La persuasione e la rettorica (1915)/Via alla persuasione

PARTE PRIMA
DELLA PERSUASIONE

III
VIA ALLA PERSUASIONE

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PARTE PRIMA
DELLA PERSUASIONE

III
VIA ALLA PERSUASIONE
L'illusione della persuasione - III La rettorica


                      Κύριός εἰμι θροεῖν ὅδιον κράτος αἴσιον ἀνδρῶν
                      ἐκτελέων· ἔτι γάρ θεόθεν καταπνείει
                      πειθώ.
                                 (ESCHILO)


Τί τοῦτο ποιεῖς; questo che fai, come che cosa lo fai? – con che mente lo fai? tu ami questa cosa per la correlazione di ciò che ti lascia dopo bisognoso della stessa correlazione, la cui vicinanza non è in te prevista che fino a un limite dato, sicché, a te, schiavo della contingenza di questa correlazione, sia tolto tutto quando a questa cosa questa correlazione sia tolta; e tu debba altra cosa cercare e in balìa della contingenza di questa metterti?

O sai cosa fai? e quello che fai, che è tutto in te nel punto che lo fai, da nessuno ti può esser tolto?

Sei persuaso o no di ciò che fai? Tu hai bisogno che questo avvenga o non avvenga per fare quello che fai, che le correlazioni coincidano sempre, poiché il fine non è mai in ciò che fai, se anche sia vasto e lontano, ma è sempre la tua continuazione. Tu dici che sei persuaso di quello che fai, avvenga che può? – Sì? – Allora io ti dico: domani sarai morto certo: non importa? pensi alla fama? pensi alla famiglia? ma la tua memoria è morta con te, con te è morta la tua famiglia; – pensi ai tuoi ideali? vuoi far testamento? vuoi una lapide? ma domani sono morti, morti anch’essi; – tutti gli uomini muoiono con te – la tua morte è una cometa che non falla; ti rivolgi a dio? – non c’è dio, dio muore con te; il regno dei cieli crolla con te, domani sei morto, morto; domani è finito tutto; il tuo corpo, la tua famiglia, i tuoi amici, la tua patria, quello che fai, quello che ancora puoi fare, il bene, il male, il vero, il falso, le tue idee, la tua parte, iddio e il suo regno, il paradiso, l’inferno, tutto, tutto, domani è finito tutto – fra 24 ore è la morte.

Allora... allora... il dio d’ora non è più quello di prima, non è più quella la patria, quello il bene, quello il male, quelli gli amici, quella la famiglia. – Vuoi mangiare? no, non puoi mangiare, il sapore del cibo non è più quello, il miele è amaro, acido il latte, la carne è nauseante; e poi l’odore, è l’odore che è nauseante: pute di cadavere; – vuoi una donna che ti conforti gli ultimi istanti? no, peggio: è carne morta; – vuoi godere il sole, l’aria, la luce, il cielo? – godere?! – il sole è un’arancia fradicia, la luce è spenta, l’aria irrespirabile, il cielo è una volta bassa che m’opprime... no, tutto è chiuso e buio ormai. – Ma il sole splende, l’aria è pura, tutto è come prima, eppur tu parli come un sepolto vivo che descriva la sua tomba. E la persuasione? non sei persuaso nemmeno della luce del sole, non puoi più muovere un dito, non puoi più tenerti in piedi. Il dio che ti teneva in piedi, che ti faceva chiaro il giorno, e dolce il cibo, che ti dava la famiglia, la patria, il paradiso – quello ti tradisce ora e t’abbandona, poiché è rotto il filo della tua φιλοψυχία.–

Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, esser nati non è che voler continuare: gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente. Tutto ciò che fanno e che dicono con ferma persuasione, per un certo fine, con evidente ragione – non è che paura della morte – σοφὸν γὰρ εἶναι δοκεῖν μὴ ὄντα - οὐδὲν ἄλλο ἐστὶ ἢ θάνατον δεδιέναι.1

Ogni presente della loro vita ha in sé la morte. La loro vita non è che paura della morte. Essi vivono per salvar ciò che è dato loro col nascimento, come se essi stessi fossero nati con persuasione, e stesse in loro arbitrio la morte. Quello che è dato loro non è che la paura della morte, e questa vogliono salvare come vita sufficiente da ciò che nello stesso punto è dato loro: la sicurezza di morire. In questa stretta, e per la cura di un futuro che non può che ripetere (finché lo ripeta) il presente, essi contaminano questo, che ogni volta è in loro mano. E dove è la vita se non nel presente? se questo non ha valore niente ha valore.

Chi teme la morte è già morto.


Chi vuol aver un attimo solo sua la sua vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie; poiché niente in lui chiede più di continuare; niente è in lui per la paura della morte – niente è così perché così è dato a lui dalla nascita come necessario alla vita. E la morte non toglie che ciò che è nato. Non toglie che quello che ha già preso dal dì che uno è nato, che perché nato vive della paura della morte; che vive per vivere, vive perché vive – perché è nato. – Ma chi vuol aver la sua vita non deve credersi nato, e vivo, soltanto perché è nato – né sufficiente la sua vita, da esser così continuata e difesa dalla morte.

I bisogni, le necessità della vita, non sono per lui necessità, poiché non è necessario che sia continuata la vita che, bisognosa di tutto, si rivela non esser vita. Egli non può prender la persona di questi bisogni come sufficiente, se appunto essi non curano che il futuro: egli non può affermar sé stesso nell’affermazione di quelli, che sono dati in lui, come è data la correlatività, da una contingenza che è fuori e prima di lui: egli non può muoversi a differenza delle cose che sono perché egli ne abbia bisogno: non c’è pane per lui, non c’è acqua, non c’è letto, non c’è famiglia, non c’è patria, non c’è dio – egli è solo nel deserto, e deve crear tutto da sé: dio e patria e famiglia e l’acqua e il pane. Poiché quelli che il bisogno gli addita, quelli sono il suo stesso bisogno: quelli restano sempre lontani, quanto il suo bisogno di continuare li projetterà sempre avanti nel futuro: quelli non li potrà mai avere, ma quando vada a loro essi s’allontaneranno: poiché egli rincorrerebbe la propria ombra.

No, egli deve permanere, non andar dietro a quelli fingendoseli fermi perché essi lo attraggano sempre nel futuro; egli deve permanere seppur vuole ch’essi gli siano nel presente, che siano suoi veramente. Egli deve resister senza posa alla corrente della sua propria illusione; s’egli cede in un punto e si concede a ciò che a lui si concede, nuovamente si dissolve la sua vita, ed ei vive la propria morte – in ciò che prendendo la sufficienza del suo bisogno, che la paura della morte ha determinato, egli ha affermato la sua propria insufficienza, ha chiesto ad altri appoggio alla sua vita, ha preso la persona della fame per aver fame ancora nel prossimo istante, mentre questo istante doveva esser l’ultimo per lui.

Questo rimorso, questa morte di sé ch’egli sente, invano ei cerca allora ingannare in quel piacere – sotto resta l’ombra del dolore cieco e muto, che amaro e vuoto gli rende quel piacere – invano egli tenta per quella via d’impossessarsi della cosa che l’ha attratto: è finita e non in lui la correlatività, il resto scende sotto nell’ombra.

Chi vuole fortemente la sua vita, non s’accontenta, temendo di soffrire, a quel vano piacere che gli faccia schermo al dolore, perché questo continui sotto cieco, muto, inafferrabile; ma anzi la persona di questo dolore prende e sopportando λύπης ἀντίρροπον ἄχθος (Soph., Elettra) s’afferma là dove gli altri sono annientati dal mistero; poiché egli ha il coraggio di strappar da sé la trama delle dolci e care cose che conforta a esser ancora giuocati nel futuro, e chiede il possesso attuale; quello che per gli altri è mistero poiché trascende la loro potenza, per lui non è mistero, che l’ha voluto ed in ciò s’è affermato. Così egli deve crear sé stesso per avere il valore individuale, che non si muove a differenza delle cose che vanno e vengono, ma è in sé persuaso.


Ma gli uomini dicono: «Questo va bene, ma intanto, intanto bisogna ben vivere» – «Intanto»! Intanto che avvenga che cosa? – in tempi andati cantavano nel Veneto:

«Se spera che i sassi
deventa paneti
perché i povareti
li possa magnar.

Se spera che l’acqua
deventa sciampagna
perché no i se lagna
de sto giubilar

Se spera sperando
che vegnarà l’ora
de andar in malora
per più no sperar».


Proprio così! Ma è questione della vita, della vostra vita, della vita d’ognuno; non c’è sosta per chi è nella corrente, ma ogni istante di riposo è via all’inverso; non c’è sosta per chi porta un peso su per un’erta, ma quando lo deponga dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà ripiombato: ogni sosta è una perdita; tanto sosti e tanta strada devi rifare. – ognuno in ogni punto della sua vita

...ἐνταῦθ’ <ἐστίν>
ἵν’ οὐκέτ’ ὀκνεῖν καιρός, ἀλλ’ ἔργων ἀκμή.
(Soph., Elettra).

Ma gli uomini sono come quello che sogna di levarsi e quando s’accorge d’esser ancora a giacere, non però si leva ma si rimette a sognar di levarsi – così, né levandosi né cessando di sognare, continua a soffrir dell’imagine viva che gli turba la pace del sonno e dell’immobilità che gli rende vana l’azione che sogna. –

Essi dicono: «Non siamo né i primi né gli ultimi a questo mondo, e, poiché bisogna vivere, conviene adattarsi a quello che si trova, che d’altronde non potremmo cambiare».

Ma ognuno è il primo e l’ultimo, e non trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita, come l’abbia a vivere per giungere alla vita, che su altri non può ricadere; deve aver egli stesso in sé la sicurezza della sua vita, che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa. – E non dovrebbe far questo per che? per aspettarsi che cosa? per conservarsi a che cosa, per cui egli debba rinunciare al possesso presente della sua vita, distruggere per sempre la via alla persuasione? che gli toglierebbe la morte che non gli abbia già preso?

– «Ma» dicono «io ho le gambe deboli, e quella tua via è impraticabile». – Ci sono zoppi e diritti – ma l’uomo deve farsi da sé le gambe per camminare – e far cammino dove non c’è strada. Per le vie consuete gli uomini vanno in un cerchio che non ha principio e non ha fine; vanno, vengono, gareggiano, s’accalcano affaccendati come le formiche – forse anche si scambiano l’uno con l’altro, – certo, per camminare che facciano, sono sempre là dov’erano, ché un posto vale l’altro nella valle senza uscita. L’uomo deve farsi una via per riuscire alla vita e non per muoversi fra gli altri, per trar gli altri con sé e non per chiedere i premi che sono e non sono nelle vie degli uomini.

– «Assai abbiamo da portare ognuno la nostra croce perché tu ci venga a imporre l’insopportabile, e a togliere quei sollievi ai quali abbiamo diritto».

– Non portate la croce, ma siete tutti crocefissi al legno della vostra sufficienza, che v’è data, che più v’insistete e più sanguinate: vi fa comodo dire che portate la croce come un sacro dovere, mentre pesate col peso inerte delle vostre necessità. – Abbiate il coraggio di non ammetterle quelle necessità, di sollevarvi per voi stessi... Ma su quelle è misurato il vostro possibile e l’impossibile, il sopportabile e l’insopportabile dei doveri da compiere per guadagnarvi in pace la vita; quando v’adattate ai modi del corpo, della famiglia, della città, della religione, dite: «faccio i miei doveri2 d’uomo, di figlio, di cittadino, di cristiano» e a questi doveri commisurate i diritti. Ma il conto non torna.

È una strana fortuna quella di questo conto. Se vi mettete con uno a fare il conto addosso a suo fratello, otterrete facilmente un risultato determinato; contento, andate a farlo vedere al fratello perché lo regoli, e vedrete le meraviglie e l’ira e gli insulti; vi scusate, v’offrite di rifarlo insieme a lui, e, se quello, rabbonito, acconsente, in poco tempo avete con la stessa facilità un nuovo risultato, analogo al primo: ma appunto quanto alla regolazione, osservate che i valori sono puntualmente invertiti... Al momento siete portati a pensare che si tratti d’una equazione reciproca; e per trovar una nuova determinante andate dal terzo fratello; ma quello vi ride in faccia, e invece di risolver il problema che oli proponete, v’imbandisce tutta un’altra storia; se fate osservazione, s’arrabbia; v’adattate – e uscite con un terzo risultato con un monte di nuove incognite: oltre i doveri reciproci fra i due primi fratelli avete i reciproci fra il primo e il terzo, e fra il secondo e il terzo; fra il primo e gli altri due, il secondo e gli altri due, il terzo e gli altri due; – fate esaminar il nuovo problema agli altri due separatamente e avrete nuove rabbie, nuovi insulti e nuovi risultati. Vi sentite sconcertato – poiché la riuscita è davvero miserevole e inaudita nell’esperienza del matematico più provato. Avete cominciato con una semplice somma – ed ora dopo tante faticose operazioni avete: 3 equazioni di terzo grado e 6 incognite da determinare. Concludete a maggior dignità vostra e della matematica che si tratta d’un’equazione «indeterminata». Infatti indeterminatissima. – Se fate una prova ulteriore ottenete a vostra indignazione – senza contar gli insulti – 4 equazioni di quarto grado e 12 incognite; – v’ardite di proseguire e ricavate con vostro spavento un problema di 5 equazioni di quinto grado e 35 incognite: la cosa vi comincia a esser inquietante; tanto più che le equazioni determinanti si vanno facendo incerte e lacunose... Cominciate quasi a dubitare della matematica... Ma poi, se siete matematico di razza, vi ci rimettete armato di tutti gli artifizi, poiché il problema ma v’avrà tolta la pace – ma invano: vi perdete in una nebbia di determinazioni con infinito numero d’incognite, con un infinito sponente, irriducibili, quanto anche v’adoperiate: un’equazione proprio indeterminatissima quella faccenda di diritti e doveri fra i due fratelli. – Poveri matematici, quanta fatica vana quando i dati non vi son dati, ma ve li dovete cercare, – e quando i dati sono dati, quanto lavoro inutile! Che avesse ragione il caro capo e refrattario alle matematiche di Sesto Empirico?


Conviene pensar meno alle equazioni e tanto più all’equità. –

Quanti sono schiavi del «bisogna vivere» che attendono tutto dal futuro e si protendono verso le cose, – pretendono da queste le consuete relazioni come con persona sufficiente che avendo in sé la ragione avesse di- ritto di chiedere. Tutti dicono: «ma infine ho diritto anch’io...»; «se sapeste cosa ho sofferto, capireste che ho ragione...»; «bisogna provare! mettetevi nei miei panni, e poi giudicate!»... E infatti, infatti hanno tutti ragione – tutti vi possono così enumerare le cause, i bisogni che il suo atto o la sua pretesa resultino matematicamente giusti: ha ragione il sasso di cadere, se così la terra lo attragga; ha ragione la formica oppressa di protestare, se così il sasso la gravi; ha ragione la zanzara di suggere il sangue dell’uomo, se così fame la spinga; ha ragione l’uomo d’ucciderla, se così essa lo punga – hanno ragione le pulci, i cani arrabbiati, la filossera, la peste, i doganieri, le guardie di pubblica sicurezza: – tutti hanno ragione di vivere... che hanno avuto il torto di nascere. Voi dite: «ci s’accomoda, ... c’è posto per tutti». Sì, «il buon Tobia prese delicatamente la mosca, aprì la finestra ecc. «Ma chiudete il buon Tobia al buio fra i sorci, le scolopendre, gli scorpioni, le mosche da cavallo, e le zanzare della malaria e vedrete cosa intraprenderà il buon Tobia colle sue dita delicate!

Πράξας γὰρ εὖ πᾶς ἀνὴρ ἀγαθός.
... ἄνδρα δ’ οὐκ ἔστι μὴ οὐ κακὸν ἔμμεναι,
ὃν ἀμάχανος συμφορὰ καθέλῃ.
(Simonide)

Alle haben rechtniemand ist gerecht: Tutti hanno ragione – nessuno ha la ragione. Poiché non v’è effetto senza causa, ogni cosa nel mondo ha ragione d’avvenire; a ogni causa è giusto il suo effetto, a ogni bisogno giusta la sua affermazione – ma nessuno è giusto: nessuno, ché in ciò appunto che chiede l’affermazione giusta alle sue cause, ai suoi bisogni, prende la persona di questi: e non può avere la persona della giustizia. Se egli è figlio delle tali cause, dei tali bisogni, non ha in sé la ragione; e l’affermazione della sua qualunque persona è sempre, come irrazionale, violenta. In qualunque modo uno chieda di continuare, parlano in lui le date necessità del suo vivere, ed egli in ciò che afferma come giusto quello che è giusto per lui, nega ciò che è giusto per gli altri, ed è ingiusto verso tutti gli altri, avvenga o non avvenga ch’ei commetta ingiuria.3

Poiché non v’è uom giusto sulla terra, che faccia il bene e non commetta ingiuria (Ecclesiaste). Πᾶς ἄνθρωπος πρὸς βίον πανοῦργος – ὅστις γὰρ θάνατον δέδιε τὸ ἑαυτοῦ μέρος παντί ἄδικός ἐστιν. – I buoni, i pii, gli onesti, i giusti, i benefici uomini che vivono, come sono morti in sé, così sono ingiusti verso gli altri; poiché per la paura della morte s’accontentano di vivere senza persuasione; ogni loro atto, ogni loro parola è ingiusta, è disonesta, ché è sempre l’affermazione d’un’individualità illusoria. –


La giustizia, la persona giusta, l’individuo che ha in sé la ragione, è un’iperbole – dicono tutti, e tornano a vivere come se già l’avessero – ma iperbolica è la via della persuasione che a quella conduce. Poiché come infinitamente l’iperbole s’avvicina all’asintoto, così infinitamente l’uomo che vivendo voglia la sua vita s’avvicina alla linea retta della giustizia; e come per piccola che sia la distanza d’un punto dell’iperbole dall’asintoto, infinitamente deve prolungarsi la curva per giungere al contatto, così per poco che l’uomo vivendo chieda come giusto per sé, infinito gli resta il dovere verso la giustizia. Il diritto di vivere non si paga con un lavoro finito, ma con un’infinita attività.4

Poiché prendi parte alla violenza di tutte le cose, è nel tuo debito verso la giustizia tutta questa violenza. A toglier questa dalle radici deve andar tutta la tua attività: – tutto dare e niente chiedere: questo è il dovere – dove sono i doveri e i diritti io non so.


L’attività che non chiede è il beneficio, che fa non per avere, ma facendo dà.

Dare, fare, beneficare sono tre belle parole. Tutti danno, fanno, beneficano: ma nessuno ha, niente è fatto, ed il bene, chi lo conosce?

1°. Dare non è per aver dato ma per dare (δοῦναι!).

Se io entro in un negozio, e pago la merce – anche questo è un «dare». Ma io pago la merce e non pago pel piacere di pagare. Se potessi aver pagato e tenermi la merce senza pagare, m’accontenterei. Il pagare è mezzo e non fine.

La munificenza che aspetta il nome, il beneficio che aspetta la gratitudine, il sacrificio che aspetta il premio, sono come ogni altra faccenda che non ha in sé il fine ma è mezzo ad aver qualche cosa, e come dal bisogno di questa è necessitata, da questa pel futuro dipende. – Il dare per aver dato non è dare ma chiedere.

Fare non è per aver fatto; aver fatto non giova; quello che hai fatto non l’hai nel presente ma lo vuoi conservare; per averlo devi rifarlo come ogni altra cosa: e non giungi a un fine. – Far beneficio non è dare o fare agli altri quello che essi credono di volere: far l’elemosina al povero, sanare gli ammalati, sfamare, dissetare, vestire; questo è lasciare che gli altri prendano; non è dare o fare ma è subire.

2°. Non può fare chi non è, non può dare chi non ha, non può beneficare chi non sa il bene: questa attività dei benefici finiti è essa stessa una violenza, poiché mentre s’afferma come attività individuale, è sempre schiava di ciò che vuol continuare nel futuro; in lei s’affermano, chiedendo, i bisogni irrazionali.

È la facile, debole, stupida pietà di chi non sa quello che fa ma vuol illudersi di fare. Se dare agli uomini i mezzi per la vita fosse l’attività giusta – ma generar figliuoli sarebbe divina cosa.

Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora, qui, tutta, perché non chiedano: questa è l’attività che toglie la violenza dalle radici.

– «Questo è l’impossibile».

Già: l’impossibile! poiché il possibile è ciò che è dato, il possibile sono i bisogni, le necessità del continuare, quello che è della limitata potenza volta al continuare, quello che è della paura della morte, – quello che è la morte nella vita, la nebbia indifferente delle cose che sono e non sono: il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori della morte e il presente divien vita. Che v’importa di vivere se rinunciate alla vita in ogni presente per la cura del possibile. Se siete nel mondo e non siete nel mondo, – prendete le cose e non le avete, mangiate e siete affamati, dormite e siete stanchi, amate e vi fate violenza, se siete voi e non siete voi. –

Dare è fare l’impossibile: dare è avere. –

Finché l’uomo vive, egli è qui, – e là è il mondo, finché egli vive vuole possederlo, finché egli vive, in qualche modo s’afferma: e chiede, entra nel giro delle relazioni – ed è sempre lui qui e là il mondo diverso da lui. Ma di fronte a ciò che era per lui una data relazione, nella quale affermandosi egli chiedeva di continuare, ora egli deve affermarsi non per continuare, deve amarlo non perché esso sia necessario al suo bisogno, ma per ciò ch’esso è: deve darsi tutto ad esso tutto per averlo: poiché in esso egli non vede una relazione particolare ma tutto il mondo, e di fronte a questo egli non è la sua fame, il suo torpore, il suo bisogno d’affetto, il suo qualunque bisogno, ma egli è tutto: poiché in quell’ultimo presente deve aver tutto e dar tutto: esser persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso di sé stesso – esser uno egli e il mondo.

Egli si deve sentire nel deserto fra l’offrirsi delle relazioni particolari poiché in nessuna di queste egli può affermarsi tutto: ma in ogni cosa che queste relazioni gli offra[no] egli deve amar della vita di questa e non usar della relazione: affermarsi senza chiedere.5 – Ma la sua vita non è quello che questa cosa crede giusto per sé, non deve chiederlo alle cose e farsi istrumento della loro qualunque richiesta,6 – ché essendo giusto all’una sarebbe ingiusto all’altra: ripeterebbe la contingenza delle loro coscienze – ma deve egli stesso volerle, egli stesso crearle, amare in loro tutto sé stesso, e comunicando il valore individuale, identificarsi.

Ma questo tutto non è mai tutto e l’affermazione è sempre un cedere, poiché infiniti sono i travestimenti della φιλοψυχία.

Egli non deve accontentarsi finché in fatti non è contento7 e disporsi a cogliere i frutti in pace; non ci sono soste sulla via della persuasione. La vita è tutta una dura cosa.

Egli deve aver il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il proprio dolore, di sopportarne tutto il peso.

Egli non deve accontentarsi di quanto ha dato anche se gli altri se ne dicano contenti: egli deve vedere che se pur dicono di sì, tutta la loro vita, che chiede il futuro, dice di no: egli li ha violentati anche s’essi s’accontentano a quello che non è il valore; e s’egli a quello s’accontenta, se non ha il coraggio di negare, ancora è disonesto.

E questo non così in generale ma in ogni punto: s’egli parla col suo compagno, facilmente questo potrà convenire in quanto egli abbia detto; ma egli che deve sentire di non aver comunicato il valore individuale e veder l’altro diverso da sé, non deve abbandonarsi al piacere dell’apparente simpatia, ma attribuire all’altro ancora la persona che nega, che soffre, che non ha, ch’egli sente dentro di sé; e questa persona in lui rispettando negare l’apparente valore, e più vicine portare le cose lontane e più lontane cose far viver nel presente. – Poiché quest’uomo gli deve esser tutto il mondo. – E alla fame del mondo egli deve esser sufficiente, non al gusto di quell’uomo.

E s’egli è solo, il mondo gli deve esser un uomo che dice sempre «no» a ogni suo atto, ad ogni sua parola, finché egli non abbia da sé riempito il deserto e illuminata l’oscurità.

E se gli uomini non vogliano intenderlo egli non deve dire: «sono ciechi – io ho dato già tutto» – niente ha dato finché non ha dato la vicinanza delle cose lontane così che anche i ciechi le vedano. Egli deve sentir in sé l’insufficienza e rispettar in loro quello ch’essi stessi in sé non rispettano; perché dal suo amore attratti essi prendano la persona ch’egli ama in loro: allora i ciechi vedranno.


Così egli deve dare per avere la ragione di sé, e averla in sé per darla; senza soste battendo la dura via lavorare nel vivo il valore individuale: e, facendo la propria vita sempre più ricca di negazioni, crear sé ed il mondo.

Questo è il voler avere le cose, e sé stesso nelle cose e neIle cose sé stesso: poiché il mondo non è che il mio mondo e se lo posseggo ho me stesso. «Reagisci al bisogno d’affermare l’individualità illusoria, abbi l’onestà di negare la tua stessa violenza, il coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza in ogni punto – per giungere ad affermare la persona che ha in sé la ragione, per comunicare il valore individuale: ed esser in uno persuaso tu ed il mondo». Questo ha detto l’oracolo di Delfo quando ha detto: Γνῶθι σεαυτόν.8


1°. Il dolore parla.
Allora il dolore muto e cieco di tutte le cose che in ciò che vogliono esser non sono, avrà per lui che ne avrà presa la persona, la parola eloquente e la vista lontana, poiché nel piacere grigio, nei dolori finiti di tutte le cose, che, per la paura della morte, sempre lo reprimono, egli lo sentirà parlare e lo vedrà παπταίνειν a un bene che quelle non hanno il coraggio di volere. EgIi vedrà che non è fame, che non è sete, non malattia, non disgrazia quello per cui gli uomini soffrono; non cibo o bevanda, o l’apparente salute, o la presenza di ciò che è loro in mano e non è – ché non ne hanno la potenza – quello che li possa far contenti; – ma che soffre in loro l’ottuso dolore in ogni presente sempre ugualmente vuoto, nell’abbondanza o nelle privazioni; egli soffrirà nello stesso punto della propria deficienza e della loro: parlando la voce del proprio dolore egli parlerà loro la voce ad essi lontana del loro stesso dolore; come nella sua attività intensa egli sarà vicino a saziar il proprio dolore, così a loro metterà vicina una vita, per la quale essi vedranno sciogliersi la trama di ciò che li preme, di ciò che via via li distrae; si troveranno a esser stabili senza la paura dell’instabilità, si vedranno ad un tratto strappate le pareti della piccola stanza della loro miseria, e il loro piccolo lume impallidire, nel punto che fuori l’oscurità non più sarà a premerli col suo terrore, ma egli sarà apparso a loro come l’aurora d’un nuovo giorno. Liberati da ciò ch’essi credono indispensabile, dalle cure, dal calcolo delle tante piccole cose in cui la loro vita sempre si dissolve e sempre gira, da tutta la miseria della loro meschinità, essi assaporeranno nell’impossibile, nell’insopportabile la gioia d’un presente più pieno. Vedranno che non c’è niente da temere, niente da cercare, niente da fuggire, che la fame non è fame, e il pane non è pane; poiché in altro modo avranno sentito la loro fame e altro pane sarà stato loro offerto. Non avranno più freddo e stanchezza, questi dolori e quei desideri, non saranno frustati dal bisogno ma sentiranno nel presente raccolta la loro vita poiché in un punto saranno fatti partecipi d’una vita più vasta e più profonda. –

Alla fragile imbarcazione in mezzo all’uragano, la grande nave è un porto sicuro. –


Le cornacchie nel loro volo pesante, ad ogni levar d’ala s’abbassano col corpo e non più il corpo leva le ali che le ali non abbassino il corpo, ma il falco nello slancio del suo volo, stabile il corpo, batte equamente le ali, e si leva sicuro verso l’alto.

Così l’uomo nella via della persuasione mantiene in ogni punto l’equilibrio della sua persona; egli non si dibatte, non ha incertezze, stanchezze, se non teme mai il dolore ma ne ha preso onestamente la persona. Egli lo vive in ogni punto. E come questo dolore accomuna tutte le cose, in lui vivono le cose non come correlativo di poche relazioni, ma con vastità e profondità di relazioni.

Dove per gli altri è oscurità per lui è luce, poiché il cerchio del suo orizzonte è più vasto – dove per gli altri è mistero e impotenza – egli ha la potenza e vede chiaro. Poiché egli ha l’onestà di sentirsi sempre insufficiente di fronte all’infinita potestas, egli si fa sempre più sufficiente alle cose, basta sempre più profondamente all’eterna deficienza delle cose. In lui quasi in un nucleo individuale si organizzano più vaste, più numerose le determinazioni. In ogni punto nell’attualità della sua affermazione c’è la vicinanza delle cose più lontane.9

Perciò nella sua presenza, nei suoi atti, nelle sue parole si rivela, si «enuclea», si fa vicina, concreta una vita che trascende la miopia degli uomini: perciò Cristo ha l’aureola, le pietre diventano pani, gli ammalati risanano, i vili si fanno martiri e gli uomini gridano al miracolo.

Perciò ogni sua parola è luminosa perché, con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano. Egli può dar le cose lontane nelle apparenze vicine così, che anche quello che di queste soltanto vive, vi senta un senso ch’egli ignorava,10 e muovere il cuore d’ognuno.

Beredt wird einer nicht
durch fremder Reden Macht,
ist nicht sein eigen Geist
zur Redlichkeit gebracht.11

Il giusto è buono a ogni cosa; chi a nessuna cosa sia ingiusto sa fare ogni cosa.12


2°. Il dolore è gioia.

Questo che egli sa, che è il sapore della sua vita più vasta, è il piacere attuale per lui in ogni presente. La sua maturità in ogni punto è tanto più saporita quanto più acerba è la forza del suo dolore. Solo, nel deserto egli vive una vertiginosa vastità e profondità di vita. Mentre la φιλοψυχία accelera il tempo ansiosa sempre del futuro e muta un presente vuoto col prossimo, la stabilità dell’individuo preoccupa infinito tempo nell’attualità e arresta il tempo. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di se stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo egli sarà persuaso ed avrà nella persuasione la pace. –

Δι' ἐνεργείας ἐς ἀργίαν.


Note

  1. Platone, Apologia – ma all’inverso: θάνατον γὰρ δεδιέναι οὐδὲν ἄλλο ἐστὶ ἣ σοφόν εἶναι δοκεῖν μὴ ὄντα.
  2. Gli Inglesi dicono: «I shall do». (io devo fare, è necessario rispetto a una ragione assoluta ch’io faccia) per dire «io farò»; «You will do ecc. « (tu vuoi fare ecc., hai il qualunque capriccio di fare) per dire «tu farai» ecc.
  3. V. «potenza», «atto», «attualità», Cap. 2°, pp. 44-47.
  4. A soddisfazione dei matematici: Si prenda il caso speciale dove gli asintoti fungono da coordinate: x y =

    Io dico: (la costante) rappresenta lo spazio costante che l’uomo occupa nel mondo mentre si continua, mentre vive cosa fra le cose.
    x rappresenta ciò che l’uomo chiede come giusto per sé, i diritti ch’egli crede d’avere.
    y = la sua attività, ciò che l’uomo dà, il dovere che compie. –
    yy¹ rappresenta la retta della giustizia. –
    – Ora voi potete discutere la formula:
    C sia il punto di contatto nell’infinito con yy¹;

    allora limc x = 0; limc y = ∞.

    Nel caso di limite, nel punto di contatto della giustizia con la vita, i bisogni sono zero; l’attività è infinita: attività razionale = l’infinita potestas: l’atto.

    Nel punto N: x = xn , y = yn;

    alla differenza limc x - xn = 0 - xn = -xn corrisponde

    limc yyn = ∞ - yn = ∞.

    Per l’arbitrio di quella qualunque cosa che l’uomo chiede di più che la giustizia non voglia (cioè: 0), il suo debito d’attività, il dovere ch’egli dovrebbe compiere e non compie, è infinito. – Nel caso di limite la costante è una linea infinita, non più una superficie (essendo un lato ridotto a zero, l’altro all’infinito): l’uomo giusto non vive più; non si continua ma si sazia nel presente. Ma il limite è in matematica il punto a cui ci s’avvicina infinitamente, e che non si tocca mai. Certo gli uomini hanno un criterio più comodo: misurano i lati della loro vita e dicono: «tanto per tanto – ecco la giustizia». Ma s’ingannano poiché di quanto chiedono non hanno niente e quello che danno è niente.

  5. È noto a tutti che la prima impressione d’una cosa è la più giusta, la fresca, l’introvabile poi quando con questa cosa si sia in consueta relazione. È che il primo giudizio era l’affermazione che non chiedeva. –
  6. «Bontà eventuale».
  7. Sta per un «è malcontento».
  8. Ἐδιζησάμεν ἐμεωυτόν (Eraclito).
    Δίζημαι = cerco una cosa che non conosco, cerco una cosa, e nello stesso tempo cerco di sapere che cos’è questa cosa (radice ζη- <ζητέω> reduplicata). Come uno che non sa che cosa sia una superficie chiusa da una linea curva – ma sa che non ha angoli e sa cosa sono angoli, che cerca d’averla ricercandola fra le altre figure, scartando tutte quelle che hanno angoli: cercare con dati negativi. Così è la ricerca della ragione, del valore che non sappiamo che cos’è, ma sappiamo che non deve esser in riguardo all’irrazionalità del bisogno.
  9. Parmenide, 90: λεῦσσε δ’ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεβαίως.
  10. Così Cristo parla denso e complesso ai discepoli e in parabole al popolo (v. Matteo, 12 credo).
    Così la dialettica socratica riempie di valore i valori comuni.
  11. Intraducibile: redlich = onesto, e «dicibile».
  12. Esser buono a una cosa vuol dir saperla fare.