vale a dire il proletariato organizzato come classe dominante». Ed ora ecco un uomo che — pur pretendendo di continuare ad essere un marxista — dichiara che il proletariato, organizzato nella sua totalità e impegnato nella «lotta decisiva» contro il capitale, non deve fare della sua organizzazione di classe un'organizzazione statale. Kautsky qui rivela quella «fede superstiziosa nello Stato», della quale Engels nel 1891 scriveva che «in Germania... si è trasportata... nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai». Lottate, operai! — «ammette» il nostro filisteo (anche il borghese lo «ammette», dal momento che gli operai lottano egualmente e non v'è che da pensare al modo di spezzare la punta della loro spada) — lottate, ma non osate vincere! Non distruggete la macchina statale della borghesia, non mettete al posto dell'«organizzazione statale» borghese un'«organizzazione statale» proletaria.

Chiunque condivida seriamente il concetto marxista secondo cui lo Stato altro non è se non una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, chiunque rifletta più o meno profondamente su questa verità non giungerà mai a un simile assurdo, ad affermare cioè che le organizzazioni proletarie capaci di vincere il capitale finanziario non debbono trasformarsi in organizzazioni statali. Questo è il punto, precisamente, che rivela il piccolo borghese, per il quale lo Stato è «nonostante tutto» qualche cosa al di fuori delle classi o al di sopra delle classi. Perché infatti dovrebbe essere permesso al proletariato, a «una sola classe», di condurre una guerra decisiva contro il capitale — il quale esercita il suo dominio non solo sul proletariato, ma su tutto il popolo, su tutta la piccola borghesia, su tutti i contadini — ma non sarebbe permesso al proletariato, a «questa sola classe», di trasformare la sua organizzazione in una organizzazione statale? Perché il piccolo borghese ha paura della lotta di classe e non la conduce sino alla sua logica conclusione, sino all'obiettivo principale, sino al punto principale!

Kautsky è caduto in un garbuglio inestricabile e si è smascherato in pieno. Egli stesso riconosce, notatelo, che l'Europa va incontro a battaglie decisive tra capitale e lavoro, e che i vecchi metodi di lotta economica e politica del proletariato sono insufficienti. Ma questi metodi consistevano appunto nella utilizzazione della democrazia borghese. E allora?...

Kautsky non ha osato trarre la conclusione logica.

...Quindi, soltanto un reazionario, un nemico della classe operaia, un lacchè della borghesia può ora descrivere le delizie della democrazia borghese, chiacchierare di democrazia pura, rivolto a un passato che ha fatto il suo tempo. La democrazia borghese era progressiva in confronto al regime medioevale, e bisognava utilizzarla. Ma oggi è insufficiente per la classe operaia. Oggi non si deve guardare indietro, ma avanti, verso la sostituzione della democrazia borghese con la democrazia proletaria. E sebbene il lavoro preparatorio per la rivoluzione proletaria, l'istruzione e la formazione dell'esercito proletario, sia stato possibile (e necessario) nel quadro dello Stato democratico borghese, poiché siamo giunti alle «battaglie decisive», rinchiudere il proletariato entro questi confini significa tradire la causa del proletariato, significa essere un rinnegato.

Kautsky è caduto in una situazione particolarmente ridicola ripetendo un argomento di Martov, senza accorgersi che in Martov questo argomento si appoggia su un altro, che in Kautsky manca! Martov dice (e Kautsky ripete) che la Russia non è ancora matura per il socialismo, dal che naturalmente consegue che è ancora troppo presto per trasformare i Soviet da organi di lotta in organizzazioni statali (leggi: è opportuno, con l'aiuto dei capi menscevichi, trasformare i Soviet in strumenti per sottomettere i lavoratori alla borghesia imperialista). Kautsky infatti non può dire esplicitamente che l'Europa non è matura per il socialismo. Nel 1909, quando non era ancora un rinnegato, scrisse che ormai non si doveva più temere una rivoluzione prematura, e che sarebbe stato un traditore colui che, per paura della sconfitta, avesse rinunciato alla rivoluzione. Kautsky non osa smentire apertamente ciò che diceva allora. E ne risulta un'assurdità che smaschera sino in fondo tutta la sua stoltezza e la sua viltà di piccolo borghese: da un lato l'Europa è matura per il socialismo e s'avvia verso le battaglie decisive del lavoro contro il capitale, e dall'altro lato non si deve trasformare una organizzazione di lotta (che cioè si forma, si sviluppa, si rafforza nella lotta), l'organizzazione del proletariato — avanguardia, organizzatore e capo degli oppressi — in una organizzazione statale!



Dal punto di vista della politica pratica, l'idea che i Soviet siano necessari come organizzazioni di lotta, ma non debbano trasformarsi in organizzazioni statali, è infinitamente più assurda che dal punto di vista teorico. Perfino in tempo di pace, quando non vi è una situazione rivoluzionaria, la lotta di massa degli operai contro i capitalisti, per esempio lo sciopero di massa, suscita una terribile esasperazione da ambo le parti, una lotta estremamente appassionata; la borghesia non cessa di ripetere che essa è e vuol rimanere «padrona in casa propria», ecc.

Orbene, durante la rivoluzione, quando la vita politica diventa impetuosa, un'organizzazione quale sono i Soviet, che abbracciano tutti gli operai di tutte le branche industriali, e inoltre tutti i soldati e l'intiera popolazione lavoratrice e povera delle campagne, è necessariamente portata dal corso della lotta, dalla semplice «logica» dell'attacco e della resistenza, a porre la questione in pieno. Tentare di prendere una posizione intermedia, di «conciliare» il proletariato con la borghesia, è cosa stolta e destinata a fallire miseramente. Ciò accadde in Russia alle prediche di Martov e degli altri menscevichi, così accadrà inevitabilmente in Germania e negli altri paesi, se i Soviet avranno uno sviluppo più o meno largo e avranno il tempo di unirsi e di rafforzarsi. Dire ai Soviet: lottate, ma non prendete nelle vostre mani tutto il potere statale, non diventate delle organizzazioni statali, vuol dire predicare la collaborazione delle classi e la «pace sociale» tra proletariato e borghesia, È ridicolo anche solo pensare che, nel parossismo della lotta, una simile posizione possa condurre ad altro che a un fallimento vergognoso. Sedere tra due sedie è l'eterna sorte di Kautsky. Egli finge di non essere d'accordo su nessun punto della teoria con gli opportunisti, ma in realtà, nella pratica, è d'accordo con loro in tutto ciò che è essenziale (vale a dire in tutto ciò che concerne la rivoluzione).

L'Assemblea costituente e la Repubblica sovietica

La questione dell'Assemblea costituente e del suo scioglimento ad opera dei bolscevichi, ecco il punto centrale dell'opuscolo su cui Kautsky ritorna continuamente. Tutto lo scritto del capo ideologico della II Internazionale abbonda di accenni al fatto che i bolscevichi «hanno soppresso la democrazia» (si veda una delle citazioni riportate sopra). La questione è realmente interessante e importante poiché il problema del rapporto tra democrazia borghese e democrazia proletaria si pone qui praticamente di fronte alla rivoluzione. Vediamo quindi come il nostro «teorico marxista» tratta la questione.

Egli cita le Tesi sull'Assemblea costituente da me scritte, e pubblicate nella Pravda del 26 dicembre 1917. Parrebbe questa la prova migliore del modo serio con cui Kautsky, documenti alla mano, affronta la questione. Si osservi tuttavia in qual modo procede Kautsky nelle citazioni. Egli non dice che le tesi erano 19, né dice che in esse era posto il problema sia del rapporto tra un'ordinaria repubblica borghese — con la sua Assemblea costituente — e la Repubblica dei Soviet, sia della storia del disaccordo manifestatosi nella nostra rivoluzione tra l'Assemblea costituente e la dittatura del proletariato. Kautsky elude tutto ciò, e dichiara semplicemente al lettore che «due di esse [di queste tesi] sono particolarmente importanti»: l'una afferma che ci fu una scissione fra i socialisti-rivoluzionari dopo le elezioni all'Assemblea costituente, ma prima della convocazione di quest'ultima (Kautsky non dice che questa è la quinta tesi); l'altra, che la Repubblica dei Soviet è in generale una forma di democrazia superiore all'Assemblea costituente (Kautsky non dice che questa è la terza tesi).

E di questa terza tesi Kautsky cita integralmente soltanto il seguente passo:

«La Repubblica dei Soviet non soltanto è una forma di istituto democratico di tipo più elevato (in confronto a una comune repubblica borghese che abbia un'Assemblea costituente come coronamento), ma anche l'unica forma capace di assicurare il passaggio al socialismo nel modo meno doloroso». (Kautsky omette la parola «comune» e le parole d'introduzione della tesi: «Per il passaggio dal regime borghese a quello socialista, per la dittatura del proletariato»).

Citate queste parole, Kautsky esclama con brillante ironia:

Peccato che si sia venuti a questa conclusione soltanto dopo esser rimasti in minoranza nell'Assemblea costituente! Prima nessuno l'aveva reclamata più clamorosamente di Lenin. Cosi è detto testualmente a p. 31 del libro di Kautsky!

Ed è veramente una perla! Solo un sicofante al servizio della borghesia poteva presentare le cose sotto una luce così falsa per dare al lettore l'impressione che tutti i discorsi dei bolscevichi sul tipo superiore di Stato fossero stati inventati soltanto dopo che essi si erano trovati in minoranza nell'Assemblea costituente!! Una menzogna così ignobile poteva uscire soltanto dalla bocca.di un miserabile venduto alla borghesia o, il che è assolutamente lo stesso, di qualcuno che ha fiducia in P. Axelrod e nasconde la fonte delle sue informazioni.

Infatti tutti sanno che fin dal primo giorno del mio arrivo in Russia, il 4 aprile 1917, lessi pubblicamente le tesi nelle quali proclamavo la superiorità di uno Stato del tipo della Comune sulla repubblica parlamentare borghese. Lo dichiarai più tardi ripetutamente per iscritto, per esempio nel mio opuscolo sui partiti politici, tradotto in inglese e pubblicato in America nel gennaio 1918 sull'Evening Post di New York. Né ciò basta. La Conferenza del Partito bolscevico tenutasi alla fine dell'aprile 1917 costatava in una risoluzione che la repubblica proletaria e contadina è superiore alla repubblica parlamentare borghese, che quest'ultima non poteva soddisfare il nostro partito, e che il programma del partito doveva essere conformemente modificato.

Come qualificare, dopo questo, il gesto di Kautsky, il quale assicura ai lettori tedeschi che io avrei chiesto clamorosamente la convocazione dell'Assemblea costituente, e solo dopo che i bolscevichi vi erano rimasti in minoranza avrei cominciato a «sminuirne» l'onore e la dignità? Come giustificare un tale gesto? Col fatto che Kautsky non sarebbe stato al corrente delle cose? E allora perché mettersi a parlarne? o perché non dichiarare onestamente: io, Kautsky, scrivo sulla base delle informazioni fornitemi dai menscevichi Stein, P. Axelrod e C.? Ma Kautsky, con la sua pretesa di obiettività, vuol nascondere la sua funzione di lacchè dei menscevichi, esasperati dalla disfatta.

Ma questi non sono che i fiori, i frutti verranno poi.

Ammettiamo che Kautsky non abbia voluto o non abbia potuto ( ? ? ) avere dai suoi informatori la traduzione delle risoluzioni e delle dichiarazioni bolsceviche sulla questione se i bolscevichi si accontentavano o no della repubblica democratica parlamentare borghese. Ammettiamolo pure, benché la cosa sia inverosimile. Ma le mie tesi del 26 dicembre 1917, Kautsky le menziona espressamente a p. 30 del suo libro.

Conosce Kautsky il testo integrale di queste tesi o conosce soltanto ciò che gli è stato tradotto dagli Stein, dagli Axelrod e C.? Kautsky cita la terza tesi sulla questione fondamentale; prima delle elezioni all'Assemblea costituente i bolscevichi si rendevano conto del fatto che la Repubblica dei Soviet è superiore alla repubblica borghese e l'avevano detto al popolo? Ma Kautsky non fa parola della seconda tesi.

E la seconda tesi dice:

La socialdemocrazia rivoluzionaria, ponendo la rivendicazione della convocazione dell'Assemblea costituente, ha sottolineato a più riprese, sin dall'inizio della rivoluzione del 1917, che la Repubblica dei Soviet è una forma di democrazia più elevata di una comune repubblica borghese con una Assemblea costituente (il corsivo è mio). Per rappresentare i bolscevichi come uomini senza principi, come «opportunisti rivoluzionari» (Kautsky usa questa espressione, non ricordo a quale proposito, in qualche parte del suo libro), il signor Kautsky ha nascosto ai lettori tedeschi che le tesi si richiamano direttamente a «ripetute » dichiarazioni precedenti!

Sono questi i piccoli, meschini e spregevoli espedienti di cui si serve il signor Kautsky. E così egli elude la questione teorica.

È vero o non è vero che la repubblica democratica parlamentare borghese è inferiore a una repubblica del tipo della Comune o del tipo dei Soviet? Il nodo della questione è questo, e Kautsky l'ha lasciato da parte. Egli «ha dimenticato» tutto ciò che Marx ha detto nella sua analisi della Comune di Parigi, «ha dimenticato» anche la lettera di Engels a Bebel del 28 marzo 1875, nella quale è espresso in modo particolarmente chiaro ed esplicito lo stesso pensiero di Marx: «La Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola».

Ed ecco: il più eminente teorico della II Internazionale, in un opuscolo dedicato alla Dittatura del proletariato e che tratta particolarmente della Russia, dove è stata posta direttamente e ripetutamente la questione di una forma di Stato superiore alla repubblica democratica borghese, tace su questa questione. In che cosa ciò differisce di fatto dal passaggio nel campo della borghesia?

(Notiamo tra parentesi che anche qui Kautsky si trascina a rimorchio dei menscevichi russi. Fra questi ultimi, di uomini che conoscono «tutti i testi» di Marx e di Engels ne troverete a profusione, ma non vi è un solo menscevico che nel periodo dall'aprile 1917 all'ottobre 1917, e dall'ottobre 1917 all'ottobre 1918 abbia provato una sola volta ad analizzare la questione di uno Stato del tipo della Comune. Anche Plekhanov ha eluso la questione. Ha preferito tacere, evidentemente).

È ovvio che parlare dello scioglimento dell'Assemblea costituente con uomini i quali si dicono socialisti e marxisti, ma che di fatto nella questione essenziale, la questione di uno Stato del tipo della Comune, passano dalla parte della borghesia, sarebbe gettare perle ai porci. Basterà pubblicare integralmente in appendice al presente opuscolo le mie tesi sull'Assemblea costituente. Il lettore vedrà che la questione fu posta il 26 dicembre 1917 dal punto di vista teorico, storico e politico-pratico.

Se Kautsky come teorico ha rinnegato interamente il marxismo, avrebbe potuto come storico studiare la questione della lotta tra i Soviet e l'Assemblea costituente. Molte opere di Kautsky attestano che egli sa essere uno storico marxista; questi suoi lavori sono un patrimonio duraturo del proletariato, nonostante la posteriore apostasia del loro autore. Ma in questa questione Kautsky, anche come storico, volta le spalle alla verità, ignora fatti universalmente noti, si comporta da sicofante. Egli vorrebbe rappresentare i bolscevichi come uomini senza princìpi, e racconta come essi tentarono di mitigare il conflitto con l'Assemblea costituente prima di scioglierla. Non vi è qui assolutamente nulla di male; non abbiamo nulla da smentire; io pubblico integralmente le mie tesi nelle quali è detto, chiaro come il sole: signori piccoli borghesi esitanti che vi siete insediati nell'Assemblea costituente, o vi rassegnate alla dittatura del proletariato, o vi vinceremo «con mezzi rivoluzionari» (tesi 18 e 19).

Così ha sempre agito e sempre agirà verso la piccola borghesia esitante il proletariato veramente rivoluzionario.

Nella questione dell'Assemblea costituente Kautsky si attiene al punto di vista formale. Nelle mie tesi ho detto chiaramente e a più riprese che gli interessi della rivoluzione stanno al di sopra dei diritti formali dell'Assemblea costituente (si vedano le tesi 16 e 17). Il punto di vista democratico formale è precisamente il punto di vista del democratico borghese, il quale non ammette che gli interessi del proletariato e della lotta di classe proletaria siano al di sopra di tutti. Come storico, Kautsky non avrebbe potuto non ammettere che i parlamenti borghesi sono organi di questa o quella classe. Ma in questo caso ha dovuto (per il sordido proposito di rinnegare la rivoluzione) dimenticare il marxismo, e non pone la domanda: di quale classe l'Assemblea costituente in Russia era l'organo? Kautsky non analizza la situazione concreta, non vuole considerare i fatti; tace ai lettori tedeschi che nelle tesi non solo è lumeggiata teoricamente la questione del carattere ristretto della democrazia borghese (tesi 1-3), non solo sono esaminate le condizioni concrete che fecero si che le liste dei partiti compilate alla metà di ottobre 1917 non corrispondessero alla realtà del dicembre 1917 (tesi 4-6), ma è esaminata anche la storia della lotta di classe e della guerra civile nel periodo ottobre-dicembre 1917 (tesi 7-15). Da questa storia concreta noi avevamo tratto la conclusione (tesi 14) che la parola d'ordine «Tutto il potere all'Assemblea costituente» era divenuta di fatto la parola d'ordine dei cadetti, dei seguaci di Kaledin e dei loro complici.

Lo storico Kautsky non nota tutto ciò. Lo storico Kautsky non ha mai sentito dire che il suffragio universale dà origine a parlamenti talvolta piccolo-borghesi, talvolta reazionari e controrivoluzionari. Lo storico marxista Kautsky non ha mai sentito dire che una cosa è la forma delle elezioni, la forma di una democrazia, e un'altra è il contenuto di classe di un dato istituto. La questione del contenuto di classe dell'Assemblea costituente è posta nettamente e risolta nelle mie tesi. Può darsi che la mia soluzione sia sbagliata. Nulla sarebbe a noi più gradito di una critica marxista alla nostra analisi mossa dal di fuori. Invece di scrivere sciocche frasi (che in Kautsky abbondano) circa la pretesa di qualcuno di impedire che il bolscevismo sia criticato, Kautsky avrebbe dovuto accingersi a fare questa critica. Ma il fatto è che in lui non c'è critica. Egli non pone nemmeno la questione di fare un'analisi classista dei Soviet da una parte e dell'Assemblea costituente dall'altra. È impossibile quindi discutere, polemizzare con lui, e non rimane altro che dimostrare al lettore perché Kautsky non può essere chiamato altrimenti che rinnegato.

Il disaccordo tra i Soviet e l'Assemblea costituente ha una sua storia, che non può essere ignorata nemmeno da uno storico che guardi ai fatti non dal punto di vista della lotta di classe. Kautsky non ha voluto sfiorare nemmeno questi fatti storici. Egli ha nascosto ai lettori tedeschi il fatto universalmente noto (che oggi celano soltanto i peggiori menscevichi) che i Soviet, anche durante il dominio dei menscevichi, cioè dalla fine di febbraio all'ottobre 1917, erano in disaccordo con gli istituti «statali» (cioè borghesi). Kautsky è in fondo per la conciliazione, l'accordo, la collaborazione del proletariato con la borghesia. Ha un bel negarlo: che questa sia la sua opinione è un fatto confermato da tutto il suo opuscolo. Non si doveva sciogliere l'Assemblea costituente: ciò vuol dire che non si doveva condurre sino in fondo la lotta contro la borghesia, non si doveva rovesciarla, il proletariato doveva mettersi d'accordo con la borghesia.

Ma perché dunque Kautsky non dice parola del fatto che i menscevichi dal febbraio all'ottobre 1917 si accinsero a questo inglorioso lavoro e non approdarono a nulla? Se era possibile conciliare la borghesia con il proletariato, perché dunque i menscevichi non ci riuscirono? perché la borghesia si teneva in disparte dai Soviet? perché i Soviet venivano chiamati (dai menscevichi) «democrazia rivoluzionaria» e la borghesia «elementi censitari»?

Kautsky ha nascosto ai lettori tedeschi che precisamente i menscevichi, nell'«epoca» del loro predominio (febbraio-ottobre 1917), chiamarono i Soviet democrazia rivoluzionaria, riconoscendo la loro superiorità su tutti gli altri istituti. Soltanto nascondendo questo fatto lo storico Kautsky è riuscito a rappresentare le cose come se il disaccordo tra i Soviet e la borghesia non avesse una sua storia, fosse sopravvenuto subitamente, all'improvviso, senza motivi, in seguito alla cattiva condotta dei bolscevichi. In realtà appunto l'esperienza di più di sei mesi (periodo molto lungo per una rivoluzione) di attività conciliatrice menscevica, di tentativi per mettere d'accordo il proletariato con la borghesia, convinse il popolo della sterilità di tali tentativi e allontanò il proletariato dai menscevichi.

I Soviet, riconosce Kautsky, sono un'ottima organizzazione di lotta del proletariato, la quale ha davanti a sé un grande avvenire. Ma se è così, tutta la posizione di Kautsky precipita come un castello di carte o come il sogno di un piccolo borghese che crede si possa evitare un'aspra lotta del proletariato contro la borghesia. Infatti la rivoluzione è una lotta continua e per di più accanita, e il proletariato è la classe d'avanguardia di tutti gli oppressi, il fulcro e il centro di tutte le aspirazioni di emancipazione di tutti gli oppressi., Naturalmente i Soviet — organi di lotta delle masse oppresse — riflettevano ed esprimevano lo stato d'animo e i cambiamenti di idee di queste masse in modo infinitamente più rapido, più completo, più fedele che non qualsiasi altro organismo (è questa del resto una delle ragioni per cui la democrazia sovietica è il tipo più elevato di democrazia).

Dal 28 febbraio al 25 ottobre (vecchio calendario) 1917, i Soviet poterono convocare due congressi nazionali di rappresentanti dell'immensa maggioranza della popolazione della Russia, di tutti gli operai e soldati, dei sette od otto decimi dei contadini, senza contare la gran quantità di congressi locali, distrettuali, di città, di governatorato e regionali. Durante questo periodo la borghesia non riuscì a convocare un solo organismo che rappresentasse la maggioranza (all'infuori della «Conferenza democratica» manifestamente contraffatta, vero insulto al proletariato, del quale suscitò la collera). L'Assemblea costituente rispecchiava lo stesso stato d'animo delle masse, gli stessi raggruppamenti politici manifestatisi nel I Congresso dei Soviet (in giugno). Nel momento della convocazione dell'Assemblea costituente (gennaio 1918) si tennero il II (ottobre 1917) e il III (gennaio 1918) Congresso dei Soviet, che dimostrarono entrambi nel modo più lampante che le masse erano andate a sinistra, avevano acquistato una coscienza rivoluzionaria, si erano allontanate dai menscevichi e dai socialisti-rivoluzionari, erano passate dalla parte dei bolscevichi; avevano cioè voltato le spalle ai dirigenti piccolo-borghesi, alle illusioni di un accordo con la borghesia ed erano passate dalla parte della lotta rivoluzionaria proletaria per il rovesciamento della borghesia.

Anche la sola storia esterna dei Soviet dimostra quindi l'inevitabilità dello scioglimento dell'Assemblea costituente e il carattere reazionario di quest'ultima. Tuttavia Kautsky si attiene fermamente alla sua «parola d'ordine»: perisca la rivoluzione, trionfi la borghesia sul proletariato, purché prosperi la «democrazia pura»! Fiat justitia, pereat mundus!

Ecco alcune cifre che illustrano la composizione dei congressi panrussi dei Soviet nel corso della rivoluzione russa: Congressi panrussi dei Soviet

Numero dei delegati

Numero dei bolscevichi

% dei bolscevichi

Primo (3 VI 1917)

790

103

13

Secondo (25 X 1917)

675

343

51

Terzo (10 I 1918)

710

434

61

Quarto (14 III 1918)

1232

795

64

Quinto (4 VII 1918)

1164

773

66

Basta dare uno sguardo a queste cifre per capire perché gli argomenti in favore dell'Assemblea costituente o i discorsi di coloro che (come Kautsky) affermano che i bolscevichi non hanno con loro la maggioranza della popolazione sono da noi accolti unicamente con una risata.

La Costituzione sovietica

Come ho già detto, il fatto di privare la borghesia dei diritti elettorali non è necessariamente e obbligatoriamente un indizio della dittatura del proletariato. Neanche in Russia i bolscevichi, che già molto prima dell'Ottobre avevano lanciato la parola d'ordine della dittatura proletaria, avevano precedentemente parlato di sopprimere i diritti elettorali degli sfruttatori. Questo elemento della dittatura non è nato «in base al piano prestabilito» di un partito, ma è sorto spontaneamente nel corso della lotta. Naturalmente lo storico Kautsky non se ne è accorto. Non ha capito che fin da quando i menscevichi (fautori della conciliazione con la borghesia) predominavano nei Soviet, la borghesia si era staccata dai Soviet, li boicottava, li contrastava, intrigava contro di essi. I Soviet sorsero senza alcuna Costituzione, e per più di un anno (dalla primavera del 1917 all'estate del 1918) esistettero senza nessuna Costituzione. La rabbia della borghesia contro questa organizzazione degli oppressi, indipendente e onnipotente (perché abbracciava tutti), la lotta — e occorre aggiungere la lotta senza scrupoli, egoista e sordida — impegnata dalla borghesia contro i Soviet, la partecipazione manifesta, infine, della borghesia (dai cadetti ai socialisti-rivoluzionari di destra, da Miliukov a Kerenski) all'avventura di Kornilov, tutto ciò preparò la sua esclusione formale dai Soviet.

Kautsky ha sentito parlare dell'avventura di Kornilov, ma con sovrano disdegno se ne infischia dei fatti storici, del corso e delle forme della lotta che determinano le forme della dittatura. Invero, che c'entrano i fatti con la democrazia «pura»? La «critica» di Kautsky alla soppressione dei diritti elettorali della borghesia si distingue quindi per una... così dolce ingenuità che sarebbe commovente in un bambino, ma suscita disgusto in un individuo non ancora riconosciuto ufficialmente debole di mente.

...«Se in regime di suffragio universale i capitalisti si fossero trovati in infima minoranza, si sarebbero più rapidamente rassegnati alla loro sorte» (p. 33)... Graziosa nevvero? L'intelligente Kautsky ha visto molte volte nella storia e naturalmente ha osservato più volte nella vita che ci sono dei proprietari fondiari e dei capitalisti che tengono conto della volontà della maggioranza degli oppressi. L'intelligente Kautsky si attiene fermamente al punto di vista dell'«opposizione», cioè al punto di vista della lotta parlamentare. E scrive testualmente «opposizione» (p. 34 e altrove).

Oh, dotto storico e politico! Non sarebbe per voi di troppo sapere che il concetto di «opposizione» implica soltanto la lotta pacifica e parlamentare, è un concetto cioè rispondente a una situazione non rivoluzionaria, caratterizzata dall'assenza della rivoluzione. Nella rivoluzione si ha a che fare con un nemico implacabile nella guerra civile, e tutte le geremiadi reazionarie di un piccolo borghese, che teme, come Kautsky, questa guerra, non potranno mutare questo fatto. Considerare dal punto di vista dell'«opposizione» i problemi della guerra civile implacabile, nel momento in cui la borghesia non rifugge da nessun crimine — l'esempio dei versagliesi e delle loro transazioni con Bismarck possono insegnare qualcosa a chiunque tratti la storia altrimenti che il Petruscka di Gogol —, nel momento in cui la borghesia chiama in suo soccorso gli Stati stranieri e intriga con loro contro la rivoluzione, è cosa ridicola. Il proletariato rivoluzionario, sull'esempio del «consigliere della confusione» Kautsky, dovrebbe mettersi la berretta da notte e considerare la borghesia, che organizza le insurrezioni controrivoluzionarie di Dutov, di Krasnov, dei cechi e spende milioni per sovvenzionare dei sabotatori, come un'«opposizione» legale. Quale profondità di pensiero!

A Kautsky interessa esclusivamente il lato formale, il lato giuridico della questione, e leggendo le sue dissertazioni sulla Costituzione sovietica vien fatto di pensare alle parole di Bebel: i giuristi sono reazionari dalla testa ai piedi. «In realtà — scrive Kautsky — non si possono privare dei diritti i soli capitalisti. Che cos'è un capitalista nel senso giuridico? Un possidente? Persino in un paese così avanzato sulla via del progresso economico com'è la Germania, che ha un proletariato così numeroso, l'instaurazione di una repubblica sovietica priverebbe grandi masse di gente dei diritti politici. Nel 1907 nell'impero tedesco il numero delle persone occupate nei tre grandi rami — agricoltura, industria e commercio — abbracciava, comprese le loro famiglie, circa 35 milioni di unità nel gruppo degli impiegati e operai salariati, e 17 milioni nel gruppo degli indipendenti. Un partito potrebbe dunque benissimo raggruppare la maggioranza degli operai salariati, e tuttavia costituire la minoranza della popolazione» (p. 33).

Ecco un piccolo saggio dei ragionamenti di Kautsky. Ebbene, non è forse questo il piagnucolio controrivoluzionario di un borghese? Perché dunque, signor Kautsky, classificare tutti gli «indipendenti» tra coloro che sono privi di diritti, pur sapendo che l'immensa maggioranza dei contadini russi non impiega operai salariati, e quindi non è stata privata dei diritti? Non è forse questa una falsificazione?

Perché voi, dotto economista, non avete citato i dati a voi ben noti sul lavoro salariato nell'agricoltura per gruppi di aziende, contenuti nella statistica tedesca del 1907? Perché non avete dato agli operai tedeschi, lettori del vostro opuscolo, questi dati, dai quali si potrebbe vedere quanti sono gli sfruttatori e come è piccolo il loro numero nel complesso dei «proprietari agricoli», calcolati dalla statistica tedesca?

Perché la vostra apostasia ha fatto di voi un sicofante al servizio della borghesia.

Il termine capitalista, vedete, è un concetto giuridico indeterminato, e Kautsky per parecchie pagine tuona contro l'«arbitrio» della Costituzione sovietica. Alla borghesia inglese questo «coscienzioso erudito» permette di elaborare e di rifinire per secoli e secoli una Costituzione borghese (nuova per il Medioevo); ma a noi, operai e contadini russi, questo rappresentante di una scienza servile non dà alcun respiro. Da noi egli pretende in pochi mesi una Costituzione elaborata in ogni particolare.

...«Arbitrio»! Pensate dunque quale abisso di sordido servilismo verso la borghesia, di ottusa pedanteria è racchiuso in questo rimprovero! Quando nei paesi capitalisti i giuristi, borghesi sino alle midolla e per la massima parte reazionari, nel corso di secoli o di decenni hanno elaborato i regolamenti più minuziosi, e scritto decine e centinaia di volumi di leggi e di commenti alle leggi che opprimevano l'operaio, che mantenevano il povero mani e piedi legati e mettevano tra i piedi di ogni semplice lavoratore, di ogni uomo del popolo mille cavilli e ostacoli, oh, i liberali borghesi e il signor Kautsky non vedevano in questo nessun «arbitrio»! Qui regna l'«ordine» e la «legalità»! Qui tutto è calcolato e codificato per «spremere» in tutti i modi il povero diavolo. Qui vi sono migliaia di avvocati e di funzionari borghesi (dei quali Kautsky, in generale, non fa parola, probabilmente perché Marx attribuiva un'enorme importanza alla distruzione della macchina burocratica...), avvocati e funzionari che sanno interpretare le leggi in maniera tale che all'operaio e al contadino medio sia impossibile sfondare il reticolato di queste leggi. Questo non è «arbitrio» della borghesia, non è dittatura di avidi e sordidi sfruttatori, che si nutrono del sangue del popolo. Niente, affatto. È «democrazia pura», che diventa di giorno in giorno sempre più pura.

Ma quando le classi lavoratrici e sfruttate, separate dalla guerra imperialista dai fratelli d'oltre frontiera, per la prima volta nella storia hanno costituito i loro Soviet, hanno chiamato all'edificazione politica le masse che la borghesia opprimeva, schiacciava, abbruttiva e hanno cominciato esse stesse a costruire uno Stato nuovo, proletario, e ad abbozzare, nell'ardore di una lotta furiosa, nel fuoco della guerra civile, le tesi fondamentali dello Stato senza sfruttatori, allora tutta la canaglia borghese, tutta la banda dei vampiri, col loro tirapiedi Kautsky, gridano all’«arbitrio»! Come volete infatti che questi «ignoranti operai e contadini, questa plebe», sappiano interpretare le sue leggi? Dove volete che questi semplici lavoratori prendano il senso della giustizia se non si servono dei consigli di avvocati colti e di scrittori borghesi, dei Kautsky e dei vecchi funzionari pieni di saggezza?

Il signor Kautsky cita dal mio discorso del 29 aprile 1918 queste parole: ...«Le masse stesse determinano la procedura e la data delle elezioni»... E Kautsky, il «democratico puro», ne deduce:

...Ogni assemblea elettorale stabilisce quindi a proprio piacere la procedura delle elezioni. L'arbitrio e la possibilità di disfarsi di incomodi elementi di opposizione nel seno stesso del proletariato sarebbero così portati al massimo grado (p. 37). In che cosa questo differisce dunque dai discorsi di un servile pennaiolo al soldo dei capitalisti, che durante uno sciopero leva alte grida a proposito della violenza che le masse esercitano sugli operai diligenti «che desiderano lavorare»? Perché la procedura delle elezioni stabilita in modo burocratico borghese nella democrazia borghese «pura» non è arbitraria? Perché il senso della giustizia deve essere più debole nelle masse che si sono sollevate alla lotta contro i loro secolari sfruttatori e si sono illuminate e temprate in questa lotta accanita, che non in un pugno di funzionari, di intellettuali, di avvocati, educati nello spirito dei pregiudizi borghesi?

Kautsky è un socialista autentico; non osate mettere in dubbio la buona fede di questo onorevolissimo padre di famiglia, di questo onestissimo cittadino! Egli è un fautore ardente e convinto della vittoria degli operai, della rivoluzione proletaria. Egli vorrebbe soltanto che gli untuosi intellettuali piccolo-borghesi e i filistei in berretta da notte compilassero, prima che le masse si mettano in moto, prima che esse lottino accanitamente contro gli sfruttatori, e assolutamente senza guerra civile, un moderato ed accurato statuto dello sviluppo della rivoluzione...

Pieno di profondo sdegno morale, il nostro dottissimo Iuduscka Golovliov racconta agli operai tedeschi che il 14 giugno 1918 il Comitato esecutivo centrale dei Soviet di Russia ha deciso di escludere dai Soviet i rappresentanti del partito socialista-rivoluzionario di destra e dei menscevichi. «Questo provvedimento — scrive Iuduscka Kautsky, infiammato di nobile sdegno — non è rivolto contro determinate persone che hanno compiuto determinati atti passibili di punizione... La Costituzione della Repubblica sovietica non parla affatto dell'immunità dei deputati dei Soviet. Non determinate persone, ma determinati partiti sono così esclusi dai Soviet» (p. 37).

Si, è terribile, infatti, è una deviazione inammissibile dalla democrazia pura, secondo le cui regole il nostro rivoluzionario Iuduscka Kautsky vuol fare la rivoluzione. Noi, bolscevichi russi, avremmo dapprima dovuto promettere l'immunità ai Savinkov e C., ai Liberdan e ai Potresov (agli «attivisti») e C., e redigere quindi un codice penale il quale dichiarasse «passibile di punizione» la partecipazione alla guerra controrivoluzionaria dei cecoslovacchi o l'alleanza in Ucraina o in Georgia con gli imperialisti tedeschi contro gli operai del proprio paese, e allora soltanto, sulla base di questo codice, avremmo avuto il diritto, secondo lo spirito della «democrazia pura», di escludere dai Soviet «determinate persone». È ovvio che i cecoslovacchi i quali, per mezzo dei Savinkov, dei Potresov, dei Liberdan, o grazie alla loro propaganda, ricevevano denaro dai capitalisti anglo-francesi, e così pure i Krasnov, che ricevevano munizioni dai tedeschi con l'aiuto dei menscevichi dell'Ucraina e di Tiflis, avrebbero tranquillamente atteso che noi avessimo compilato un regolare codice penale e, da purissimi democratici, si sarebbero accontentati della funzione di «opposizione».

Uno sdegno morale non meno profondo suscita in Kautsky il fatto che la Costituzione sovietica priva dei diritti elettorali coloro che «impiegano a scopo di profitto operai salariati». «Un operaio a domicilio o un piccolo padrone che impiega un apprendista — scrive Kautsky — può avere una vita e dei sentimenti veramente proletari, eppure non gode del diritto di voto» (p. 36).

Quale deviazione dalla «democrazia pura»! Quale iniquità! È vero che sinora tutti i marxisti hanno pensato, e migliaia di fatti lo hanno confermato, che i piccoli padroni sono i peggiori sfruttatori degli operai salariati, quelli più privi di scrupoli, ma Iuduscka Kautsky naturalmente non considera la classe dei piccoli padroni (chi ha escogitato questa dannosa teoria della lotta di classe?), ma singoli individui, gli sfruttatori che «hanno una vita e sentimenti veramente proletari». La famosa «Agnese l'economa», che si credeva morta da molto tempo, risuscita sotto la penna di Kautsky. Questa Agnese l'economa alcuni decenni or sono fu creata e messa in circolazione nella letteratura tedesca da un democratico «puro», il borghese Eugen Richter. Costui profetizzava sventure indicibili, che dovevano portare con sé la dittatura del proletariato e la confisca del capitale degli sfruttatori; e con aria innocente domandava che cosa è un capitalista nel senso giuridico della parola. Egli recava l'esempio di una sarta povera ed economa («Agnese l'economa»), spogliata dei suoi ultimi soldi dai malvagi «dittatori del proletariato». Vi fu un tempo in cui tutta la socialdemocrazia tedesca si divertiva alle spalle di questa «Agnese l'economa» del democratico puro Eugen Richter. Ma ciò avveniva in un tempo molto lontano, quando Bebel era ancora in vita e diceva apertamente e senza circonlocuzioni la verità, che vi erano cioè molti nazional-liberali nel partito tedesco. Ciò risale al tempo molto lontano in cui Kautsky non era ancora un rinnegato.

Ora «Agnese l'economa» è risuscitata sotto le sembianze del «piccolo padrone con un apprendista, che ha una vita e sentimenti veramente proletari». I malvagi bolscevichi gli fanno dei torti, lo privano del diritto di voto. È vero che nella Repubblica sovietica «ogni assemblea elettorale», come dice lo stesso Kautsky, può ammettere un povero artigiano che sia legato a una determinata officina, se, in via di eccezione, non è uno sfruttatore, se in realtà «la sua vita e i suoi sentimenti sono veramente proletari». Ma forse che ci si può fidare della conoscenza della vita, del senso d'equità di un'assemblea di semplici operai d'officina, disordinata e che funziona (orrore!) senza statuto? Non è chiaro che è meglio concedere il diritto di voto a tutti gli sfruttatori, a tutti coloro che impiegano operai salariati anziché correre il rischio che gli operai facciano dei torti ad «Agnese l'economa» e «al piccolo artigiano che ha una vita e sentimenti proletari»?


Vituperino pure le spregevoli canaglie dell'apostasia, con l'applauso della borghesia e dei socialsciovinisti, la nostra Costituzione sovietica perché priva del diritto di voto gli sfruttatori! È questo un fatto positivo perché affretta e approfondisce la rottura degli operai rivoluzionari d'Europa con gli Scheidemann e i Kautsky, i Renaudel e i Longuet, gli Henderson e i Ramsay MacDonald, con i vecchi capi e i vecchi traditori del socialismo.

Le masse delle classi oppresse, i capi coscienti e onesti venuti dalle file dei proletari rivoluzionari saranno per noi. Basta far conoscere a questi proletari e a queste masse la nostra Costituzione sovietica, ed essi diranno immediatamente: ecco dove sono gli uomini veramente nostri; ecco dov'è il vero partito degli operai, il vero governo operaio! Giacché esso non inganna gli operai con chiacchiere sulle riforme — come ci hanno ingannati tutti i capi succitati — ma lotta seriamente contro gli sfruttatori, fa sul serio la rivoluzione, lotta in realtà per la completa emancipazione degli operai.

Se i Soviet, dopo l'«esperienza» di un anno, hanno privato gli sfruttatori del diritto di voto, vuol dire che questi Soviet sono realmente le organizzazioni delle masse oppresse, e non dei socialimperialisti o dei socialpacifisti vendutisi alla borghesia. Se questi Soviet hanno privato del diritto di voto gli sfruttatori, vuol dire ch'essi non sono gli organi di una politica piccolo-borghese di conciliazione con i capitalisti, né organi di chiacchiere parlamentari (dei Kautsky, dei Longuet e dei MacDonald), ma organi del proletariato veramente rivoluzionario che conduce una lotta a morte contro gli sfruttatori.

«II libercolo di Kautsky è qui quasi sconosciuto», mi scriveva pochi giorni fa (oggi è il 30 ottobre) da Berlino un compagno bene informato. Consiglierei i nostri ambasciatori in Germania e in Svizzera di non tirare sulla spesa di migliaia di rubli per acquistare il libro e diffonderlo gratuitamente tra gli operai coscienti, per trascinare nel fango questa socialdemocrazia «europea» — leggi: imperialista e riformista — diventata da lungo tempo un «fetido cadavere».


Alla fine del suo libro — pp. 61 e 63 — il signor Kautsky sparge lacrime amare sul fatto che la «nuova teoria» (come egli chiama il bolscevismo, temendo persino di sfiorare l'analisi della Comune di Parigi fatta da Marx ed Engels) «trova fautori persino nelle vecchie democrazie come, per esempio, la Svizzera». «È inconcepibile» per Kautsky «che anche dei socialdemocratici tedeschi accettino questa teoria».

No, è perfettamente concepibile, perché dopo le severe lezioni della guerra le masse rivoluzionarie cominciano a sentir ripugnanza sia per gli Scheidemann che per i Kautsky.

«Noi» siamo sempre stati per la democrazia — scrive Kautsky — e ora dovremmo ad un tratto rinunciare ad essa!

«Noi», opportunisti della socialdemocrazia, siamo sempre stati contro la dittatura del proletariato; e i Kolb e C. l'hanno detto apertamente da molto tempo. Kautsky lo sa e spera invano di poter nascondere ai suoi lettori il fatto evidente del suo «ritorno in seno» ai Bernstein e ai Kolb.

«Noi», marxisti rivoluzionari, non ci siamo mai fatti un idolo della democrazia «pura» (borghese). Plekhanov era nel 1903, com'è noto, un marxista rivoluzionario (prima del suo deplorevole voltafaccia, che fece di lui uno Scheidemann russo). E nel congresso del partito in cui fu approvato il programma, Plekhanov disse che nel momento della rivoluzione il proletariato priverà, all'occorrenza, del diritto di voto i capitalisti e scioglierà qualsiasi parlamento che si dimostri controrivoluzionario. Che precisamente questo punto di vista sia l'unico che corrisponda al marxismo, chiunque se ne renderà conto anche dalle dichiarazioni di Marx e di Engels da me sopra citate. E ciò scaturisce in modo evidente da tutti i principi del marxismo.

«Noi», marxisti rivoluzionari, non abbiamo tenuto al popolo discorsi come quelli che amano pronunciare i kautskiani di tutte le nazioni, i quali strisciano davanti alla borghesia, si adattano al parlamentarismo borghese, nascondono il carattere borghese dell'attuale democrazia e si accontentano di chiedere che essa venga allargata, che essa venga realizzata sino in fondo.

«Noi» abbiamo detto alla borghesia: voi, sfruttatori e ipocriti, parlate di democrazia mentre a ogni passo frapponete mille ostacoli alla partecipazione delle masse oppresse alla politica. Vi prendiamo in parola, e, per preparare le masse alla rivoluzione, per rovesciare voi sfruttatori, nell'interesse di queste masse, esigiamo l'allargamento della vostra democrazia. E se voi, sfruttatori, farete il minimo tentativo di resistere alla rivoluzione proletaria, vi schiacceremo senza pietà, vi priveremo dei diritti e, peggio ancora, vi rifiuteremo il pane, perché nella nostra repubblica proletaria gli sfruttatori non avranno diritti, saranno privati dell'acqua e del fuoco, perché noi siamo socialisti sul serio e non dei socialisti alla maniera di Scheidemann e di Kautsky.

Cosi abbiamo parlato e così parleremo «noi», marxisti rivoluzionari; ecco perché le masse oppresse saranno per noi e con noi, mentre gli Scheidemann e i Kautsky saranno gettati nella pattumiera dei rinnegati.

Che cos'è l'internazionalismo?

Kautsky è convintissimo di essere un internazionalista e si dice tale. Egli dichiara che gli Scheidemann sono dei socialisti governativi. Prendendo le difese dei menscevichi (egli non dice apertamente di essere solidale con loro, ma professa in tutto e per tutto le loro idee), Kautsky ha manifestato in modo straordinariamente evidente che razza di «internazionalismo» sia il suo. Ma poiché Kautsky non rappresenta solo se stesso, ma una corrente che doveva inevitabilmente svilupparsi nell'ambiente della II Internazionale (Longuet in Francia, Turati in Italia, Nobs e Grimm, Graber e Naine in Svizzera, Ramsay MacDonald in Inghilterra, ecc), sarà istruttivo soffermarsi sull'«internazionalismo» di Kautsky.

Sottolineando il fatto che anche i menscevichi furono a Zimmerwald (è un diploma certamente, sebbene... già andato a male), Kautsky così descrive le idee, che egli condivide, dei menscevichi:

...I menscevichi volevano la pace generale, volevano che tutti i belligeranti accettassero la parola d'ordine: senza annessioni né riparazioni. Finché questo scopo non fosse stato raggiunto, l'esercito russo doveva rimanere con le armi al piede, pronto a combattere. I bolscevichi invece esigevano la pace immediata ad ogni costo, erano pronti, in caso di necessità a conchiudere una pace separata, e cercavano di imporla con la forza, aggravando la già grande disorganizzazione nell'esercito (p. 27). I bolscevichi, secondo Kautsky, non avrebbero dovuto prendere il potere, ma accontentarsi dell'Assemblea costituente.

L'internazionalismo di Kautsky e dei menscevichi consiste dunque in questo: esigere riforme dal governo imperialista borghese, ma continuare a sostenerlo, continuare a sostenere la guerra condotta da questo governo, finché tutti i belligeranti non avranno accettato la parola d'ordine: «senza annessioni né riparazioni». È questa l'idea che Turati, i kautskiani (Haase e altri), Longuet e C. hanno più volte espresso dichiarando di essere per la «difesa della patria».

Teoricamente ciò significa assoluta incapacità di staccarsi dai socialsciovinisti e confusione totale nella questione della difesa della patria. Politicamente, ciò significa sostituire il nazionalismo piccolo- borghese all'internazionalismo e passare al riformismo, rinunciare alla rivoluzione.

Riconoscere la «difesa della patria» significa, dal punto di vista del proletariato, giustificare la guerra attuale, ammettere che essa è legittima. Ma, poiché la guerra rimane una guerra imperialista (tanto sotto la monarchia che sotto la repubblica), indipendentemente dal luogo in cui si trovano, in un dato momento, le truppe nemiche, nel mio paese o in paese straniero, riconoscere la difesa della patria significa di fatto appoggiare la borghesia imperialista e rapinatrice, significa tradire completamente il socialismo. In Russia, anche sotto Kerenski, in regime di repubblica democratica borghese, la guerra continuava ad essere imperialista, giacché era condotta dalla borghesia, in quanto classe dominante (e la guerra è la «continuazione della politica»); e l'espressione più potente del carattere imperialista della guerra erano i trattati segreti per la ripartizione del mondo e il saccheggio di paesi stranieri conclusi dall'ex zar coi capitalisti dell'Inghilterra e della Francia.

I menscevichi ingannavano vilmente il popolo, dando a questa guerra il nome di guerra di difesa o di guerra rivoluzionaria; e Kautsky, approvando la politica dei menscevichi, approva l'inganno a danno del popolo, approva la funzione che ha la piccola borghesia al servizio del capitale di abbindolare gli operai, di aggiogarli al carro degli imperialisti. Kautsky fa una politica tipicamente piccolo-borghese, filistea, quando s'immagina (e inculca questa idea assurda nelle masse) che il lancio di una parola d'ordine cambi la realtà. Tutta la storia della democrazia borghese confuta questa illusione: per ingannare il popolo i democratici borghesi hanno sempre lanciato e sempre lanciano ogni sorta di «parole d'ordine». Si tratta di controllare la loro sincerità, di mettere a confronto le parole con i fatti, di non appagarsi della frase idealistica o ciarlatanesca, ma di cercar di scoprire la realtà di classe. La guerra imperialista non cessa di essere imperialista quando dei ciarlatani o dei parolai o dei filistei piccolo-borghesi lanciano una «parola d'ordine» inzuccherata, ma soltanto quando la classe che conduce questa guerra imperialista, ed è legata con questa da milioni di fili (se non cavi) economici, viene di fatto abbattuta ed è sostituita al potere dalla classe veramente rivoluzionaria, il proletariato. Questo è l'unico modo di. tirarsi fuori da una guerra imperialista, o da una pace imperialista, dì rapina.

Approvando la politica estera dei menscevichi, ch'egli chiama internazionalista e zimmerwaldiana, Kautsky mostra in primo luogo tutto il marciume della maggioranza zimmerwaldiana opportunista (non per nulla, noi, della sinistra di Zimmerwald, ci separammo subito da tale maggioranza!), e in secondo luogo — ed è la cosa più importante — passa dalla posizione proletaria alla posizione piccolo-borghese, dalla posizione rivoluzionaria alla posizione riformista.

Il proletariato lotta per l'abbattimento rivoluzionario della borghesia imperialista, la piccola borghesia per il «perfezionamento» riformista dell'imperialismo, per adattarsi, subordinarsi ad esso. Quando Kautsky era ancora marxista, nel 1909 per esempio, allorché scrisse La via del potere, egli sosteneva appunto l'idea che la guerra rendeva la rivoluzione inevitabile e parlava dell'approssimarsi dell'era delle rivoluzioni. Il Manifesto di Basilea del 1912 parla apertamente e in modo preciso di rivoluzione proletaria come conseguenza di una guerra imperialista tra il gruppo tedesco e il gruppo inglese, guerra che effettivamente scoppiò nel 1914. E nel 1918, quando, in seguito alla guerra, incominciarono le rivoluzioni, Kautsky, invece di spiegare la loro ineluttabilità, invece di studiare e riflettere sulla tattica rivoluzionaria, sui metodi e i mezzi di preparazione della rivoluzione, chiamò «internazionalismo» la tattica riformista dei menscevichi. Che cos'è questo se non un atto da rinnegato?

Kautsky loda i menscevichi perché insistevano che fosse mantenuta l'efficienza combattiva dell'esercito. Egli biasima i bolscevichi perché aggravarono la già grande «disorganizzazione dell'esercito». Ciò vuol dire lodare il riformismo e la sottomissione alla borghesia imperialista, biasimare la rivoluzione, rinnegarla. Mantenere l'efficienza combattiva dell'esercito significava ed equivaleva infatti, sotto Kerenski, a mantenere nell'esercito un comando borghese (anche se repubblicano). È a tutti noto — e il corso degli eventi lo confermò — che questo esercito repubblicano, grazie ai suoi quadri di kornilovisti, aveva conservato uno spirito kornilovista. Gli ufficiali borghesi non potevano non essere kornilovisti; non potevano non propendere per l'imperialismo, per la repressione violenta del proletariato. Lasciare sussistere le antiche basi della guerra imperialista, tutte le antiche basi della dittatura borghese, accomodare le minuzie, dare una mano di vernice alle piccole imperfezioni («riforme»): ecco a che cosa si riduceva in realtà la tattica menscevica. Al contrario, nessuna grande rivoluzione è mai avvenuta e può avvenire senza la «disorganizzazione» dell'esercito. Giacché l'esercito è lo strumento più fossilizzato su cui poggia il vecchio regime, il baluardo più saldo del dominio del capitale, uno strumento per mantenere e coltivare nelle masse lavoratrici la docilità servile e la sottomissione al capitale. La controrivoluzione non tollerò mai, né poteva tollerare la presenza di operai armati accanto all'esercito. In Francia — scrive Engels [nella Introduzione a La guerra civile in Francia] — dopo ogni rivoluzione gli operai erano armati: «per i borghesi che si trovavano al governo dello Stato il disarmo degli operai era quindi il primo comandamento». Gli operai armati erano l'embrione di un nuovo esercito, il nucleo organizzativo di un nuovo regime sociale. Schiacciare questo nucleo, non permetterne lo sviluppo, era il primo comandamento della borghesia. Il primo comandamento di ogni rivoluzione vittoriosa — Marx ed Engels lo sottolinearono a più riprese — era di distruggere il vecchio esercito, di scioglierlo e sostituirlo con uno nuovo [La guerra civile in Francia]. La nuova classe sociale, salendo al potere, non ha mai potuto e non può ora pervenire a questo potere e consolidarlo senza disgregare completamente il vecchio esercito («disorganizzazione», gridano a questo proposito i piccoli borghesi reazionari o semplicemente vili), senza passare per il periodo difficilissimo, penosissimo in cui non c'è esercito (per questo penoso periodo passò anche la Grande Rivoluzione francese), senza forgiare a poco a poco, in una dura guerra civile, un nuovo esercito, una nuova disciplina, una nuova organizzazione militare della nuova classe. Lo storico Kautsky un tempo capiva tutto ciò. Il rinnegato Kautsky lo ha dimenticato.

Che diritto ha Kautsky di chiamare gli Scheidemann «socialisti governativi», se egli approva la tattica dei menscevichi nella rivoluzione russa? I menscevichi che appoggiavano Kerenski e facevano parte del suo ministero erano anch'essi dei socialisti governativi. Kautsky non potrà in alcun modo sfuggire a questa conclusione se egli farà un sia pur minimo tentativo di porre il problema della classe dominante che conduce la guerra imperialista. Ma Kautsky evita di porre questo problema che s'impone ad ogni marxista, perché il porlo basterebbe smascherarlo come rinnegato.

I kautskiani in Germania, i longuettisti in Francia, Turati e C. in Italia ragionano così: il socialismo presuppone l'eguaglianza e la libertà delle nazioni, la loro autodecisione; quindi, quando il mio paese è aggredito, o quando truppe nemiche hanno invaso la mia terra, diritto e dovere dei socialisti è di difendere la patria. Ma dal punto di vista teorico, questo ragionamento è o un insulto continuato al socialismo o una manovra fraudolenta: dal punto di vista politico e pratico, questo ragionamento coincide con quello di un contadino assolutamente ignorante, incapace anche solo di pensare al carattere sociale, di classe della guerra e ai compiti di un partito rivoluzionario in una guerra reazionaria.

II socialismo è contro la violenza verso le nazioni. Questo è innegabile. Ma il socialismo è in generale contro la violenza verso gli uomini. Tuttavia nessuno, tranne gli anarchici cristiani e i tolstoiani, ha mai dedotto da ciò che il socialismo sia contro la violenza rivoluzionaria. Dunque, parlare di «violenza» in generale senza esaminare le condizioni che differenziano la violenza reazionaria dalla violenza rivoluzionaria significa essere un filisteo che rinnega la rivoluzione, o semplicemente ingannare se stessi e gli altri con dei sofismi.

Lo stesso criterio si riferisce alla violenza verso le nazioni. Ogni guerra è violenza contro delle nazioni, e tuttavia ciò non impedisce ai socialisti di essere per la guerra rivoluzionaria. Qual è il carattere di classe della guerra? Ecco la questione fondamentale che si pone ogni ì socialista (se non è un rinnegato). La guerra imperialista del 1914-1918 è una guerra tra due gruppi della borghesia imperialista per la spartizione del mondo, per la spartizione del bottino, per il saccheggio e lo strangolamento delle nazioni piccole e deboli. Questo è il giudizio dato sulla guerra dal Manifesto di Basilea nel 1912, giudizio che i fatti hanno confermato. Chi abbandona questo punto di vista sulla guerra non è un socialista.

Se un tedesco sotto Guglielmo o un francese sotto Clemenceau dicesse: io, come socialista, ho il diritto e il dovere di difendere la mia patria se il nemico ha invaso il mio paese — questo non sarebbe il ragionamento né di un socialista, né di un internazionalista, né di un proletario rivoluzionario, ma la dichiarazione di un nazionalista piccolo-borghese. Perché in questo ragionamento scompare la lotta di classe rivoluzionaria dell'operaio contro il capitale; scompare la valutazione di tutta la guerra nel suo assieme dal punto di vista della borghesia mondiale e del proletariato mondiale; scompare cioè l'internazionalismo e non rimane che un misero, fossilizzato nazionalismo. Si fanno dei torti al mio paese, il resto non mi riguarda: ecco a che si riduce questo ragionamento, ecco dove risiede la sua grettezza nazionalista piccolo-borghese. Esattamente come se, di fronte alla violenza individuale esercitata contro una persona, qualcuno facesse il seguente ragionamento: il socialismo è contro la violenza, quindi preferisco commettere un tradimento anziché andare in prigione.

Un tedesco, un francese o un italiano il quale dice: il socialismo è contro la violenza verso le nazioni, quindi, allorché il nemico invade il mio paese, io mi difendo, tradisce il socialismo e l'internazionalismo. Perché questo individuo vede unicamente il proprio «paese», pone al di sopra di tutto la «sua»... «borghesia », senza pensare ai legami internazionali che fanno della guerra una guerra imperialista, e della sua borghesia un anello della catena delle rapine imperialiste.

Tutti i piccoli borghesi e tutti i contadini ottusi e ignoranti ragionano precisamente come ragionano i rinnegati kautskiani, longuettisti, Turati e C., e precisamente: il nemico è nel mio paese, il resto non mi riguarda.

Il socialista, il proletario rivoluzionario, l'internazionalista ragiona altrimenti: il carattere di una guerra (è essa reazionaria o rivoluzionaria?) non è determinata dal fatto: chi ha attaccato e in qual paese si trova il «nemico», ma dipende da questo: quale classe conduce la guerra, di quale politica la guerra è la continuazione. Se la guerra è una guerra reazionaria, imperialista, se è condotta cioè da due gruppi mondiali della borghesia imperialista, aggressiva, spoliatrice, reazionaria, ogni borghesia (anche se di un piccolo paese) diventa partecipe della spoliazione, e il mio dovere, il dovere di un rappresentante del proletariato rivoluzionario, è quello di preparare la rivoluzione proletaria mondiale, unico mezzo di salvezza dagli orrori della guerra mondiale. Non devo ragionare dal punto di vista del «mio» paese (poiché questo ragionamento è quello di un misero cretino, di un piccolo borghese nazionalista che non comprende di essere uno zimbello nelle mani della borghesia imperialista), ma dal punto di vista della mia partecipazione alla preparazione, alla propaganda, al lavoro per rendere più prossima la rivoluzione proletaria mondiale.

Ecco che cos'è l'internazionalismo, qual è il dovere dell'internazionalista, dell'operaio rivoluzionario, del vero socialista. Ecco l'abbicci che il rinnegato Kautsky «ha dimenticato». E la sua abiura diventa tanto più manifesta quando, dopo aver approvato la tattica dei nazionalisti piccolo-borghesi (menscevichi in Russia, longuettisti in Francia, Turati in Italia, Haase e C. in Germania), passa alla critica della tattica bolscevica. Ecco questa critica.

"La rivoluzione bolscevica si basò sull'ipotesi che essa sarebbe stata il punto di partenza di una rivoluzione europea generale, che l'audace iniziativa della Russia avrebbe incitato i proletari di tutta l'Europa a sollevarsi. Data questa ipotesi, poco importavano naturalmente le forme che avrebbero preso la pace separata russa, gli oneri e le perdite di territorio [letteralmente: autolesioni o mutilazioni, Verstùmmelungen] che essa avrebbe imposto al popolo russo, l'interpretazione che essa avrebbe dato dell'autodecisione delle nazioni. Poco importava inoltre di sapere se la Russia rimaneva o no capace di difendersi. La rivoluzione europea costituiva, secondo questo punto di vista, la migliore difesa della rivoluzione russa, doveva assicurare a tutti i popoli dell'antico territorio russo il diritto completo e reale di autodecisione. Una rivoluzione in Europa, che avrebbe apportato e consolidato il socialismo, avrebbe dovuto anche diventare il mezzo per eliminare gli ostacoli che, in Russia, il ritardo economico del paese frapponeva all'attuazione della produzione socialista. Tutto ciò era molto logico e ben fondato se si ammetteva l'ipotesi fondamentale: che la rivoluzione russa dovesse necessariamente far scoppiare la rivoluzione europea. Ma se ciò non fosse avvenuto? L'ipotesi finora non si è rivelata corretta. Ed oggi i proletari d'Europa sono accusati di aver piantato in asso e tradito la rivoluzione russa. E' un'accusa contro ignoti: chi dunque rendere responsabile della condotta del proletariato europeo?" (p. 28). E Kautsky continua a ripetere che Marx, Engels e Bebel si erano più volte sbagliati predicendo l'avvento di rivoluzioni premature, ma non avevano mai fondato la loro tattica sull'attesa di una rivoluzione «a una data determinata» (p. 29), mentre i bolscevichi, egli dice, «puntarono tutto su una sola carta: la rivoluzione europea generale».

Abbiamo trascritto una citazione così lunga proprio per mostrare in modo palese al lettore con quale «abilità» Kautsky falsifichi il marxismo sostituendogli una concezione piccolo-borghese, banale e reazionaria.

In primo luogo, attribuire all'avversario una sciocchezza evidente per poi confutarla, è un trucco degno di persone non molto intelligenti. Se i bolscevichi avessero fondato la loro tattica sull'attesa della rivoluzione a una data determinata in altri paesi, ciò sarebbe stato incontestabilmente una sciocchezza. Ma il partito bolscevico non ha fatto questa sciocchezza: nella mia lettera agli operai americani (20 agosto 1918) ho respinto categoricamente tale sciocchezza dicendo che contiamo sulla rivoluzione americana, ma non a una data determinata. Nella mia polemica con i socialisti-rìvoluzionari di sinistra e con i «comunisti di sinistra» (gennaio-marzo 1918) ho sviluppato più di una volta la stessa idea. Kautsky ha commesso una piccola... piccolissima alterazione, sulla quale ha fondato la sua critica del bolscevismo. Ha confuso la tattica che fa assegnamento sulla rivoluzione europea a una data più o meno prossima, ma non determinata, e la tattica che fa assegnamento sullo scoppio della rivoluzione a una data determinata. Una piccola falsificazione, assolutamente piccola!

La seconda tattica è una sciocchezza. La prima è obbligatoria per ogni marxista, per ogni proletario rivoluzionario e internazionalista; obbligatoria perché essa sola tiene esattamente conto, secondo i principi marxisti, della situazione oggettiva creata dalla guerra in tutti i paesi europei, essa sola risponde ai compiti internazionali del proletariato.

Sostituendo all'importante questione dei principi della tattica rivoluzionaria in generale la meschina questione dell'errore che i rivoluzionari bolscevichi avrebbero potuto commettere ma non hanno commesso, Kautsky ha felicemente ripudiato ogni tattica rivoluzionaria!

Rinnegato in politica, in teoria egli non sa neppure impostare la questione delle premesse oggettive della tattica rivoluzionaria.

E qui siamo giunti al secondo punto.

In secondo luogo, fare assegnamento sulla rivoluzione europea è obbligatorio per un marxista se vi è una situazione rivoluzionaria. Che la tattica del proletariato socialista non può essere la stessa quando la situazione è rivoluzionaria e quando non lo è, è una verità elementare del marxismo.

Se Kautsky si fosse posto questa questione, obbligatoria per un marxista, avrebbe visto che la risposta gli era assolutamente sfavorevole. Molto tempo prima della guerra tutti i marxisti, tutti i socialisti erano d'accordo nel ritenere che la guerra europea avrebbe creato una situazione rivoluzionaria. Quando Kautsky non era ancora un rinnegato lo ha riconosciuto in modo chiaro e preciso nel 1902 (La rivoluzione sociale) e nel 1909 (La via del potere). Il Manifesto di Basilea lo riconobbe in nome di tutta la II Internazionale. Non per nulla i socìalsclovinisti e i kautskiani (i «centristi», coloro che oscillano tra i rivoluzionari e gli opportunisti) temono come il fuoco le dichiarazioni in proposito del Manifesto di Basilea!

L'attesa di una situazione rivoluzionaria in Europa non era quindi un sogno dei bolscevichi; era l'opinione generale di tutti i marxisti. Quando Kautsky elude questa verità incontestabile mediante frasi come questa: i bolscevichi «hanno sempre creduto nell'onnipotenza della violenza e della volontà», la sua è una frase altisonante ma vuota, destinata a celare la fuga, la fuga vergognosa, a cui si è dato per evitare di impostare la questione della situazione rivoluzionaria.

E ancora. Vi è ora di fatto una situazione rivoluzionaria o no? Kautsky non ha saputo impostare neppure questa questione. I fatti economici rispondono: la carestia e la rovina generate ovunque dalla guerra denunciano una situazione rivoluzionaria. A questa questione rispondono anche i fatti politici: fin dal 1915 in tutti i paesi si è nettamente manifestato un processo di scissione nei vecchi e putrefatti partiti socialisti, e un processo di allontanamento dai capi socialsciovinisti dalle masse proletarie che vanno a sinistra, verso le idee e le tendenze rivoluzionarie, verso i capi rivoluzionari.

Il 5 agosto 1918, nel momento in cui Kautsky scriveva il suo opuscolo, solo un individuo che teme la rivoluzione e la tradisce poteva non vedere questi fatti. E ora, fine ottobre 1918, in una serie di paesi europei la rivoluzione sale rapidissimamente, a vista d'occhio. Il «rivoluzionario» Kautsky, che ci tiene a essere ancora considerato un marxista, ha rivelato di essere un miope filisteo, il quale - come i filistei del 1847, derisi da Marx - non ha visto che la rivoluzione si avvicinava!!

Siamo giunti al terzo punto.

In terzo luogo, quali sono le particolarità della tattica rivoluzionaria di fronte a una situazione rivoluzionaria in Europa? Kautsky, diventato un rinnegato, teme di porre questa domanda, obbligatoria per un marxista. Egli ragiona da tipico filisteo piccolo-borghese o da contadino ignorante: è venuta o no «la rivoluzione europea generale»? Se sì, è pronto anche lui a diventare un rivoluzionario! Ma allora - diremo noi - anche la canaglia di ogni risma (sul tipo di quei farabutti che cercano talvolta di intrufolarsi tra i bolscevichi vittoriosi) si dichiara rivoluzionaria!

Se no, Kautsky volta le spalle alla rivoluzione! Egli non capisce minimamente questa verità: che un rivoluzionario e un marxista si differenzia da un filisteo e da un piccolo borghese per la sua capacità di predicare alle masse ignoranti la necessità della rivoluzione che matura, di dimostrarne l'ineluttabilità, di spiegarne i vantaggi che ne verranno al popolo, di preparare il proletariato e tutte le masse lavoratrici e sfruttate alla rivoluzione.

Kautsky attribuisce ai bolscevichi un'assurdità: che essi cioè avrebbero puntato tutto su una carta, presupponendo che la rivoluzione europea sarebbe scoppiata a una data determinata. Questa assurdità si ritorce contro lo stesso Kautsky, poiché secondo lui risulterebbe che la tattica dei bolscevichi sarebbe stata giusta se la rivoluzione europea fosse scoppiata entro il 5 agosto 1918! Kautsky menzionava appunto questa data come quella del giorno in cui egli compilò il suo opuscolo. E quando, alcune settimane, dopo questo 5 agosto, divenne evidente che la rivoluzione stava per scoppiare in parecchi paesi europei, tutta l'abiura di Kautsky, tutta la falsificazione del marxismo da lui perpetrata, tutta la sua incapacità di ragionare e persino di porre la questione in modo rivoluzionario, si rivelarono in tutta la loro bellezza!

Quando si accusano di tradimento i proletari d'Europa - scrive Kautsky - si eleva un'accusa contro ignoti.

Vi sbagliate, signor Kautsky! Guardatevi nello specchio e vedrete gli «ignoti» a cui l'accusa è rivolta. Kautsky fa l'ingenuo e finge di non capire da chi parte l'accusa e quale ne è il senso. In realtà Kautsky sa benissimo che l'accusa è stata lanciata dai «sinistri» tedeschi, dagli spartachiani, da Liebknecht e dai suoi amici. Quest'accusa esprime la chiara coscienza del fatto che il proletariato tedesco commise un tradimento contro la rivoluzione russa (e internazionale) quando strozzò la Finlandia, l'Ucraina, la Lettonia, l'Estonia. Quest'accusa è rivolta innanzi tutto, e soprattutto, non contro le masse, sempre schiacciate, ma contro quei capi che, come gli Scheidemann e i Kautsky, non hanno compiuto il loro dovere - fare, dell'agitazione rivoluzionaria, della propaganda rivoluzionaria, del lavoro rivoluzionario fra le masse per combattere l'inerzia - e che in realtà hanno agito contro gli istinti e le aspirazioni rivoluzionarie che sempre si annidano nel profondo delle masse della classe oppressa. Gli Scheidemann hanno tradito direttamente, sfacciatamente, cinicamente il proletariato, per puro egoismo, sono passati dalla parte della borghesia. I kautskiani e i longuettisti hanno fatto lo stesso, ma esitando, tentennando, gettando sguardi impauriti verso coloro che in quel momento erano forti. Con tutti i suoi scritti del periodo della guerra Kautsky ha smorzato lo spirito rivoluzionario invece di tenerlo vivo e farlo avvampare.

Quale monumento veramente storico della idiozia filistea del capo «centrista» della socialdemocrazia tedesca ufficiale, rimarrà il fatto che Kautsky non comprende nemmeno l'immensa importanza teorica e l'importanza ancora maggiore che ha per l'agitazione e la propaganda l'«accusa» rivolta contro i proletari d'Europa di aver tradito la rivoluzione russa! Kautsky non comprende che questa «accusa», dato il regime di censura vigente nell'impero tedesco, quest'«accusa» è forse l'unica forma in cui i socialisti che non hanno tradito il socialismo, - Liebknecht e i suoi amici - potevano fare appello agli operai tedeschi affinché si sbarazzassero degli Scheidemann e dei Kautsky, respingessero «capi» di tal fatta, si liberassero dalla loro propaganda avvilente e degradante e si sollevassero, a dispetto di essi, senza di essi, all'infuori di essi. Era un appello alla rivoluzione!

Kautsky non l'ha capito. E come potrebbe capire la tattica dei bolscevichi? Ci si può forse attendere che un uomo, il quale rinnega la rivoluzione in generale, pesi e valuti le condizioni di sviluppo rivoluzione in uno dei casi più «difficili»?

La tattica dei bolscevichi era giusta, era la sola tattica internazionalista, giacché non si basava sul timore pusillanime della rivoluzione mondiale, né sullo «scetticismo» piccolo-borghese verso di essa, né sul desiderio prettamente nazionalista di difendere la «propria» patria (la patria della propria borghesia) e di «infischiarcene» di tutto il resto; si fondava sulla valutazione giusta (e universalmente riconosciuta prima della guerra, prima dell'apostasia dei socialsciovinisti e dei socialpacifisti) della situazione rivoluzionaria europea. Questa tattica era la sola tattica internazionalista, giacché realizzava il massimo del realizzabile in un solo paese per sviluppare, appoggiare, suscitare la rivoluzione in tutti i paesi. Questa tattica è stata giustificata dal suo immenso successo, giacché il bolscevismo (non certo a causa dei meriti dei bolscevichi russi, ma della profonda e generale simpatia delle masse per questa tattica, rivoluzionaria nei fatti) è diventato bolscevismo mondiale, ha dato un'idea, una teoria, un programma, una tattica che si distinguono concretamente, praticamente dal socialpacifismo. Il bolscevismo ha dato il colpo di grazia alla vecchia imputridita Internazionale degli Scheidemann e dei Kautsky, dei Renaudel e dei Longuet, degli Henderson e dei MacDonald che si pesteranno l'un l'altro i piedi sognando l'«unità» e cercando di risuscitare un cadavere. Il bolscevismo ha creato le basi ideologiche e tattiche di una III Internazionale veramente proletaria e comunista, che tenga conto ad un tempo dei risultati ottenuti nel periodo della pace e dell'esperienza dell'epoca delle rivoluzioni già iniziata.

Il bolscevismo ha reso popolare in tutto il mondo l'idea della «dittatura del proletariato», ha tradotto questi termini prima dal latino in russo e poi in tutte le lingue del mondo, mostrando con l'esempio del potere sovietico che, anche in un paese arretrato, gli operai e i contadini poveri, anche i meno sperimentati, i meno istruiti, i meno abituati all'organizzazione, sono stati in grado, per un anno intiero, tra difficoltà immense, lottando contro gli sfruttatori (sostenuti dalla borghesia di tutto il mondo), di mantenere il potere dei lavoratori, di creare una democrazia incomparabilmente più elevata e larga di tutte le precedenti democrazie del mondo e di avviare al lavoro creativo decine di milioni di operai e di contadini per l'attuazione pratica del socialismo.

Il bolscevismo ha di fatto contribuito a sviluppare la rivoluzione proletaria in Europa e in America più potentemente di quanto sia riuscito sino ad oggi a farlo qualsiasi altro partito in qualsiasi altro paese. Mentre di giorno in giorno diventa sempre più palese agli operai di tutto il mondo che la tattica degli Scheidemann e dei Kautsky non li ha liberati dalla guerra imperialista e dalla schiavitù salariata a profitto della borghesia imperialista, e che questa tattica non può essere un modello valido per tutti i paesi, di giorno in giorno diventa più palese alle masse proletarie di tutto il mondo che il bolscevismo ha indicato la via giusta per salvaguardarsi dagli orrori della guerra e dell'imperialismo, che il bolscevismo può essere un modello di tattica valido per tutti.

La rivoluzione proletaria matura a vista d'occhio, non solo in tutta l'Europa, ma in tutto il mondo, e la vittoria del proletariato in Russia l'ha favorita, affrettata, appoggiata. Tutto ciò non basta per la completa vittoria del socialismo? Certo, non basta! Un solo paese non può fare di più. Tuttavia, per merito del potere sovietico, questo paese da solo ha fatto tanto che, se anche domani l'imperialismo mondiale schiacciasse il potere sovietico russo grazie ad un accordo, mettiamo, tra l'imperialismo tedesco e l'imperialismo anglo-francese, anche in questo caso, il peggiore dei casi, la tattica bolscevica sarebbe tuttavia stata di grandissima utilità per il socialismo e avrebbe promosso lo sviluppo dell'invincibile rivoluzione mondiale.

Asservimento alla borghesia in veste di «analisi economica»

Come già abbiamo detto, il libro di Kautsky, se il titolo riflettesse fedelmente il contenuto, dovrebbe intitolarsi non La dittatura del proletariato ma Rimasticatura degli attacchi borghesi contro i bolscevichi.

Il nostro teorico ci riscodella le antiche «teorie» dei menscevichi sul carattere borghese della rivoluzione russa, cioè la vecchia deformazione del marxismo (respinta da Kautsky nel 1905!) ad opera dei menscevichi. Dovremo soffermarci su questa questione, per quanto tedioso ciò possa essere per i marxisti russi.

La rivoluzione russa è una rivoluzione borghese, dicevano tutti i marxisti russi prima del 1905. I menscevichi, sostituendo al marxismo il liberalismo, ne deducevano che il proletariato non doveva andare al di là di ciò che era accettabile alla borghesia e doveva fare una politica d'intesa con la borghesia. I bolscevichi dicevano che questa era una teoria borghese liberale. La borghesia si sforza di procedere alla riorganizzazione dello Stato in modo borghese, riformista, e non in modo rivoluzionario, conservando, per quanto è possibile, la monarchia, la grande proprietà fondiaria, ecc. Il proletariato deve compiere la rivoluzione democratica borghese sino in fondo, senza lasciarsi «legare le mani» dal riformismo borghese. I bolscevichi formulavano i rapporti delle forze di classe nella rivoluzione borghese in questo modo: il proletariato, unendo a sé i contadini, neutralizza la borghesia liberale e distrugge completamente la monarchia, le vestigia del Medioevo, la proprietà fondiaria.

E' appunto nell'alleanza del proletariato con i contadini in generale che si rivela il carattere borghese della rivoluzione, perché i contadini nel loro insieme sono dei piccoli produttori, che stanno sul terreno della produzione mercantile. In seguito, aggiungevano i bolscevichi, il proletariato attira a sé tutto il semiproletariato (tutti gli sfruttati e i lavoratori), neutralizza i contadini medi e abbatte la borghesia, ed è ciò che distingue la rivoluzione socialista dalla rivoluzione democratica borghese (si veda il mio opuscolo del 1905: Due tattiche, ristampato nella raccolta In dodici anni, Pietroburgo, 1907).

Kautsky nel 1905 partecipò indirettamente alla controversia. Ad una domanda dell'allora menscevico Plekhanov rispose esprimendo una opinione sostanzialmente opposta a quella di Plekhanov, che allora suscitò i caustici sarcasmi della stampa bolscevica. Oggi Kautsky non dice nemmeno una parola sulle discussioni di quel tempo (teme che le sue stesse dichiarazioni lo smascherino!), privando così il lettore tedesco della possibilità di comprendere il nocciolo della questione. Il signor Kautsky non poteva nel 1918 raccontare agli operai tedeschi di essere stato nel 1905 un assertore dell'alleanza degli operai con i contadini e non con la borghesia liberale, né potrebbe dire quali condizioni aveva sostenuto e quale programma aveva proposto per quest'alleanza.

Oggi Kautsky, facendo macchina indietro, con il pretesto di fare «un'analisi economica» sostiene, con fiere espressioni sul «materialismo storico», la sottomissione degli operai alla borghesia e, con l'aiuto di citazioni del menscevico Maslov, rimastica le vecchie idee liberali dei menscevichi. Le citazioni dovrebbero servire ad illustrare l'idea, nuova di zecca, dell'arretratezza della Russia, ma da questa idea nuova ne deduce una vecchia, quella secondo cui in una rivoluzione borghese non si può andare più lontano della borghesia! E ciò nonostante tutto quello che hanno detto Marx ed Engels confrontando la rivoluzione borghese del 1789-1793 in Francia con la rivoluzione borghese del 1848 in Germania!

Prima di passare al principale «argomento», al nocciolo dell'«analisi economica» di Kautsky, notiamo che fin dalle prime frasi si rivela una singolare confusione e superficialità di idee.

«La base economica della Russia - annuncia il nostro "teorico" - è oggi ancora l'agricoltura, e precisamente la piccola produzione contadina. Essa dà da vivere a circa i quattro quinti se non ai cinque sesti della popolazione» (p. 45). Innanzi tutto, caro teorico, avete voi riflettuto a quanti possono essere gli sfruttatori tra questa massa di piccoli produttori? Naturalmente non più di un decimo del loro numero complessivo, e nelle città, ove la grande azienda è più sviluppata, anche meno. Prendiamo pure un numero inverosimilmente elevato, ammettiamo che un quinto dei piccoli produttori siano sfruttatori a cui è negato il diritto di voto. Anche in questo caso risulterebbe che i bolscevichi, che formavano il 66% del V Congresso dei Soviet, rappresentavano la maggioranza della popolazione. E a ciò si deve ancora aggiungere che tra i socialisti-rivoluzionari di sinistra una parte notevole è sempre stata per il potere dei Soviet o, meglio, che in linea di principio tutti i socialisti-rivoluzionari di sinistra erano per il potere dei Soviet, e quando una parte di essi tentò l'avventura della rivolta del luglio 1918, due nuovi partiti si staccarono dal vecchio: quello dei «comunisti populisti» e quello dei «comunisti rivoluzionari» (fra i socialisti-rivoluzionari di sinistra più noti, che già dal vecchio partito erano stati proposti per le più importanti cariche statali, al primo dei menzionati partiti appartiene per esempio Sax, al secondo Kolegaiev). Kautsky stesso confuta quindi inavvertitamente la ridicola leggenda secondo cui i bolscevichi avrebbero con sé soltanto una minoranza della popolazione.

In secondo luogo, avete voi, caro teorico, riflettuto sul fatto che il piccolo produttore contadino oscilla inevitabilmente tra il proletariato e la borghesia? Questa verità marxista, confermata da tutta la recentissima storia europea, è stata molto opportunamente «dimenticata» da Kautsky, perché riduce in polvere tutta la «teoria» menscevica da lui ribadita! Se Kautsky non l'avesse «dimenticata», non avrebbe potuto negare la necessità della dittatura del proletariato in un paese ove predominano i piccoli produttori contadini.

Esaminiamo il contenuto essenziale dell'«analisi economica» del nostro teorico:

Che il potere sovietico sia una dittatura, è cosa innegabile, dice Kautsky,

ma è poi questa dittatura del proletariato? (p. 34). Essi [i contadini], secondo la Costituzione sovietica, formano la maggioranza della popolazione avente il diritto di partecipare alla legislazione e all'amministrazione. Ciò che ci si presenta come dittatura del proletariato non sarebbe che la dittatura dei contadini, se il principio fosse applicato in modo conseguente e se in generale una classe potesse esercitare direttamente la dittatura, cosa possibile solo a un partito (p. 35). E, oltremodo soddisfatto di un ragionamento così profondo e intelligente, il buon Kautsky tenta di fare dello spirito: «Parrebbe dunque che l'attuazione meno dolorosa del socialismo sarebbe assicurata se fosse messa nelle mani dei contadini» (p. 35).

Con grande ricchezza di particolari e una serie di citazioni straordinariamente erudite prese dagli scritti del semiliberale Maslov, il nostro teorico illustra questa idea nuova: che i contadini sono interessati agli alti prezzi del grano, ai bassi salari degli operai delle città, ecc. ecc. A proposito, queste idee nuove sono esposte in modo tanto più tedioso quanto meno si presta attenzione ai fenomeni veramente nuovi verificatisi dopo la guerra come, per esempio, al fatto che i contadini esigono in cambio del grano non più denaro ma merci, che essi mancano di attrezzi che non si possono procurare in misura sufficiente a nessun prezzo. Ma ritorneremo in particolare su questo argomento.

Dunque Kautsky accusa i bolscevichi, partito del proletariato, di avere messo la dittatura e l'attuazione del socialismo nelle mani dei contadini piccolo-borghesi. Benissimo, signor Kautsky! Quale doveva dunque essere, secondo la vostra illuminata opinione, l'atteggiamento del partito proletario verso i contadini piccolo-borghesi?

Su ciò il nostro teorico ha preferito tacere, memore forse del proverbio: «La parola è d'argento, il silenzio è d'oro». Tuttavia si è tradito con il seguente ragionamento:

Agli inizi della Repubblica sovietica, i Soviet contadini erano le organizzazioni dei contadini in generale. Oggi questa repubblica proclama che i Soviet sono l'organizzazione dei proletari e dei contadini poveri. I contadini agiati perdono il diritto di eleggere i Soviet. Il contadino povero viene riconosciuto come il prodotto permanente e di massa della riforma agraria socialista sotto la «dittatura del proletariato» (p. 48). Quale mordace ironia! È il tipo di ironia che in Russia si può cogliere sulla bocca di qualsiasi borghese: tutti costoro ghignano e sghignazzano nel vedere che la Repubblica sovietica ammette apertamente l'esistenza di contadini poveri. Essi deridono il socialismo. È affar loro. Ma il «socialista» che può ridere del fatto che da noi, dopo quattro anni di una guerra delle più devastatrici, vi sono dei contadini poveri — e ve ne saranno ancora per molto tempo —, un simile «socialista» non poteva nascere che nell'atmosfera di una apostasia di massa.

E ancora. Udite:

Essa [la Repubblica sovietica] interviene nei rapporti tra contadini ricchi e poveri, ma non mediante una nuova ripartizione della terra. Per sovvenire al bisogno di grano degli abitanti delle città si mandano nei villaggi reparti di operai armati, i quali tolgono ai contadini ricchi le loro eccedenze di grano. Una parte di questo grano è assegnata alla popolazione urbana, l'altra ai contadini poveri (p. 48). Naturalmente il socialista e marxista Kautsky è profondamente sdegnato all'idea che un simile provvedimento possa estendersi al di là dei dintorni delle grandi città (e da noi si estende a tutto il paese). Il socialista e marxista Kautsky sentenzia con l'inimitabile, impareggiabile, ammirevole freddezza (od ottusità) del filisteo: ...«Esse [le espropriazioni dei contadini agiati] introducono un nuovo elemento di perturbazione e di guerra civile nel processo produttivo » ...(la guerra civile introdotta nel «processo produttivo»: questo è già qualche cosa di soprannaturale!) ...«che per essere risanato ha urgentemente bisogno di tranquillità e di sicurezza» (p. 49).

Ma sì, il marxista e socialista Kautsky deve per forza sospirare e spargere lacrime sulla perduta tranquillità e sicurezza degli sfruttatori e degli speculatori di grano, i quali nascondono le loro eccedenze, boicottano la legge sul monopolio del grano e riducono alla fame la popolazione della città. Noi siamo tutti socialisti, marxisti e internazionalisti — gridano in coro i signori Kautsky, gli Heinrich Weber (a Vienna), i Longuet (a Parigi), i MacDonald (a Londra) e altri — noi siamo tutti per la rivoluzione della classe operaia, ma... ma fatta in modo da non turbare la tranquillità e la sicurezza degli speculatori di grano! E copriamo questo immondo servilismo verso i capitalisti richiamandoci «marxisticamente» al «processo di produzione»... Se questo è marxismo, che cosa chiamiamo allora servilismo verso la borghesia?

Vedete che cosa succede al nostro teorico. Egli accusa i bolscevichi di gabellare la dittatura dei contadini per dittatura del proletariato. E al tempo stesso ci incolpa di portare la guerra civile nelle campagne (ciò che noi riteniamo un merito) e di mandare nei villaggi reparti di operai armati, i quali dichiarano apertamente di realizzare «la dittatura del proletariato e dei contadini poveri», aiutano questi ultimi, confiscano agli speculatori e ai contadini ricchi le eccedenze di grano, che costoro nascondono violando la legge sul monopolio del grano.

Da una parte il nostro teorico marxista è per la democrazia pura, per la sottomissione della classe rivoluzionaria, guida dei lavoratori e sfruttati, alla volontà della maggioranza della popolazione (ivi inclusi quindi gli sfruttatori). Dall'altra parte egli cerca di dimostrare, contro di noi, che il carattere della rivoluzione è inevitabilmente borghese, perché i contadini nel loro insieme stanno sul terreno dei rapporti sociali borghesi, e al tempo stesso ha la pretesa di difendere il punto di vista proletario, classista, marxista!

Invece di un'«analisi economica» abbiamo un pasticcio, un minestrone di prim'ordine. Invece del marxismo, frammenti di dottrine liberali e la predicazione del servilismo verso la borghesia e verso i kulak. La questione che Kautsky imbroglia fu messa completamente in chiaro dai bolscevichi fin dal 1905. Sì, la nostra rivoluzione è borghese, finché marciamo con i contadini nel loro insieme. Ce ne siamo resi conto molto chiaramente, lo abbiamo ripetuto centinaia e migliaia di volte a partire dal 1905, e non abbiamo mai cercato né di saltare questo gradino necessario del processo storico, né di abolirlo con dei decreti. Gli sforzi di Kautsky per «conforderci» su questo punto rivelano unicamente la confusione delle sue idee e il timore di ricordare ciò ch'egli scrisse nel 1905, quando non era ancora un rinnegato.

Ma nel 1917, dal mese di aprile, molto tempo prima della rivoluzione d'Ottobre, prima che prendessimo il potere, dicevamo apertamente e spiegavamo al popolo che la rivoluzione non potrà fermarsi a questo punto, perché il paese è andato avanti, il capitalismo è andato avanti, la rovina ha raggiunto proporzioni senza precedenti, tali che esigono (lo si voglia o no) dei passi avanti, verso il socialismo. Perché altrimenti è impossibile andare avanti, salvare il paese spossato dalla guerra, alleviare le sofferenze dei lavoratori e degli sfruttati.

È avvenuto proprio così come avevamo detto. Il corso della rivoluzione ha confermato la giustezza del nostro ragionamento. Dapprincipio insieme a «tutti» i contadini contro la monarchia, contro i grandi proprietari fondiari, contro il regime medioevale (e pertanto la rivoluzione resta borghese, democratica borghese). In seguito, insieme ai contadini poveri, insieme ai semiproletari, insieme a tutti gli sfruttati, contro il capitalismo, compresi i contadini ricchi, i kulak, gli speculatori, e pertanto la rivoluzione diventa socialista. Tentar di innalzare artificialmente una muraglia cinese tra l'una e l'altra, di separarle l'una dall'altra, con qualche cosa che non sia il grado di preparazione del proletariato e il grado della sua unione con i contadini poveri, è il peggiore pervertimento del marxismo, lo svilimento del marxismo, la sostituzione ad esso del liberalismo. Significherebbe far passare di sottomano la difesa reazionaria della borghesia contro il proletariato socialista mediante riferimenti pseudoscientifici al carattere progressivo della borghesia in confronto al feudalesimo.

I Soviet rappresentano fra l'altro una forma e un tipo di democrazia infinitamente più elevati appunto perché, raggruppando e facendo partecipare alla politica la massa degli operai e dei contadini, essi costituiscono il barometro più vicino al «popolo» (nel senso in cui Marx nel 1871 parlava di una rivoluzione effettivamente popolare), più sensibile del grado e dello sviluppo della maturità politica, di classe, delle masse. La Costituzione sovietica non è stata redatta secondo un «piano» qualsiasi, non è stata compilata negli uffici, non è stata imposta ai lavoratori dai giuristi della borghesia. No, questa Costituzione è sorta dallo sviluppo della lotta di classe a misura che gli antagonismi di classe maturavano. Ciò è dimostrato per l'appunto dai fatti che Kautsky è costretto a riconoscere.

Dapprincipio i Soviet raggruppavano i contadini nel loro insieme. La mancanza di cultura, l'arretratezza, l'ignoranza proprie appunto dei contadini poveri facevano si che la direzione venisse lasciata nelle mani dei kulak, dei ricchi, dei capitalisti, della piccola borghesia, degli intellettuali piccolo-borghesi. Fu l'epoca del dominio della piccola borghesia, dei menscevichi, dei socialisti-rivoluzionari (soltanto degli imbecilli o dei rinnegati sul tipo di Kautsky possono considerare socialisti gli uni e gli altri). Necessariamente, inevitabilmente, la piccola borghesia oscillava tra la dittatura della borghesia (Kerenski, Kornilov, Savinkov) e la dittatura del proletariato, perché, dati i caratteri fondamentali della sua situazione economica, la piccola borghesia è incapace di qualsiasi attività indipendente. Incidentalmente, Kautsky rinnega completamente il marxismo, quando, nell'analisi della rivoluzione russa, si limita al concetto giuridico, formale, di «democrazia», di cui la borghesia si serve per mascherare il proprio dominio e per ingannare le masse, e dimentica che in realtà «democrazia», significa talora dittatura della borghesia, talora riformismo impotente della piccola borghesia che si sottomette a questa dittatura, ecc. Secondo Kautsky risulta che in un paese capitalistico vi erano dei partiti borghesi, vi era un partito proletario (i bolscevichi) che guidava la maggioranza, la massa del proletariato, ma non vi erano partiti piccolo-borghesi! I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari non avrebbero avuto radici di classe, radici piccolo-borghesi!

Le esitazioni della piccola borghesia, dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari illuminarono le masse e indussero l'immensa maggioranza di queste masse, tutti gli «strati inferiori», tutti i proletari e semiproletari ad abbandonare questi «capi». I bolscevichi ottennero la maggioranza nei Soviet (a Pietrogrado e a Mosca verso l'ottobre del 1917), mentre nelle file dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi la scissione si approfondiva.

La vittoria della rivoluzione bolscevica segnò la fine delle esitazioni, significò la distruzione completa della monarchia e della grande proprietà fondiaria (prima della rivoluzione di Ottobre quest'ultima non era stata distrutta). La rivoluzione borghese fu da noi condotta sino in fondo. I contadini nel loro insieme ci seguirono. Il loro antagonismo nei confronti del proletariato socialista non poteva manifestarsi immediatamente. I Soviet raggruppavano i contadini nella loro totalità. La divisione in classi all'interno della massa contadina non era ancora matura, non si era ancora esteriorizzata.

Questo ma la vita stessa insegnò ai contadini poveri che i loro interessi erano inconciliabili con quelli dei kulak, dei ricchi, della borghesia rurale. I «socialisti-rivoluzionari di sinistra», come ogni partito piccolo-borghese, rispecchiavano le esitazioni delle masse, e si scissero appunto nell'estate del 1918: una parte andò con i cecoslovacchi (rivolta di Mosca, durante la quale Proscian, impadronitosi — per un'ora! — del telegrafo, annunciò alla Russia la caduta dei bolscevichi; poi il tradimento di Muraviov, comandante supremo delle truppe che combattevano contro i cecoslovacchi, ecc); l'altra, menzionata più sopra, rimase con i bolscevichi.

L'aggravamento della situazione alimentare delle città imponeva in modo sempre più acuto il problema del monopolio dei cereali (problema che il teorico Kautsky «ha dimenticato» nella sua analisi economica, la quale ripete le cose trite e ritrite lette dieci anni fa in Maslov!).

Il vecchio Stato dei grandi proprietari fondiari e della borghesia, e perfino lo Stato democratico repubblicano, mandavano nelle campagne reparti armati, che di fatto erano a disposizione della borghesia. Questo il signor Kautsky non lo sa! In ciò non vede la «dittatura della borghesia». Dio ce ne scampi e liberi! Questa è «democrazia pura», soprattutto se è sanzionata da un parlamento borghese! Che Avksentiev e S. Maslov, in compagnia di Kerenski, di Tsereteli e di altra gente del mondo dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, nell'estate e nell'autunno 1917 abbiamo fatto imprigionare dei membri dei comitati della terra, di questo Kautsky «non ha sentito parlare», su questo tace!

La verità è che lo Stato borghese che attua la dittatura della borghesia per mezzo della repubblica democratica, non può confessare di fronte al popolo di essere al servizio della borghesia, non può dire la verità, è costretto a fingere.

Uno Stato del tipo della Comune, uno Stato sovietico, dice invece apertamente e schiettamente al popolo la verità, dichiara di essere la dittatura del proletariato e dei contadini poveri, e attira a sé, appunto con questa verità, decine e decine di milioni di nuovi cittadini che in tutte le repubbliche democratiche sono oppressi e che i Soviet fanno partecipare alla vita politica, alla democrazia, alla gestione dello Stato. La Repubblica sovietica manda nelle campagne reparti di operai armati, formati soprattutto dagli operai più avanzati, quelli delle capitali. Questi operai portano il socialismo nei villaggi, conquistano i contadini poveri li organizzano, li istruiscono e li aiutano a schiacciare la resistenza della borghesia.

Tutti coloro che conoscono i fatti e sono stati nelle campagne dicono che soltanto nell'estate e nell'autunno del 1918 le nostre campagne hanno compiuto la «rivoluzione d'Ottobre» (cioè la rivoluzione proletaria). Siamo giunti a una svolta. All'ondata delle rivolte dei kulak subentra lo slancio dei contadini poveri, lo sviluppo dei «comitati dei contadini poveri». Nell'esercito il numero degli operai commissari, ufficiali, comandanti di divisione e di armata, aumenta. Nel momento in cui lo sciocco Kautsky, spaventato dalla crisi del luglio 1918 e dalle alte grida della borghesia, corre dietro a questa come un cagnolino e scrive un opuscolo convinto che i bolscevichi sono alla vigilia di essere rovesciati dai contadini; nel momento in cui questo sciocco vede nella defezione dei socialisti-rivoluzionari di sinistra un «restringimento» (p. 37) della cerchia di coloro che sostengono i bolscevichi, in quello stesso momento l'effettiva cerchia dei sostenitori del bolscevismo si allarga infinitamente, perché decine e decine di milioni di contadini poveri, liberatisi dalla tutela e dall'influenza dei kulak e della borghesia rurale, si svegliano a una vita politica indipendente.

Abbiamo perduto centinaia di socialisti-rivoluzionari, di intellettuali senza carattere e di contadini kulak, abbiamo conquistato milioni di rappresentanti dei contadini poveri.

Un anno dopo la rivoluzione proletaria nelle capitali, è scoppiata, sotto l'influenza e con l'aiuto di questa rivoluzione, la rivoluzione proletaria nelle campagne più remote, che ha definitivamente consolidato il potere dei Soviet e il bolscevismo e ha definitivamente dimostrato che nell'interno del paese non vi sono forze capaci di opporvisi.

Dopo aver portato a termine, con i contadini nella loro totalità, la rivoluzione democratica borghese, il proletariato russo, appena gli è stato possibile di scindere le campagne, di unire a sé i proletari e i semiproletari rurali e di raggrupparli nella lotta contro i kulak e la borghesia, compresa la borghesia contadina, è passato definitivamente alla rivoluzione socialista.

Se il proletariato bolscevico delle capitali e dei grandi centri industriali non avesse saputo raggruppare attorno a sé i contadini poveri contro i contadini ricchi, questa sarebbe stata la prova che la Russia non «è matura» per la rivoluzione socialista, i contadini sarebbero rimasti «un tutto unico», sarebbero cioè rimasti sotto la direzione economica, politica e morale dei kulak, dei ricchi, della borghesia, e la rivoluzione non sarebbe uscita dai limiti della rivoluzione democratica borghese. (E anche allora — sia detto tra parentesi — non sarebbe stato dimostrato che il proletariato non avrebbe dovuto prendere il potere, giacché soltanto il proletariato ha condotto effettivamente a termine la rivoluzione democratica borghese, soltanto il proletariato ha fatto qualche cosa di serio per rendere prossima la rivoluzione proletaria mondiale, soltanto il proletariato ha creato lo Stato sovietico, secondo passo — dopo la Comune — verso lo Stato socialista).

D'altra parte, se il proletariato bolscevico nell'ottobre e nel novembre 1917 avesse tentato immediatamente — senza attendere la differenziazione delle classi nelle campagne, senza prepararla e attuarla — di «decretare» la guerra civile o l'«instaurazione del socialismo» nelle campagne, se avesse tentato di fare a meno del blocco (alleanza) temporaneo con i contadini in generale, di fare a meno di una serie di concessioni ai contadini medi ecc, questa sarebbe stata una deformazione blanquista del marxismo, sarebbe stato un tentativo della minoranza d'imporre la propria volontà alla maggioranza, sarebbe stata un'assurdità teorica, un'incomprensione del fatto che la rivoluzione dei contadini nel loro insieme è ancora una rivoluzione borghese, e che in un paese arretrato è impossibile trasformarla in rivoluzione socialista senza una serie di stadi intermedi, di gradi transitori.

In questo importantissimo problema teorico e politico Kautsky ha tutto confuso, e in pratica ha dimostrato semplicemente di essere un lacchè della borghesia, che gracchia contro la dittatura del proletariato.

Kautsky ha portato la stessa, se non maggiore confusione, in un'altra interessantissima e importantissima questione: l'attività legislativa della Repubblica sovietica nel campo della trasformazione agraria — questa difficilissima e al tempo stesso importantissima trasformazione socialista — è stata impostata in linea di principio in modo giusto ed eseguita in modo consono allo scopo? Saremmo infinitamente grati a ogni marxista dell'Europa occidentale che, dopo aver studiato almeno i documenti più importanti, sottoponesse a critica la nostra politica. Egli ci renderebbe un grande servizio, e aiuterebbe in pari tempo la rivoluzione che sta maturando in tutto il mondo. Ma Kautsky, invece di una critica ci offre un'incredibile confusione teorica, che trasforma il marxismo in liberalismo e che praticamente si riduce a una serie di attacchi oziosi, rabbiosi e volgari contro il bolscevismo. Giudichi il lettore:

La rivoluzione rese impossibile la grande proprietà fondiaria. Ciò fu chiaro immediatamente. Il trasferimento delle grandi tenute nelle mani deila popolazione contadina divenne inevitabile. [Non è vero signor Kautsky, voi sostituite ciò che è «chiaro» per voi all'atteggiamento delle diverse classi di fronte alla questione. La storia della rivoluzione ha dimostrato che il governo di coalizione della borghesia e della piccola borghesia, menscevichi e socialisti-rivoluzionari, perseguiva una politica volta a mantenere la grande proprietà. Ciò fu provato particolarmente dalla legge di S. Maslov e dall'arresto dei membri dei Comitati della terra. Senza la dittatura del proletariato la «popolazione contadina» non avrebbe vinto i grandi proprietari fondiari, alleati dei capitalisti]. ...Tuttavia non vi era unità circa le forme in cui questo doveva essere attuato. Diverse soluzioni erano possibili... [Kautsky si preoccupa soprattutto dell'«unità» dei «socialisti», quali che fossero coloro che si facevano chiamare così. Ma dimentica che le classi principali nella società capitalista devono inevitabilmente arrivare a soluzioni diverse]. ...Dal punto di vista socialista, la soluzione più razionale sarebbe stata quella di trasformare le grandi aziende in proprietà dello Stato e affidare ai contadini che vi erano occupati come operai salariati la coltivazione delle grandi tenute in forma di associazioni. Ma questa soluzione presuppone un proletariato agricolo che in Russia non esiste. Un'altra soluzione sarebbe stata quella di trasformare la grande proprietà fondiaria in proprietà dello Stato, e dividerla in piccoli appezzamenti da darsi in affitto ai contadini con poca terra. Così si sarebbe realizzato qualcosa di socialistico... Kautsky se la cava come sempre col famoso: si deve riconoscere, senza riconoscere, pur riconoscendo. Egli pone una accanto all'altra diverse soluzioni, senza pensare al problema, il solo reale, il solo marxista: quali devono essere gli stadi intermedi nel passaggio dal capitalismo al comunismo in queste o quelle particolari condizioni? In Russia vi sono operai agricoli salariati, ma il loro numero è limitato, e Kautsky non tocca affatto il problema posto dal potere sovietico: come effettuare il passaggio alla coltivazione della terra in comune e per mezzo di associazioni. La cosa più curiosa è tuttavia che Kautsky vuol vedere «qualcosa di socialistico» nella cessione in affitto di piccoli appezzamenti. In realtà questa è una parola d'ordine piccolo-borghese in cui non vi è nulla «di socialistico». Se lo «Stato» che concede in affitto la terra non è uno Stato del tipo della Comune, ma una repubblica parlamentare borghese (e questo è appunto l'assunto costante di Kautsky), l'affitto della terra in piccoli appezzamenti sarà una tipica riforma liberale.

Kautsky tace il fatto che il potere sovietico ha abolito qualsiasi proprietà privata della terra. E vi è di peggio. Egli commette un'incredibile falsificazione citando i decreti del potere sovietico in modo da ometterne i punti essenziali.

Dopo aver dichiarato che «la piccola produzione aspira alla proprietà privata assoluta dei mezzi di produzione», che l'Assemblea costituente sarebbe stata la «sola autorità» capace di impedire la ripartizione (affermazione che in Russia muoverà a riso giacché è a tutti noto che gli operai e i contadini riconoscono unicamente l'autorità dei Soviet e che la Costituente è diventata la parola d'ordine dei cecoslovacchi e dei proprietari fondiari), Kautsky continua:

Uno dei primi decreti del governo sovietico dichiara: 1. La proprietà fondiaria della terra è immediatamente abolita senza alcun indennizzo. 2. Le tenute dei proprietari fondiari, come tutte le terre degli appannaggi, dei monasteri, della chiesa, con tutte le loro scorte vive e morte, i fabbricati con tutte le loro suppellettili, passano a disposizione dei comitati della terra delle volost, dei Soviet distrettuali dei deputati contadini fino a che l'Assemblea costituente non avrà deciso la questione della terra. Dopo aver citato solo questi due punti, Kautsky conclude:

II riferimento all'Assemblea costituente restò lettera morta. Di fatto in ogni volost i contadini potevano fare della terra ciò che volevano (p. 47). Eccovi un saggio della «critica» di Kautsky! Eccovi un lavoro «scientifico» che assomiglia piuttosto a un falso. Si vuole indurre il lettore tedesco a credere che, nella questione della proprietà privata della terra, i bolscevichi abbiano capitolato di fronte ai contadini! Che i bolscevichi abbiano lasciato che i contadini (delle «singole volost») facessero quel che volevano ciascuno per conto suo!

In realtà il decreto citato da Kautsky — primo decreto, emanato il 26 ottobre 1917 (vecchio calendario) — non conteneva due ma cinque articoli, più otto articoli del Mandato il quale — è detto nel decreto — «deve servire di guida».

L'articolo 3 del decreto dice che le aziende passano «al popolo», che sono obbligatori l'«ifiventario preciso di tutti i beni soggetti a confisca» e la «più rigorosa protezione rivoluzionaria». E nel Mandato è detto che il «diritto di proprietà privata della terra è abolito per sempre», «che le tenute modello» «non sono soggette a divisione», che «tutte le scorte vive e morte delle terre confiscate passano senza alcun indennizzo in esclusivo godimento dello Stato o della comune, a seconda della loro grandezza e importanza», che «tutta la terra passa al fondo agrario di tutto il popolo».

E ancora: contemporaneamente allo scioglimento dell'Assemblea costituente (5 gennaio 1918) il III Congresso dei Soviet approvò la «dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato», che ora fa parte della legge fondamentale della Repubblica sovietica. L'articolo 2, paragrafo 1, di questa dichiarazione afferma che «la proprietà privata della terra è abolita» e che «le tenute e le imprese agricole modello sono dichiarate patrimonio nazionale».

Il riferimento all'Assemblea costituente non è quindi rimasto lettera morta, poiché un'altra assemblea rappresentativa nazionale, che agli occhi dei contadini gode di un'autorità incomparabilmente maggiore, s'assunse l'incarico di risolvere la questione agraria.

E ancora: il 6 (19) febbraio 1918 fu promulgata la lègge sulla socializzazione della terra, in cui si conferma ancora una volta l'abolizione di ogni proprietà privata della terra, si mettono a disposizione delle autorità sovietiche la terra e tutte le scorte delle aziende private, sotto il controllo del potere sovietico federale. La terra viene messa a disposizione per

sviluppare le aziende collettive — più vantaggiose dal punto di vista dell'economia del lavoro e della produzione — a spese delle aziende agricole individuali, col fine di passare all'economia socialista (art. 11, punto e). Istituendo il principio del godimento egualitario del suolo, alla domanda fondamentale: «Chi ha diritto al godimento della terra?», la legge risponde:

Articolo 20. Nei confini della Repubblica federativa sovietica russa, singoli appezzamenti di terra possono essere utilizzati per scopi pubblici e privati: A) a fini culturali e educativi: 1) dallo Stato, rappresentato dagli organi del potere sovietico (federale, regionale, di governatorato, di distretto, di volost e comunale); 2) da organizzazioni pubbliche (sotto il controllo e con l'autorizzazione del potere sovietico locale); B) per l'esercizio dell'agricoltura: 3) da comuni agricoli; 4) da cooperative agricole; 5) da associazioni rurali; 6) da singole famiglie e persone. Il lettore vede come Kautsky abbia completamente travisato le cose e dia al lettore tedesco un quadro assolutamente falso della politica agraria e della legislazione agraria dello Stato proletario in Russia.

Kautsky non ha saputo nemmeno impostare i problemi teorici importanti, fondamentali!

Questi problemi sono: 1) godimento egualitario della terra e 2) nazionalizzazione della terra; rapporto di questi due provvedimenti con il socialismo in generale e con il passaggio dal capitalismo al comunismo in particolare; 3) coltivazione della terra in comune, come transizione dalla piccola economia frazionata alla grande azienda collettiva. Il modo in cui questo problema è posto nella legislazione sovietica risponde alle esigenze del socialismo?

Per la prima questione è necessario innanzitutto stabilire i due seguenti fatti fondamentali: a) i bolscevichi; tenuto conto dell'esperienza del 1905 (rimando, per esempio, al mio libro sulla questione agraria nella prima rivoluzione russa), avevano già segnalato l'importanza democratica progressiva, democratica rivoluzionaria della parola d'ordine: godimento egualitario della terra, e nel 1917, prima della rivoluzione d'Ottobre, l'avevano detto in modo assolutamente preciso; b) promulgando la legge concernente la socializzazione della terra — legge di cui l'«anima» è la parola d'ordine del godimento egualitario della terra — i bolscevichi dichiararono molto esplicitamente ed esattamente: quest'idea non è nostra, noi non siamo d'accordo con questa parola d'ordine, ma riteniamo nostro dovere applicarla, perché è la rivendicazione della schiacciante maggioranza dei contadini. E la maggioranza dei lavoratori deve essa stessa superare queste idee e queste rivendicazioni, che non possono essere né «abolite» né «scavalcate». Noi bolscevichi aiuteremo i contadini a superare le parole d'ordine piccolo-borghesi, a passare quanto più rapidamente e facilmente sarà possibile alle parole d'ordine socialiste.

Un teorico marxista che volesse aiutare la rivoluzione operaia con la sua analisi scientifica, dovrebbe dire innanzitutto se è vero che l'idea del godimento egualitario della terra ha un'importanza democratica rivoluzionaria, in quanto porta a termine la rivoluzione democratica borghese. E in secondo luogo se hanno avuto ragione i bolscevichi di far approvare, votando a favore (e osservandola nel modo più legale), la legge piccolo-borghese del godimento egualitario della terra.

Kautsky non ha nemmeno saputo sottolineare il significato teorico della questione!

Non gli sarebbe mai riuscito di confutare che l'idea del godimento egualitario della terra ha un significato progressivo e rivoluzionario nella rivoluzione democratica borghese. Questa rivoluzione non può andare più lontano. Quando è giunta sino in fondo essa rivela alle masse tanto più chiaramente, rapidamente e agevolmente la insufficienza delle soluzioni democratiche borghesi, la necessità di uscire dai loro limiti e di passare al socialismo.

Sbarazzatisi dello zarismo e dei grandi proprietari fondiari, i contadini sognano il godimento egualitario della terra, e nessuna forza al mondo avrebbe potuto opporsi ai contadini liberatisi dei grandi proprietari fondiari e dello Stato parlamentare borghese, repubblicano. I proletari dicono ai contadini: noi vi aiuteremo a raggiungere il capitalismo «ideale», giacché il godimento egualitario della terra è, dal punto di vista del piccolo produttore, il capitalismo idealizzato. E al tempo stesso vi dimostreremo l'insufficienza di questo sistema e la necessità del passaggio alla coltivazione collettiva della terra.

Sarebbe stato interessante vedere come Kautsky avrebbe tentato di provare che questo modo di dirigere la lotta dei contadini da parte del proletariato era errato!

Ma Kautsky ha preferito eludere la questione...

Inoltre egli ha ingannato deliberatamente i lettori tedeschi tacendo il fatto che nella legge sulla terra il potere sovietico ha dato un netto vantaggio alle comuni e alle cooperative, che ha messo in primo piano.

Insieme ai contadini sino al compimento della rivoluzione democratica borghese; insieme alla parte povera, proletaria e semiproletaria dei contadini, avanti, verso la rivoluzione socialista! Questa fu la politica dei bolscevichi, ed era la sola politica marxista.

Kautsky invece si confonde e non è nemmeno capace di impostare una sola questione! Da un lato egli non osa dire che i proletari avrebbero dovuto separarsi dai contadini sul problema del godimento egualitario della terra, perché sente l'assurdità di una simile rottura (inoltre, nel 1905, quando non era ancora un rinnegato. Kautsky sosteneva esplicitamente la necessità dell'alleanza degli operai e dei contadini, come condizione per la vittoria della rivoluzione). Dall'altro lato cita con compiacenza le banalità liberali del menscevico Maslov, — il quale «dimostra» che, dal punto di vista del socialismo, l'eguaglianza piccolo-borghese è utopistica e reazionaria — e passa sotto silenzio il carattere progressivo e rivoluzionario, dal punto di vista della rivoluzione democratica borghese, della lotta piccolo-borghese per l'eguaglianza e il godimento egualitario della terra.

Ne risulta una confusione senza fine. Notate che Kautsky (nel 1918) insiste sul carattere borghese della rivoluzione russa. Kautsky (nel 1918) esige: non superate questi limiti! E lo stesso Kautsky vede «qualcosa di socialistico» (per la rivoluzione borghese) nella riforma piccolo-borghese, che assegna piccoli appezzamenti ai contadini poveri (cioè in un avvicinamento al godimento egualitario della terra)!!

Per di più Kautsky rivela l'incapacità filistea di tener conto della politica reale di un partito che ha una fisionomia ben determinata. Egli cita le frasi del menscevico Maslov e si rifiuta di vedere la politica reale perseguita dal partito menscevico nel 1917, quando questo partito, in «coalizione» con i grandi proprietari fondiari e con i cadetti, difendeva di fatto la riforma agraria liberale e l'accordo con i grandi proprietari fondiari (la prova? gli arresti dei membri dei comitati della terra e il progetto di legge di S. Maslov).

A Kautsky è sfuggito che P. Maslov, anziché incitare i contadini ad abbattere in modo rivoluzionario i grandi proprietari fondiari, dietro alle frasi sul carattere reazionario e utopistico dell'eguaglianza piccolo-borghese, nasconde in realtà la politica menscevica di compromesso tra i contadini e i grandi proprietari fondiari (aiuta cioè i grandi proprietari fondiari ad ingannare i contadini).

Bel «marxista» davvero, questo Kautsky!

Precisamente i bolscevichi tennero rigorosamente conto della differenza tra rivoluzione democratica borghese e rivoluzione socialista: portando a termine la prima, essi aprivano le porte alla seconda. Questa è l'unica politica rivoluzionaria, l'unica politica marxista.

Invano Kautsky ripete le scipitaggini liberali: «In nessun luogo ancora e mai i piccoli contadini sono passati alla produzione collettiva sotto l'influenza di convinzioni teoriche» (p. 50).

Estremamente spiritoso!

Mai e in nessun luogo i piccoli contadini di un grande paese sono stati sotto l'influenza d'uno Stato proletario.

Mai e in nessun luogo i piccoli contadini si sono spinti fino alla lotta di classe aperta dei contadini poveri contro i contadini ricchi, sino ad una guerra civile, in cui i poveri hanno l'appoggio propagandistico, politico, economico e militare del potere statale proletario.

Mai e in nessun luogo la guerra ha arricchito a tal punto gli speculatori e i ricchi, e al tempo stesso rovinato a tal punto le masse contadine.

Kautsky ripete cose fritte e rifritte, le mastica e rimastica, e teme anche solo di pensare ai nuovi compiti della dittatura proletaria.

Ebbene, carissimo Kautsky, se i contadini non hanno attrezzi in quantità sufficiente per la piccola produzione, e lo Stato proletario li aiuta a procurarsi macchine per la coltivazione collettiva della terra, è forse questa una «convinzione teorica»?

Passiamo al problema della nazionalizzazione della terra. I nostri populisti, compresi tutti i socialisti-rivoluzionari di sinistra, negano che il provvedimento da noi attuato sia la nazionalizzazione della terra. Teoricamente hanno torto. Nella misura in cui rimaniamo nel quadro della produzione mercantile e del capitalismo, abolire la proprietà privata della terra significa nazionalizzare la terra. La parola «socializzazione» esprime soltanto una tendenza, un desiderio, la preparazione del passaggio al socialismo.

Quale deve dunque essere l'atteggiamento dei marxisti nei confronti della nazionalizzazione della terra?

Anche qui Kautsky non sa nemmeno impostare la questione teorica, oppure — ciò ch'è ancor peggio — elude intenzionalmente il problema, benché egli conosca — la letteratura russa ne fa fede — le vecchie discussioni tra i marxisti russi sulla nazionalizzazione, sulla municipalizzazione (consegna delle grandi tenute alle amministrazioni autonome locali), sulla ripartizione della terra.

È un vero insulto al marxismo l'affermare, come fa Kautsky, che il passaggio delle grandi tenute allo Stato e la loro cessione in affitto, sotto forma di piccoli appezzamenti, ai contadini con poca terra realizzerebbe «qualcosa di socialistico». Abbiamo già detto che qui non c'è l'ombra di socialismo. Ma ciò non basta: non c'è neppure la rivoluzione democratica borghese condotta a termine. A Kautsky è accaduta la grave disgrazia di fidarsi dei menscevichi. E ne è risultato un fatto curioso: Kautsky, il quale sostiene che la nostra rivoluzione ha un carattere borghese e accusa i bolscevichi di essersi fitti in testa di andare verso il socialismo, presenta egli stesso una riforma liberale in guisa di socialismo, senza portare questa riforma sino al punto di eliminare tutto ciò che di medioevale esiste nei rapporti di proprietà terriera! In Kautsky, come nei suoi consiglieri menscevichi, si rivela il difensore della borghesia liberale, che teme la rivoluzione, e non già il sostenitore di una rivoluzione democratica borghese conseguente.

Infatti, perché si dovrebbero trasformare in proprietà dello Stato soltanto le grandi tenute e non tutta la terra? La borghesia liberale ottiene così la maggiore possibilità di conservare l'antico stato di cose (cioè il minimo di coerenza della rivoluzione) e la massima facilità di ritornare al passato. La borghesia radicale, quella cioè che vuole condurre a termine la rivoluzione borghese, formula la parola d'ordine della nazionalizzazione della terra.

Kautsky, che in tempi molto molto remoti — circa venti anni fa — scrisse un mirabile trattato marxista sulla questione agraria, non può ignorare le indicazioni di Marx, secondo le quali la nazionalizzazione della terra è appunto una parola d'ordine conseguente della borghesia. Kautsky non può ignorare la polemica di Marx con Rodbertus e le magnifiche pagine di Marx nelle Teorie del plusvalore in cui è spiegata in modo particolarmente chiaro l'importanza rivoluzionaria che la nazionalizzazione della terra ha nel senso democratico borghese.

Il menscevico P. Maslov, così infelicemente scelto da Kautsky come suo consigliere, negava che i contadini russi potessero acconsentire alla nazionalizzazione di tutta la terra (compresa la terra appartenente ai contadini). Quest'opinione di Maslov potrebbe sino a un certo punto connettersi alla sua «originale» teoria (che ripete la critica borghese di Marx), cioè alla sua negazione della rendita assoluta e al riconoscimento della «legge» (o «fatto», secondo l'espressione di Maslov) della «produttività decrescente del terreno».

In realtà già la rivoluzione del 1905 aveva rilevato che l'immensa maggioranza dei contadini russi — sia delle comunità che delle aziende individuali — era per la nazionalizzazione di tutta la terra. La rivoluzione del 1917 confermò questa rivendicazione e, dopo l'avvento al potere del proletariato, la attuò. I bolscevichi rimasero fedeli al marxismo; non tentarono (contrariamente a Kautsky, che ci lancia questa accusa senza l'ombra di una prova) di «saltare» la rivoluzione democratica borghese. I bolscevichi aiutarono innanzi tutto gli ideologi democratici borghesi dei contadini più radicali, più rivoluzionari, più vicini al proletariato — i socialisti-rivoluzionari di sinistra — ad attuare ciò che di fatto era la nazionalizzazione della terra. La proprietà privata del suolo è stata abolita in Russia dal 26 ottobre 1917, cioè fin dal primo giorno della rivoluzione proletaria socialista.

Fu così creata la base più perfetta dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo (ciò che Kautsky non può negare senza rompere con Marx), e al tempo stesso il regime agrario più duttile dal punto di vista del passaggio .al socialismo. Dal punto di vista democratico-borghese i contadini rivoluzionari russi non possono andare più lontano. Sotto questo punto di vista non vi può essere nulla di «più ideale», di «pili radicale» che la nazionalizzazione della terra e il godimento egualitario del suolo. Appunto i bolscevichi, grazie alla vittoria della rivoluzione proletaria, aiutarono i contadini a condurre veramente a termine la rivoluzione democratico-borghese. E questo era l'unico modo con cui potevano rendere facile e rapido al massimo grado il passaggio alla rivoluzione socialista. Ci si può quindi fare un'idea dell'incredibile pasticcio che Kautsky offre ai suoi lettori quando accusa i bolscevichi di non comprendere il carattere borghese della rivoluzione, e rivela di essersi allontanato dal marxismo a tal punto da passar sotto silenzio la nazionalizzazione della terra e presentare la riforma agraria liberale, la meno liberale di tutte (perfino dal punto di vista borghese), come «qualcosa di socialistico». E ora veniamo alla terza delle questioni da noi sollevate più sopra, quella cioè di sapere in quale misura la dittatura proletaria in Russia abbia tenuto conto della necessità del passaggio alla coltivazione collettiva della terra. Anche qui Kautsky commette qualcosa di molto simile a un falso: cita unicamente le «tesi» di un bolscevico che parlano del compito di effettuare il passaggio alla lavorazione collettiva della terra! Dopo aver citato una di queste tesi, il nostro «teorico» esclama trionfante:

Disgraziatamente non si adempie un compito soltanto chiamandolo compito. Per ora, la coltivazione collettiva della terra in Russia è destinata a rimanere sulla carta. In nessun luogo ancora e mai i piccoli contadini sono passati alla produzione collettiva sotto l'influenza di convinzioni teoriche (p. 50). In nessun luogo ancora e mai è stato commesso in uno scritto un trucco simile a quello a cui si è abbassato Kautsky. Egli cita le «tesi» e non fa parola della legge del potere sovietico. Parla di «convinzioni teoriche» e non fa parola del potere statale proletario che ha nelle sue mani e le officine e le merci. Tutto ciò che nel 1899 il marxista Kautsky scrisse nella Questione agraria sui mezzi di cui dispone lo Stato proletario per condurre gradualmente i piccoli contadini al socialismo è stato dimenticato nel 1918 dal rinnegato Kautsky.

Certo, alcune centinaia di comuni agricole e di aziende sovietiche (cioè grandi aziende coltivate da associazioni di operai per conto dello Stato) sostenute dallo Stato, sono ben poca cosa. Tuttavia l'omissione di questi fatti da parte di Kautsky può forse essere chiamata «critica»?

La nazionalizzazione della terra, attuata in Russia dalla dittatura proletaria, ha assicurato nel modo migliore il compimento della rivoluzione democratica borghese, anche nel caso in cui la vittoria della controrivoluzione dovesse farci ritornare indietro, dalla nazionalizzazione alla ripartizione (ho trattato questa eventualità nell'opuscolo sul programma agrario dei marxisti nella rivoluzione del 1905). Inoltre la nazionalizzazione della terra ha offerto allo Stato proletario il massimo delle possibilità per passare al socialismo nell'agricoltura.

Risultato: in fatto di teoria Kautsky ci ha ammannito un incredibile pasticcio che è una completa rinuncia del marxismo; in pratica ha dato prova del suo servilismo verso la borghesia e verso il riformismo borghese. Una bella critica, non c'è che dire!

Kautsky incomincia la sua «analisi economica» dell'industria con questo magnifico ragionamento:

In Russia c'è una grande industria capitalistica. Non sarebbe possibile edificare su questa base la produzione socialista?

Si potrebbe crederlo se il socialismo consistesse nel fatto che gli operai delle miniere e delle fabbriche se le appropriassero [letteralmente: se le attribuissero] per gestire separatamente ciascuna di esse (p. 52). Oggi stesso (5 agosto), nel momento in cui scrivo queste righe — aggiunse Kautsky — da Mosca si comunica che Lenin, in un discorso pronunciato il 2 agosto, avrebbe detto: «Gli operai tengono saldamente le fabbriche nelle loro mani, e i contadini non restituiranno la terra ai grandi proprietari fondiari». La parola d'ordine: «La fabbrica agli operai, la terra ai contadini» è stata finora non una rivendicazione socialdemocratica, ma anarco-sindacalista (pp. 52-53). Abbiamo citato integralmente questo ragionamento affinché gli operai russi, che un tempo — e a ragione — stimavano Kautsky, si rendano conto coi loro occhi dei metodi di cui si serve un transfuga passato alla borghesia.

Pensate dunque: il 5 agosto, quando già esistevano numerosi decreti sulla nazionalizzazione delle fabbriche in Russia e gli operai non si erano «appropriati» nessuna di queste fabbriche, che erano diventate tutte proprietà della repubblica, Kautsky, basandosi su una interpretazione manifestamente disonesta di una frase del mio discorso, vuol far credere ai suoi lettori tedeschi che in Russia le fabbriche siano state consegnate ai rispettivi operai! E dopo di ciò, prolissamente ripete a sazietà che le fabbriche non si devono consegnare singolarmente agli operai!

Questa non è critica, ma il procedimento di un lacchè della borghesia, assoldato dai capitalisti per calunniare la rivoluzione operaia.

Le fabbriche devono essere date allo Stato o alle comuni o alle cooperative di consumo — ripete più volte Kautsky, e infine aggiunge:

«È questa la strada che si tenta ora di prendere in Russia»... Ora!! Cosa significa questo «ora»? In agosto? Non avrebbe tuttavia Kautsky potuto chiedere ai suoi Stein e Axelrod, o ad altri suoi amici della borghesia russa, di tradurgli almeno uno dei decreti sulle fabbriche?

...Che cosa ne verrà fuori, ancora non si può dire. Questo aspetto della Repubblica sovietica è in ogni caso per noi del massimo interesse, ma purtroppo è ancora completamente avvolto nelle tenebre. I decreti non mancano... [ecco perché Kautsky ne ignora il contenuto o li nasconde ai lettori!], ma mancano notizie attendibili sull'effetto di questi decreti. La produzione socialista è impossibile senza una statistica ampia, particolareggiata, attendibile e che informi rapidamente. Ma finora la Repubblica sovietica non è ancora riuscita a crearla. Ciò che noi apprendiamo circa la sua attività economica è sommamente contraddittorio e non può essere verificato. È anche questo uno degli effetti della dittatura e del soffocamento della democrazia. Non v'è libertà di stampa né di parola (p. 53). Così si scrive la storia! Se ci fosse stata la «libertà» di stampa per i capitalisti e per i Dutov, Kautsky avrebbe ricevuto informazioni sulle fabbriche che passano nelle mani degli operai... Questo «serio scienziato» che si pone al di sopra delle classi è veramente magnifico; Kautsky si rifiuta di accennare sia pure ad uno solo degli innumerevoli fatti attestanti che le fabbriche sono state consegnate esclusivamente alla repubblica, che sono gestite dal Consiglio superiore dell'economia nazionale, organo del potere sovietico composto prevalentemente da rappresentanti eletti dai sindacati operai. Con la caparbietà, la cocciutaggine di un uomo che vive rinchiuso nel suo guscio, Kautsky non fa che ripetere: datemi una democrazia pacifica, senza guerra civile, senza dittatura, con una buona statistica. (La Repubblica sovietica ha creato un ufficio di statistica, chiamandovi a lavorare gli statistici più competenti della Russia, ma naturalmente è impossibile ottenere tanto presto una statistica ideale). In una parola: una rivoluzione senza rivoluzione, senza una lotta furiosa, senza violenza, ecco ciò che vuole Kautsky. Sarebbe lo stesso come se si esigessero scioperi senza lo scatenamento delle passioni dei lavoratori e dei padroni. Quale differenza ci può essere fra questo «socialista» e un volgare funzionario liberale!

E basandosi su questo «materiale concreto», omettendo cioè scientemente e sprezzantemente numerosi fatti, Kautsky «conchiude»:

È dubbio che il proletariato russo abbia avuto più reali risultati pratici — e non solo dei decreti — nella Repubblica sovietica di quanti ne avrebbe avuti dall'Assemblea costituente, nella quale, come nei Soviet, prevalevano i socialisti, sebbene di un'altra sfumatura (p. 58). È una perla, nevvero? Consigliamo agli ammiratori di Kautsky di diffondere il più largamente possibile questa sentenza tra gli operai russi. Infatti Kautsky non avrebbe potuto fornire un documento migliore a prova della sua degradazione politica. Anche Kerenski, compagni operai, era un «socialista», ma di «un'altra sfumatura»! Lo storico Kautsky si accontenta dell'appellativo, del titolo di cui si erano «appropriati» i socialisti-rivoluzionari di destra e i menscevichi. Quanto ai fatti attestanti che i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari di destra sotto Kerenski appoggiavano la politica imperialista e l'opera di brigantaggio della borghesia, di questi fatti lo storico Kautsky non vuole sentire parlare. Sul fatto che l'Assemblea costituente aveva dato la maggioranza appunto a questi eroi della guerra imperialista e della dittatura borghese, Kautsky pudicamente tace. E questo si chiama «analisi economica»!...

Per concludere, ancora un piccolo saggio di questa «analisi economica»:

...Dopo nove mesi di esistenza, la Repubblica sovietica, invece di estendere il benessere generale, si è vista costretta a spiegare da che cosa proviene la miseria generale (p. 41).

I cadetti ci hanno abituati a ragionamenti di questo genere. Tutti i lacchè della borghesia in Russia ragionano così: dateci dunque il benessere generale in nove mesi, dopo una guerra devastatrice di quattro anni, mentre il capitale straniero aiuta largamente il sabotaggio e le rivolte della borghesia in Russia. In realtà non vi è più assolutamente alcuna differenza, nemmeno l'ombra di una differenza, tra Kautsky e un controrivoluzionario borghese. I discorsi melati, che si vogliono far passare per discorsi «socialisti», ripetono le stesse cose che in Russia dicono in forma brutale, senza circonlocuzioni né vernice, i Kornilov, i Dutov, i Krasnov.

Queste righe sono state scritte il 9 novembre 1918. Nella notte dal 9 al 10 novembre dalla Germania è giunta la notizia dell'inizio della rivoluzione vittoriosa dapprima a Kiel e in altre città del nord e della costa, dove il potere è passato nelle mani dei Soviet dei deputati operai e soldati, poi a Berlino, dove il potere è passato nelle mani dei Soviet. La conclusione che dovevo ancora scrivere per l'opuscolo su Kautsky e la rivoluzione proletaria diventa superflua.

10 novembre 1918.

Allegato I. Tesi sull'assemblea costituente

1. La rivendicazione della convocazione dell’Assemblea costituente è stata inclusa in modo del tutto legittimo nel programma della socialdemocrazia rivoluzionaria, giacché in una repubblica borghese l’Assemblea costituente è la forma piu alta di democrazia, e la repubblica imperialista con a capo Kerenski, creando il parlamento, preparava la falsificazione delle elezioni con una serie di violazioni della democrazia.

2. La socialdemocrazia rivoluzionaria, ponendo la rivendicazione della convocazione dell’Assemblea costituente, ha sottolineato a piu riprese, sin dall’inizio della rivoluzione del 1917, che la Repubblica dei soviet è una forma di democrazia piu elevata di una comune repubblica borghese che abbia un’Assemblea costituente.

3. Per il passaggio dal regime borghese a quello socialista, per la dittatura del proletariato, la Repubblica dei soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini non soltanto è una forma di istituzione democratica di tipo piu elevato (in confronto a una comune repubblica borghese che abbia un’Assemblea costituente come coronamento), ma è anche l’unica forma capace di assicurare il passaggio al socialismo nel modo meno doloroso.

4. Nella nostra rivoluzione, la convocazione dell’Assemblea costituente, secondo le liste presentate alla metà dell’ottobre 1917, procede in condizioni che escludono la possibilità di una giusta espressione della volontà .del popolo in generale e delle masse lavoratrici in particolare nelle elezioni di questa Assemblea costituente.

5. In primo luogo, il sistema elettorale proporzionale dà una giusta espressione della volontà del popolo soltanto quando le liste di partito corrispondono all’effettiva ripartizione del popolo fra quei raggruppamenti di partito che si riflettono in queste liste. Da noi invece, com’è noto, il partito che, dal maggio all’ottobre ha avuto nel popolo, e particolarmente tra i contadini, il numero maggiore di sostenitori, il partito dei socialisti-rivoluzionari, alla metà dell’ottobre 1917 ha presentato delle liste uniche di candidati per l’Assemblea costituente, ma si è scisso dopo le elezioni e prima della convocazione dell’Assemblea costituente.

In forza di ciò non v’è e non può esservi neppure un rapporto formale tra la volontà della massa degli elettori e l’insieme degli eletti all’Assemblea costituente.

6. In secondo luogo, l’origine di classe — ancora più importante, non formale, non giuridica, ma sociale-economica — della divergenza tra la volontà del popolo, e particolarmente delle classi lavoratrici, da una parte, e la composizione dell’Assemblea costituente, dall’altra, sta nel fatto che le elezioni dell’Assemblea costituente si sono svolte quando la schiacciante maggioranza del popolo non poteva ancora conoscere tutta l’ampiezza e la portata della rivoluzione sovietica d’ottobre, proletaria, contadina, cominciata il 25 ottobre 1917, cioè dopo la presentazione delle liste dei candidati per l’Assemblea costituente.

7. La rivoluzione d’ottobre, che ha conquistato il potere per i soviet, ha strappato il dominio politico dalle mani della borghesia per darlo al proletariato e ai contadini poveri, percorre sotto i nostri occhi le tappe successive del suo sviluppo.

8. Essa si è iniziata con la vittoria del 24-25 ottobre nella capitale, quando il II Congresso dei soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini di tutta la Russia, questa avanguardia dei proletari e della parte politicamente più attiva dei contadini, ha dato la prevalenza al partito dei bolscevichi e Io ha portato al potere.

9. La rivoluzione ha abbracciato in seguito, durante i mesi di novembre e dicembre, tutta la massa dell’esercito e dei contadini e si è manifestata prima di tutto nella destituzione e nella nuova elezione dei vecchi organi superiori (comitati delle armate, comitati di governatorato dei contadini, CEC del soviet dei deputati dei contadini di tutta la Russia ecc.), i quali rispecchiavano una tappa superata della rivoluzione, la tappa del conciliatorismo, la tappa borghese e non proletaria, e che dovevano perciò inevitabilmente sparire dalla scena sotto l’assalto delle masse popolari più larghe e profonde.

10. Questo potente movimento delle masse sfruttate per la trasformazione degli organi dirigenti delle loro organizzazioni non è ancora terminato neppure oggi, vale a dire a metà dicembre del 1917, e il congresso dei ferrovieri, àncora in corso, è una delle tappe di questo movimento.

11. Lo schieramento delle forze di classe della Russia nella loro lotta di classe sta per compiersi e, per conseguenza, nel novembre e nel dicembre 1917 è realmente diverso, dal punto di vista dei principi, da quello che poteva esprimersi, alla metà di ottobre, nelle liste di partito dei candidati all’Assemblea costituente.

12. Gli ultimi avvenimenti in Ucraina (in parte anche in Finlandia, nella Bielorussia e nel Caucaso) indicano parimenti che un nuovo schieramento delle forze di classe viene a crearsi nel processo della lotta tra il nazionalismo borghese della Rada ucraina, della Dieta finlandese, ecc., da una parte, e il potere sovietico, la rivoluzione proletaria e contadina di ciascuna di queste repubbliche nazionali, dall’altra.

13. Infine, la guerra civile, cominciata con l’insurrezione controrivoluzionaria dei cadetti e dei seguaci di Kaledin contro il potere sovietico, contro il governo degli operai e dei contadini, ha definitivamente inasprito la lotta di classe e ha eliminato ogni possibilità di risolvere, per una via formalmente democratica, i problemi più acuti posti dalla storia davanti ai popoli della Russia e in primo luogo davanti alla sua classe operaia e ai suoi contadini.

14. Soltanto la vittoria completa degli operai e dei contadini sulla rivolta dei borghesi e dei grandi proprietari fondiari (che ha trovato la sua espressione nel movimento cadetto e dei seguaci di Kaledin), soltanto l’inesorabile repressione militare di questa rivolta di schiavisti è in grado di salvaguardare effettivamente la rivoluzione proletaria e contadina. II corso degli avvenimenti e lo sviluppo della lotta di classe nella rivoluzione hanno fatto si che la parola d’ordine « Tutto il potere all’Assemblea costituente », la quale non prende in considerazione le conquiste della rivoluzione operaia e contadina, il potere sovietico, le decisioni del II Congresso dei soviet dei deputati degli operai e dei soldati e del II Congresso dei deputati dei contadini ecc., è diventata in realtà la parola d’ordine dei cadetti e dei seguaci di Kaledin e dei loro accoliti. È chiaro per tutto il popolo che questa parola d’ordine significa praticamente lotta per eliminare il potere sovietico, e che l’Assemblea costituente, se fosse in disaccordo con il potere sovietico, sarebbe inevitabilmente condannata alla morte politica.

15. Fra i problemi particolarmente acuti della vita nazionale v'è la questione della pace. Una lotta effettivamente rivoluzionaria per la pace è cominciata in Russia soltanto dopo la vittoria della rivoluzione del 25 ottobre, e questa vittoria ha dato i primi frutti con la pubblicazione dei trattati segreti, con la conclusione dell’armistizio e con l’inizio di trattative pubbliche per una pace generale senza annessioni e senza indennità.

Le grandi masse popolari ottengono soltanto adesso, di fatto, completamente e apertamente, la possibilità di vedere la politica della lotta rivoluzionaria per la pace e di studiarne i risultati.

Durante le elezioni per l’Assemblea costituente le masse popolari erano private di questa possibilità.

È evidente che, anche da questo lato, la divergenza tra gli eletti all’Assemblea costituente e l’effettiva volontà del popolo nella questione della fine della guerra è inevitabile.

16. Il complesso delle circostanze sopra indicate ha per risultato che un’Assemblea costituente convocata in base alle liste presentate dai partiti esistenti prima della rivoluzione proletaria e contadina, quando dominava ancora la borghesia, urta inevitabilmente contro la volontà e gli interessi delle classi lavoratrici e sfruttate, le quali il 25 ottobre hanno iniziato la rivoluzione socialista contro la borghesia. Naturalmente, gli interessi di questa rivoluzione prevalgono sui diritti formali dell’Assemblea costituente, anche se questi diritti formali non fossero annullati dal fatto che nella legge sull’Assemblea costituente manca il riconoscimento del diritto del popolo ad eleggere nuovi deputati in qualsiasi momento.

17. Ogni tentativo, diretto o indiretto, di considerare la que stione dell’Assemblea costituente dal lato formale, giuridico, nel quadro della comune democrazia borghese senza tener conto della lotta di classe e della guerra civile, significa tradire la causa del proletariato, passare alle posizioni della borghesia. Mettere tutti in guardia contro questo errore, nel quale cadono alcuni elementi delle sfere dirigenti del bolscevismo, che non sanno apprezzare l’insurrezione di ottobre’e i compiti della dittatura del proletariato, è un dovere assoluto della socialdemocrazia rivoluzionaria.

18. L’unica probabilità di una soluzione non dolorosa della crisi sorta in seguito al fatto che le elezioni all'Assemblea costituente non corrispondono alla volontà del popolo e agli interessi delle classi- lavoratrici e sfruttate, consiste nella piu ampia e rapida attuazione da parte del popolo del diritto a nuove elezioni dei membri della Assemblea costituente, nella conferma da parte dell’Assemblea costituente stessa della legge del CEC su queste nuove elezioni, in una dichiarazione in cui essa riconosca senza riserve il potere sovietico, la rivoluzione sovietica, la sua politica nelle questioni della pace, della terra e del controllo operaio e il fatto che l’Assemblea costituente si è decisamente unita al campo dei nemici della controrivoluzione cadetta e kalediniana.

19. Senza queste condizioni la crisi dovuta alla questione dell’Assemblea costituente può essere risolta soltanto per via rivoluzionaria, soltanto con l’applicazione delle misure rivoluzionarie più energiche, rapide, ferme e risolute da parte del potere sovietico nei confronti della controrivoluzione cadetta e kalediniana, indipendentemente dalle parole d’ordine e dalle istituzioni (e anche dall’appartenenza all’Assemblea costituente) dietro le quali essa può nascondersi. Ogni tentativo di legare le mani al potere sovietico in questa lotta sarebbe un aiuto alla controrivoluzione.


Scritte il 12 (25) dicembre 1917. Pravda, n. 213, 26 (13) dicembre 1917.

Allegato II. Un nuovo libro di Vandervelde sullo Stato

Solo dopo aver letto l’opuscolo di Kautsky, ho avuto modo di prendere visione del libro di Vandervelde II socialismo contro lo Stato 132 (Parigi, 1918). Il raffronto tra questi due scritti s’impone da sé. Kautsky è il capo ideologico della II Internazionale ( 1889-1914), Vandervelde ne è un rappresentante ufficiale, come presidente dell’Ufficio internazionale socialista. L’uno e l’altro incarnano il completo fallimento della II Internazionale e « abilmente », con tutta la loro destrezza di giornalisti esperti, occultano con parole marxiste questo fallimento, la propria bancarotta personale e il passaggio alla borghesia. L’uno ci presenta con particolare rilievo quanto vi è di tipico nell’opportunismo tedesco, che è un opportunismo pesante, teorico, che falsifica grossolanamente il marxismo, amputandolo di tutto ciò che è inaccettabile per la borghesia. L’altro è tipico della variante latina — e si potrebbe dire, in una certa misura, della variante europeo-occidentale (nel senso che si situa a occidente della Germania) — dell’opportunismo dominante, variante piu elastica, meno pesante e che falsifica piu sottilmente il marxismo, servendosi dello stesso metodo fonda- mentale.

L’uno e l’altro travisano radicalmente la dottrina di Marx sullo Stato, nonché la sua dottrina della dittatura del proletariato, ma Vandervelde si sofferma soprattutto sulla prima questione, mentre Kautsky tratta soprattutto della seconda. L’uno e l’altro velano il nesso strettissimo e indissolubile fra le due questioni. Essi sono entrambi rivoluzionari e marxisti a parole, ma rinnegati nei fatti, in quanto fanno di tutto per sbarazzarsi della rivoluzione. Né in Kautsky né in Vander- velde c’è la minima traccia di ciò che ispira tutta l’opera di Marx e di Engels e che differenzia il socialismo effettivo dalla sua caricatura borghese; in essi infatti manca l’analisi dei compiti della rivoluzione in antitesi ai compiti della riforma, l’analisi della tattica rivoluzionaria in antitesi alla tattica riformistica, l’analisi della funzione del proletariato nella distruzione del sistema, dell’ordine, del regime della schiavitù salariata in antitesi alla funzione del proletariato delle « grandi » potenze, che riceve dalla borghesia una piccola parte dei suoi sovrapprofitti e del suo bottino imperialistico.

Riproduciamo ora qualche essenziale considerazione di Vandervelde a conferma di questo giudizio.

Come Kautsky, Vandervelde cita Marx e Engels con zelo straordinario. E, come Kautsky, cita da Marx e da Engels tutto quello che vuole, tranne ciò che è assolutamente inaccettabile per la borghesia e che differenzia il rivoluzionario dal riformista. Tutto quel che si vuole sulla conquista del potere politico da parte del proletariato, perché essa è già stata avviata dalla pratica entro una cornice esclusivamente parlamentare. Ma nemmeno una parola sul fatto che Marx e Engels, dopo l’esperienza della Comune, hanno ritenuto di dover integrare il Manifesto comunista, parzialmente invecchiato, con il chiarimento della seguente verità: la classe operaia non può limitarsi a prendere possesso della macchina statale già pronta, ma deve invece demolirla! Anche Vandervelde, come già Kautsky, quasi si fosse accordato con lui, passa completamente sotto silenzio proprio ciò che è più importante nel- Vesperienza della rivoluzione proletaria, proprio ciò che differenzia la rivoluzione proletaria dalle riforme borghesi.

Anche Vandervelde, come Kautsky, parla della dittatura del proletariato per sbarazzarsene, Kautsky l’ha fatto ricorrendo a falsificazioni grossolane. Vandervelde raggiunge lo stesso scopo con mezzi più sottili. Nel paragrafo relativo, che è il paragrafo 4, sulla « conquista del potere politico da parte del proletariato », egli dedica il punto « b » alla questione della « dittatura collettiva del proletariato », « cita » Marx e Engels (omettendo, lo ripeto, l’essenziale, ciò che riguarda la demolizione della vecchia macchina statale democratica borghese) e conclude: « .. Nei circoli socialisti è proprio questa l’idea che ci si fa comunemente della rivoluzione sociale: una nuova Comune, questa volta vittoriosa, non più in un solo punto, ma nei centri principali del mondo capitalistico. « È un’ipotesi, ma un’ipotesi che non ha niente di inverosimile in un’età in cui già appare evidente che il periodo postbellico vedrà in molti paesi antagonismi di classe e convulsioni sociali che non hanno precedenti. « Pure, se l’insuccesso della Comune di Parigi, per non dire delle difficoltà della rivoluzione russa, dimostra qualcosa, dimostra appunto che è impossibile farla finita con il regime capitalistico fino a che il proletariato non sarà adeguatamente preparato a utilizzare quel potere che in virtù delle circostanze potrebbe finire nelle sue mani » (p. 73).

E assolutamente nient’altro sulla sostanza del problema!

Eccoli i capi e gli esponenti della II Internazionale! Nel 1912 firmano il manifesto di Basilea, in cui parlano espressamente del legame tra la guerra, che sarebbe scoppiata nel 1914, e la rivoluzione proletaria, che si minacciava apertamente di scatenare. Ma poi, quando arriva la guerra e si crea una situazione rivoluzionaria, questi Kautsky e questi Vandervelde cominciano a sbarazzarsi della rivoluzione. Pensate, la rivoluzione del tipo della Comune è solo un’ipotesi che non ha niente d’inverosimile! È un ragionamento assolutamente analogo a quello di Kautsky sull’eventuale funzione dei soviet in Europa.

Ma cosi ragiona ogni liberale istruito, il quale è oggi disposto indubbiamente a convenire che una nuova Comune « non è inverosimile », che ai soviet spetterà una grande funzione, ecc. Il rivoluzionario proletario si distingue dal liberale proprio perché, come teorico, analizza il nuovo significato della Comune e dei soviet in quanto tipi di Stato. Vandervelde tralascia tutto ciò che Marx e Engels espongono ampiamente su questo tema, analizzando l’esperienza della Comune.

Come pratico, come politico, il marxista dovrebbe stabilire che solo i traditori del socialismo possono oggi esimersi dal compito di illustrare la necessità della rivoluzione proletaria (del tipo della Comune, del tipo dei soviet o, poniamo, di un terzo tipo), di chiarire la necès- sità di prepararsi alla rivoluzione, di far la propaganda tra le masse a favore della rivoluzione, di confutare i pregiudizi piccolo-borghesi contro la rivoluzione, ecc. Kautsky e Vandervelde non fanno niente di tutto questo, proprio perché sono essi stessi dei traditori del socialismo, desiderosi di perpetuare fra gli operai la loro reputazione di socialisti e di marxisti.

Si consideri l’aspetto teorico del problema.

Anche in una repubblica democratica lo Stato non è altro che uno strumento di oppressione di una classe sull’altra. Kautsky conosce, accetta, condivide questa verità, ma... elude la questione piu importante, non dice quale classe il proletariato dovrà reprimere, per quali motivi e con quali mezzi dovrà farlo, dopo aver conquistato lo Stato proletario.

Vandervelde conosce, accetta, condivide, cita questa tesi fonda- mentale del marxismo (p. 72 del suo libro), ma... non fa parola dello « spiacevole » ( per i signori capitalisti ) tema della repressione della resistenza degli sfruttatori!

Come Kautsky, anche Vandervelde elude del tutto questo tema « spiacevole ». Consiste in questo la loro abiura.

Come Kautsky, anche Vandervelde è un gran virtuoso nel sostituire la dialettica con l’eclettismo. Da un lato, non si può non riconoscere, dall’altro lato, si deve ammettere. Da un lato, si può intendere per Stato il « corpo duna nazione » (si veda il dizionario Littré, — opera scientifica, non c’è che dire, — citato a p. 87 del libro di Vandervelde), dall’altro lato, si può intendere per Stato il «governo» (ivi). Vandervelde trascrive questa dotta trivialità, approvandola, accanto ai brani di Marx.

Il significato marxista del termine « Stato », scrive Vandervelde, si differenzia dal significato comune. Sono pertanto possibili dei « malintesi ». « Lo'Stato non è in Marx e in Engels lo Stato in senso lato, lo Stato come organo di gestione, lo Stato come rappresentante degli interessi generali della società [intéréts généraux de la société]. È lo Stato potere, lo State come organo dell’autorità, lo Stato come strumento di dominio di una classe sull’altra» (pp. 75-76 del libro di Vandervelde).

Riguardo alla distruzione dello Stato Marx e Engels ne parlano soltanto nel secondo senso... « Affermazioni troppo perentorie rischierebbero di diventare inesatte. Tra lo Stato capitalistico, fondato sui dominio esclusivo di una classe, e lo Stato proletario, che persegue l’abolizione delle classi, vi sono pure delle forme intermedie» (p. 156).

Ecco la « maniera » di Vandervelde, una maniera che si distingue solo un poco da quella di Kautsky, ma che nella sostanza le è identica. La dialettica nega le verità assolute, spiegando il trapasso degli opposti e il significato delle crisi nella storia. L’eclettico non vuole affermazioni « troppo perentorie » per insinuare il suo desiderio piccolo-borghese, filisteo di sostituire alla rivoluzione le « forme intermedie ».

Sia Vandervelde che Kautsky non dicono che la forma intermedia tra lo Stato, come organo di dominio della classe dei capitalisti, e lo Stato, come organo di dominio del proletariato, è appunto la rivoluzione, che consiste nel rovesciare la borghesia e nello spezzare, nel demolire la sua macchina statale. Sia Kautsky che Vandervelde stendono un velo sul fatto che la dittatura della borghesia deve essere sostituita dalla dittatura di una sola classe, dalla dittatura del proletariato, che alle « forme intermedie » della rivoluzione seguono le « forme intermedie » dell’estinzione progressiva dello Stato proletario.

Ecco in che cosa consiste la loro abiura politica.

Ecco in che cosa consiste, sul piano teorico, sul piano filosofico, la sostituzione della dialettica con l’ecclettismo e con i sofismi. La dialettica è concreta e rivoluzionaria: essa distingue tra il « passaggio » dalla dittatura di una classe alla dittatura di un’altra classe e il « passaggio » dallo Stato democratico proletario al non Stato («estinzione dello Stato»). L’eclettismo e la sofistica dei Kautsky e dei Vandervelde sorvolano invece, per compiacere la borghesia, su quanto vi è di concreto e di preciso nella lotta di classe, sostituendole il concetto generico di « passaggio » in cui può occultarsi (e in cui i nove decimi dei socialdemocratici ufficiali del nostro tempo occultano) la rinuncia alla rivoluzione!

Come eclettico e come sofista, Vandervelde è più abile e piti sottile di Kautsky, perché con la frase: « transizione dallo Stato in senso stretto allo Stato in senso lato » si può eludere qualsiasi problema della rivoluzione, si può eludere ogni differenza tra la rivoluzione e le riforme, persino ciò che distingue il marxista dal liberale. Quale borghese istruito all’europea potrebbe infatti negare « in linea generale » le « forme intermedie » in un senso cosi « generale »?

« Non è dubbio, — scrive Vandervelde, — e su questo punto c’incontriamo con Guesde, che non si possono socializzare i principali mezzi di produzione e di scambio, ove non si siano realizzate preliminarmente le due seguenti condizioni:

« 1. la trasformazione dello Stato attuale, organo di dominio di una classe sull’altra, in ciò che Menger chiama lo Stato popolare del lavoro, mediante la conquista del potere politico da parte del proletariato;

« 2. la separazione dello Stato, organo di autorità, e dello Stato, organo di gestione, o, per riprendere le espressioni saint-simoniane, separazione del governo degli uomini e dell’amministrazione delle cose » ( 89 ).

Cosi scrive Vandervelde in corsivo, per sottolineare particolarmente l’importanza delle due condizioni. Ma si tratta di un puro pasticcio eclettico, di una completa rottura con il marxismo! Lo « Stato popolare del lavoro » è soltanto una perifrasi del vecchio « Stato popolare libero », con cui si pavoneggiavano i socialdemocratici tedeschi negli anni settanta e che Engels ha bollato come un’assurdità 133. L’espressione « Stato popolare del lavoro » è una frase degna d’un democratico piccolo-borghese (come il nostro socialista-rivoluzionario di sinistra), è una frase che sostituisce ai concetti classisti i concetti extraclassisti. Vandervelde mette sullo stesso piano la conquista del potere statale da parte del proletariato (cioè di una sola classe) e lo Stato « popolare », senza avvedersi che ne viene fuori un pasticcio. In Kautsky, con la sua « democrazia pura », si ha lo stesso pasticcio, lo stesso misconoscimento piccolo-borghese e antirivoluzionario dei problemi della rivoluzione di classe, della dittatura proletaria di classe, dello Stato (proletario) di classe.

Ancora. Il governo degli uomini scomparirà per cedere il posto all’amministrazione delle cose solo quando si sarà estinto ogni Stato. Con questa prospettiva relativamente lontana Vandervelde complica e offusca il compito di domani, che consiste nel rovesciare la borghesia.

Questo metodo non è altro che una forma di servilismo verso la borghesia. Il liberale è subito disposto a dire che verrà un giorno in cui gli uomini non avranno più bisogno di essere governati. Perché non abbandonarsi a sogni cosi innocui? Purché non si dica niente sulla repressione che il proletariato deve esercitare sulla borghesia che resiste alla propria espropriazione! Lo impone l’interesse di classe della borghesia.

Il socialismo contro lo Stato. È un inchino che Vandervelde fa al proletariato. Non è difficile inchinarsi. Ogni uomo politico « democratico » sa pur salutare i propri elettori. Ma dietro l’« inchino » si contrabbanda un contenuto antirivoluzionario e antiproletario.

Vandervelde ripete sin nei particolari Ostrogorski134 quando dice quanto inganno, violenza, corruzione, menzogna, ipocrisia, oppressione dei poveri si annidi dietro la facciata civile leccata e lisciata della democrazia borghese contemporanea. Ma Vandervelde non trae da ciò alcuna conclusione. Non vede affatto che la democrazia borghese reprime le masse lavoratrici e sfruttate e che la democrazia proletaria dovrà reprimere la borghesia. Kautsky e Vandervelde chiudono gli occhi su questo fatto. L’interesse di classe della borghesia, dietro la quale si trascinano questi traditori piccolo-borghesi del marxismo, impone che questo problema venga eluso, impone che si passi sotto silenzio o si neghi espressamente la necessità di questa repressione. L’eclettismo piccolo-borghese contro il marxismo, la sofistica contro la dialettica, il riformismo filisteo contro la rivoluzione proletaria: ecco come si sarebbe dovuto intitolare il libro di Vandervelde.

Note

  1. Lenin V. I. La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky / [Anon. trad.], Mosca : Ed. in lingue straniere, 1947. - 122 p.