La liberazione della donna/I/6
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6. La donna in faccia al diritto
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... La rivelazione di Dio è eterna ed universale avendola egli incarnata nella natura, per lo che, non nelle molteplici modalità religiose deve l’uomo cercare la ragione del suo diritto, ad uniformare i criterii d’ogni nazione, ed a gettare le solide basi di un diritto mondiale; sibbene nella facoltà insita all’essere umano, che prepotentemente gli indica il fine cui è votato, e di cui la facoltà stessa è mezzo e ragione; ed allora sí, che le nozioni del diritto e del dovere saranno piú lucide e salde, e non più eternamente oscillanti, ed esposte alle eventualità che ad ora ad ora minacciano, spostano e modificano le credenze.
Ma seguiamo lo svolgimento di queste nozioni nella coscienza umana; e vediamo, come dapprima vaghe e latenti, dovessero poscia avvertirsi e determinarsi.
Queste due nozioni non erano né necessarie, né possibili al primo uomo, il quale, solo in mezzo al creato, non sentivasi limitato in nessun modo, per cui non dovettero essere che in progresso vagamente sentite, poi formulate, quindi piú o meno imperfettamente applicate. Scaturite dapprima dai bisogni e dai rapporti che il solo spirito umano è in grado di constatare, in un colle leggi che li reggono, il filosofo trovò poscia la loro affermazione meditando sullo scopo della sua creazione e sui proprii destini; e come vide il soddisfacimento di quei bisogni in armonia con quello scopo e con quei destini, vide eziandio necessità di quel soddisfacimento a raggiungere il suo fine; e sorse in lui la coscienza del diritto, cioè, come dicemmo, la legittima pretesa d’ogni essere, allo sviluppo ed allo esercizio delle sue facoltà, epperò a tutti quei mezzi che eccitano, favoriscono e conseguono questo sviluppo e questo esercizio.
Riconosciuta questa legge, prima ed anzi tutto nell’essere umano, era impossibile ad ogni logica, non estenderla a tutta la specie; epperò ogni essere non può, né deve, riconoscere altra legittima limitazione al proprio diritto, che quella necessariamente stabilita dal diritto altrui, ed ecco la giustizia.
Chi infatti troverebbe a ridire di quell’uomo che, trovandosi solo in vasta regione, se l’appropriasse ed estendesse la proprietà sua illimitatamente, senza scrupolo? Colui non farebbe che usare del diritto di proprietà, che il supremo fattore gli conferiva sulle cose, diritto, d’altronde, ch’egli divide con altri esseri viventi. Ma se costui, estendendo la sua proprietà, trova segnati i confini d’un’altra, là egli trova eziandio il confine del suo diritto nel diritto del suo simile, ch’egli deve al par del suo proprio rispettare, siccome basato sulla stessa ragione...
... La insaziabile curiosità dello spirito superstite al decadimento della materia lo spinge fatalmente al progresso: essenzialmente socievole, l’uomo è chiamato all’amor de’ suoi simili, donde la solidarietà e l’associazione, che sono la moltiplicazione indefinita della sua potenza; dotato di favella, solo, fra tutta la sterminata serie d’esseri viventi, questo dono diviene l’affermazione di quelle vocazioni, per la pronta comunione delle idee che sí potentemente lo sviluppano, ed utile e piacer sommo gli procurano nella conversazione de’ suoi simili. Fornito del sentimento di giustizia e di commiserazione, sentendo bisogno supremo e tormentoso d’attività materiale e morale, egli vede nell’applicazione di queste facoltà tracciato lo scopo della sua vita. Egli deve dunque lavorare perché attivo, con lavoro progressivo perché istintivamente ansioso di progresso; lavorare di concerto co’ suoi simili perché socievole; farsi virtuoso perché intimamente giusto; e cosí sviluppando con assiduo esercizio le sue facoltà, aggiungersi forza e potenza, coll’occhio fisso alla perfettibilità materiale, morale, intellettiva; egli deve in una parola crear l’ordine in sé stesso, nell’umanità, nel globo, armonizzando i rapporti coi bisogni, donde il benessere e la felicità, ultima e necessaria scaturigine della morale e della sapienza.
Ora, la somma di potenza, che ciascun individuo porta a questo collettivo lavoro, è sí svariata ed indipendente da ogni forma esterna, che sfugge alla piú minuta, come alla piú lata classificazione. D’altronde non ci è possibile classificare logicamente la natura, dacché non ce ne sono note tutte le leggi; sicché facendolo, arrischieressimo forte di porre al posto della natura delle ottiche illusioni, delle erronee prevenzioni, o la deplorevole risultanza di pessimi sistemi.
Dalla manía delle classificazioni nacquero le piú strazianti ingiustizie che hanno desolato l’umana progenie, e gli errori piú cubitali della filosofia. Le classificazioni crearono i pregiudizii; i pregiudizii a loro volta generarono i Paria e gli Iloti; consigliarono lo sprezzo dello schiavo; suggerirono false ed inique prevenzioni sulle diverse razze colorate, che sgraziatamente perdurano presso molti che fanno anche professione d’intendersi di giustizia. Dalle classificazioni donde i pregiudizii, nacquero gli odii profondi, e le lunghe ire internazionali, quasi l’uomo che abita l’altra sponda di un fiume, o l’altro versante di una montagna, essenzialmente differisca dall’uomo che abita la prima sponda ed il primo versante. Ora queste classificazioni vogliono bandirsi, siccome funeste cause d’isolamento fra gli uomini, siccome tendenti a ledere il diritto primitivo di ciascun uomo al giudizio dei proprii mezzi ed alla libera loro applicazione; siccome prepotenza che impone leggi alla natura e la sforza e violenta, con danno dell’individuo e dell’umanità.
Infatti qual classificazione è egli possibile in faccia alla dimostrazione imperativa dei fatti?
V’hanno criterii i quali, fortissimi nella speculazione filosofica, sono affatto inetti in qualsiasi elemento di scienza esatta, e viceversa.
Un artista sublime non saprà fare la piú semplice aritmetica operazione; un tale è campione nella fisica e nell’astronomia che è affatto insuscettibile e profano alla filosofia; e sarà quell’altro un Socrate od un Platone, senza che gli sia però possibile confezionare due versi.
Né è piú facile, né piú possibile, classificare nelle loro morali idoneità i due sessi. Si disse l’uomo è forte, la donna è debole, ma vi hanno uomini debolissimi e donne fortissime; piú, si educa l’uomo all’attività fisica e morale, e la donna all’inerzia fisica ed alla passività morale.
Si disse, l’uomo soverchia la donna in intelligenza, e la donna supera l’uomo in sentimento. Sonvi però molti uomini che superano molte donne in sentimento e molte donne che superano molti uomini in intelligenza; piú, l’educazione che si sforza di favorire e di sviluppare la intelligenza nell’uomo, fa tutto il suo meglio per isfavorirla ed atrofizzarla nella donna.
Si disse, l’uomo è fatto per l’attività, la donna per la quiete; è una gratuita asserzione, è una prevenzione locale. Parlandosi della donna e della famiglia, dovete aver letto i costumi di pressoché tutte le nazioni barbariche, che gravano la donna di tutte le fatiche, e dove le è imposta la massima attività, mentre gli uomini passano oziando la vita; piú, anche fra voi vediamo i due sessi sobbarcarsi ad eguali fatiche nelle classi agricole e manufatturiere. E cosí via dicendo, quando vogliansi confondere le risultanze dell’applicazione dei nostri sistemi, colle leggi della natura che l’uomo non istudiò mai con ispirito vergine da criterii preconcetti, coll’animo emancipato dalla segreta ispirazione degli interessi; noi troveremo sempre le nostre classificazioni in faccia a sí sterminato numero d’eccezioni, da persuaderci essere quelle troppo poco attendibili.
Dalla impossibilità di classificare ne emerge l’incompetenza d’un arbitrato qualunque a determinare le funzioni dell’individuo in faccia al lavoro sociale; e da quella incompetenza ne emerge a sua volta il diritto spettante all’individuo solo di determinarsi ad un genere di lavoro, dietro le attitudini ch’egli sente prepotenti in sé stesso, donde la varietà delle vocazioni, e la libertà della scelta dei mezzi ad assecondarle.
Ora, una gran parte delle nullità morali, che ingombrano l’umana società, non possono ad altro accagionarsi che a questo incompetente arbitrato che si esercita dall’un individuo sull’altro, e da tutta la società su tutto un sesso.
Si vollero classificare le morali idoneità dei sessi, e si vollero assegnare a ciascuno d’essi funzioni proprie dietro un tipo ideale escogitato in anticipazione; ma queste diverse attribuzioni parte scaturirono dalla poesia e dalla immaginazione; porzione molta è artificiata dalla forza prepotente dell’educazione, che a tutto riesce sendo l’essere umano eminentemente educabile; pochissime fondamentate dall’osservazione. E tutto questo teorico e gratuito edificio si fece pratico, senza che uomo si curasse di rilevarne le falsità e di deplorarne le conseguenze, mentre nessun filosofo s’attentò mai, ch’io mi sappia, di trovar differenze di carattere e di idoneità fra il maschio e la femmina nelle altre specie d’animali, dal processo della riproduzione all’infuori, nel quale fatto solo formano serie distinta; né mai alcuno sognò di negare forza alla lionessa, o vietar la preda alla tigre, o di disconoscere nella volpe gli astuti accorgimenti, o di trovar l’aquila meno sublime dell’aquilotto.
È evidente che l’uomo, ignaro tuttavia di molte leggi naturali, e completamente al buio del concetto sintetico della creazione, non poteva derivare le sue classificazioni che dagli interessi suoi e dalle sue passioni. Egli dunque, con un comodissimo a priori, stabilí sé stesso centro e fine dell’universo, ed a sé convergendo gli esseri tutti e tutte le cose, ne statuí il valore, ne assegnò le funzioni, ne affermò l’importanza in base all’utile od al diletto che queste gli arrecavano.
La donna, che gli è cosí vicina, e nella quale si giace tanta parte della sua miseria e della sua felicità, dovea necessariamente esser la prima a subire le conseguenze di un cosí ingenuo egoismo.
Riconoscendo perciò l’uomo i vantaggi dell’iniziativa, volle vedere la donna, passiva piú assai che non l’abbia mai fatta la natura. Avido di dominio e di signoria, imaginò di trovare in lei, bella l’umiltà, e perfino la viltà. Avendo scoperta la superiorità che dà la coltura sull’ignoranza, trovò buona cosa serbare a sé il privilegio dell’intelligenza, e vide nell’ignoranza della donna un vezzo ed un’attrattiva. Amante egli dell’impero e del comando, si figurò che per la donna sia gloria l’ubbidire. Cupido di possesso, si aggiudicò la donna siccome proprietà; e si persuase dovere la buona moglie credersi seriamente cosa del marito; e cosí via di trotto procedendo, egli trovò d’aversi confezionato un tipo femminile di tutta sua convenienza, e su questo tipo elaborò le leggi, i costumi e l’educazione della donna; e questo è tutto il lavoro che la filosofia compí rispettivamente alla donna in sessanta secoli. Né potrebbe dirsi certamente che noi calunniamo l’uomo!
Chi non ha letto nell'Ecclesiaste il tipo ideale femminile che si era creato il piú savio degli uomini?
Chi non ricorda la condotta che S. Paolo comanda di tenere alla donna (vedi cap. II della prima epistola a Timoteo e cap. II della prima ai Corinti)?
Chi non sorride vedendo Rousseau sollecitarsi che le qualità, i vezzi, e fino le debolezze di Sofia calzino a cappello coi gusti e la natura d’Emilio?
E perfino fra i moderni filosofi, che pretendono alla fama di novatori, non vediamo noi lo spirito medesimo? Leggo in Auguste Comte che, il comando degrada radicalmente la donna; che una savia apprezziazione dell’ordine universale farà comprendere al sesso affettivo, quanto la sommissione importi alla dignità... Che il sacerdozio (dell’avvenire) farà sentire alla donna il merito della sommissione, sviluppando quest’ ammirabile massima d’Aristotile «la forza primaria della donna consiste nel superare la difficoltà dell’obbedire» e l’educazione l’avrà preparata a comprendere, che ogni dominio, lungi dallo elevarla realmente, la degrada necessariamente.
Leggo Proudhon, ed a traverso i suoi mille paradossi, ed alla sua non interrotta serie di contraddizioni, veggo affacciarsi tratto tratto questi concetti: affinché il tipo femminile conservi le sue grazie ed i suoi vezzi, deve la donna accettare la potestà maritale (sic!). L’eguaglianza di diritti la farebbe odiosa, e trascinerebbe con sé delle deplorevolissime conseguenze, e, fra le molte a mo’ d’esempio, la piccola bagatella della perdita del genere umano!!! (Lettrici mie, non ve ne impressionate troppo!)
Leggo Michelet ed a traverso torrenti di poesia e di sentimento, in un impeto d’amore per la donna egli, la vede fatta dall’uomo e per l’uomo. Dolente di vederla sofferente e malata (la donna di Michelet è sempre malata), egli vede la necessità d’isolarla, di custodirla, di medicarla. Bambina, non conoscerà che le sue poppattole; maritata, non vedrà che il marito ed i figli; vedova, gl’infermi e gli orfanelli. E di coltura? Non se ne parla. Il sapere la invecchia. E di lavoro? Nessuno. Si romperebbe tutta. D’altronde la manutenzione della cosa, tocca al proprietario della cosa. E di funzioni? Non ne è questione. La donna di Michelet, è una donna che adora suo marito, che è fatta da lui, che vive per lui, per lui solo, e che finisce poi probabilmente per morire di congestione al cuore in seguito ad una serie di emozioni tenere troppo frequenti.
Bisogna confessare che, se l’uomo è egoista, lo è poi anche senza nessuna velleità, e di tutto cuore! Non v’è altro commento possibile a siffatte teorie.
Ora, sia che si neghi alla donna ogni funzione, sia che le si assegni un lavoro, ella fu sempre fin qui in balía dei capricci d’ogni filosofo, il quale le dà, o le toglie, la eleva, o la abbassa, la invita o la respinge in base al tipo ideale che ciascun di loro se ne forma. Ma al dí che corre deve la filosofia aver capito, che la soluzione di un problema sociale non può essere nella testa d’un uomo, ma se ne sta latente nella natura, la quale non potrà mai rivelarsi fino a che sarà interrogata coll’animo preoccupato da pregiudizii o da interessi veri o supposti.
E dico veri o supposti, perché tutto ciò che è fuori dell’ordine e del giusto, se può per avventura favorire un piccolo e precario interesse, deve però alfine chiarirsi ineluttabilmente incompatibile ed ostile ai grandi e duraturi interessi dell’individuo e dell’umanità; per cui, se a mo’ d’esempio oggi trovava assai acconcio il forte il diritto di conquista, trovandosi domani in faccia un piú poderoso avversario, era pur costretto a confessare essere ingiusto e precario il diritto della forza.
Ma questi riflessi sendo stati fatti dall’uomo un po’ tardi, anzi da pochi uomini fatti anco al dí che corre, ne avvenne che le istituzioni di tutti i tempi si risentirono di quelle prevenzioni e pregiudizii a cui accennavamo; ed al tempo in cui viviamo è pur doloroso dovere confessare che ancora la forza è in onore, che diritti e doveri sono piú che parzialmente distribuiti, e che con una logica degna degl’interessi, piú assai che della ragione, si aggiunge debolezza al debole gravandolo di doveri, si aggiunge forza al forte circondandolo di diritti.
Laddove poi si consideri avere la legislazione come ogni altra istituzione ormeggiato lo sviluppo dei popoli ed i procedimenti delle civiltà, andranno necessariamente crescendo le meraviglie, trovandoci in grado e necessità di constatare la universale incoscienza della giustizia.
Ma poteva egli essere altrimenti, dacché la filosofia non cercò e non istabilí una base generale di diritto, che soggiogando gl’interessi, ed ispirandosi ai principii, s’imponesse prepotentemente alla ragione, e si erigesse a coscienza universale? Epperò i legislatori, privi di luce ferma e costante a dirigersi, dovettero meschinamente ispirarsi ad interessi puri e semplici di luogo e di tempo, imponendo cosí all’opera loro il marchio fatale della caducità.
Infatti veggiamo apparire evidente dalla storia della legislazione questa enorme lacuna ch’ella è la nessuna base del diritto, risultando per lo appunto le istituzioni le voci dei bisogni di un giorno e di un paese, anziché i logici corollarii di un concetto unico e fermo.
Ed invero, in faccia ad una base filosofica del diritto, che cosa avrebbero significato i diritti feudali?
Sopra di che avrebbe potuto giustificarsi la patria e la marital potestà dei Romani, per le quali la repubblica non riconosceva a cittadini che i capi di famiglia, non tutelando neppure la vita e la libertà delli altri membri?
E qual logica analogia troviamo fra la forma repubblicana del governo e la fama autocratica della famiglia romana?
Ed ai nostri tempi (parlo di paesi civilizzati e progressisti) che cosa significa, in faccia al principio filosofico del diritto, l’ostracismo degli ebrei?
Che cosa, le barriere elevate alla libera associazione dalla diversità di credenze?
La diseredazione del figlio che ha lasciato la religione paterna?
La frase comune a molti codici, tolleranza dei culti?
La schiavitù delle razze colorate?
La soppressione dell’intelligenza e dell’attività femminile?
L’individuo, vivendo nella famiglia, e nella società, porta alternativamente in quella le impressioni ricevute in questa, ed in questa i sentimenti e le idee in quella assorbite; ed è però sommamente necessario che l’organizzazione politica armonizzi coll’organizzazione della famiglia, e lo spirito stesso e l’eguale indirizzo all’una ed all’altra simultaneamente s’imprima.
Senza questa congiura, per dir cosí, di tutte le istituzioni contro i facili eccessi delle passioni, non potrà mai l’uomo informarsi ai precetti della giustizia, né mai potrà avvertirne la somma importanza. L’incoerenza conduce al gratuito, il gratuito all’arbitrio, l’arbitrio all’egoismo, l’egoismo all’ingiustizia.
Ma in appoggio di questo mio concetto mi cadono in acconcio, e vi spiegheranno meglio assai ch’io non sappia l’importanza di questa coerenza di principii, le riflessioni del gran Beccaria sullo spirito delle famiglie, nel suo libro Dei delitti e delle pene. Ecco le sue parole:
«Quante funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate anche dalle repubbliche piú libere, per aver considerato la società piuttosto come un’associazione di famiglie che come una unione d’uomini?
«Vi siano 10.000 uomini ossia 2.000 famiglie, ciascuna delle quali sia composta da cinque persone compresovi il capo che la rappresenta. Se l’associazione è di famiglia vi saranno 2.000 uomini ed 8.000 schiavi; se l’associazione è di uomini vi saranno 10.000 cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e 2.000 piccole monarchie; nel secondo lo spirito repubblicano, non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura ove sta cosí gran parte della felicità e della miseria degli uomini.
«Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, ossia dei capi di famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà poco a poco nella repubblica medesima, e i di lui effetti non saranno frenati che dagl’interessi opposti di ciascheduno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed eguaglianza...»
... Fin qui Beccaria, e noi facendo plauso alla sua equità aggiungiamo, che una legislazione, che non considera a cittadini tutti indipendentemente ed egualmente i membri della sua società, e non garantisce a ciascuno i mezzi di perfezionamento e la libera autonomia, perde il diritto al rispetto ed alla obbedienza, e dove punisce non esercita che una fredda violenza; poiché non l’uomo è fatto per la legge, ma la legge è fatta per l’uomo, e dove ella non raggiunge il suo bene ed il suo meglio non ha nessuna ragione d’esistere.
Che cos’è la paternità? In faccia alla natura è un semplice impulso, in faccia alla legge è una ancor piú semplice ipotesi, dovunque e sempre è ombra e mistero.
Da ciò ne risulta, che se la madre ha sempre diritto innegabile al rispetto ed all’amor della prole, alla quale la natura la indice con evidenza, il padre non partecipa a questi diritti, se non in quanto siasi egli stesso incaricato di provare al figlio la paternità sua, tutti verso di lui compiendo quei doveri di alimentazione e di educazione che la ragione gli suggerisce.
Tanto ci insegna semplicissima riflessione sulla logica dei fatti. Ma gli uomini sono eternamente inclini a costruire gli edificii loro sulle ipotesi, ed anche qui preferirono meglio fondar sull’ipotesi che sull’evidenza; ed innalzarono la patria potestà che, come piramide partita da larga base, col diritto di morte e di vendita sui figli, andiede in appresso assottigliandosi; ma ne rimane oggi stesso pur tanto da non lasciarci credere di troppo posteriori alla antica Roma.
La paternità legale è la prima ragione della schiavitú della donna. Infatti, perché fossero duraturi questi rapporti artificiati, era d’uopo dar qualche corpo alla ipotesi, qualche esattezza all’induzione. Da qui la reclusione della donna; e cessata questa nel modo assoluto colla civiltà dei tempi, perdura tuttavia nel suo spirito e nel suo scopo nelle mille limitazioni della sua libertà. Da qui il diritto di comando, di sorveglianza, il supremo arbitrio del marito; la signoria dell’uomo insomma, e la servitù della donna.
Sí, la madre dell’uomo non ha altro diritto che quello di soffrire per lui, di formarlo del suo sangue, di nutrirlo del suo latte, di sacrificarsi completamente, se vuole, ai suoi interessi e basta. La legge non riconosce nessuna maternità; ed in mancanza del padre non ha la madre neppur diritto di preferenza alla tutela della prole...
... Apro infatti il Codice Albertino e trovo che il § 211 dichiara essere i figli sotto la potestà del padre fino alla loro emancipazione, o se egli sia morto non emancipato, son essi sotto la potestà dell’avo paterno.
Col § 212 vieta al figlio di allontanarsi dalla casa paterna prima dei 25 anni compiti, senza il permesso del padre.
Il § 215 dà al padre il diritto di far tenere in arresto il figlio non ancora quadrilustre, sulla sua semplice domanda.
I §§ 216 e 217 permettono al padre di chiedere la detenzione del figlio per sei mesi, purché sia quadrilustre e fino a 25 anni inclusivi. Nell’uno e nell’altro caso non gli è imposta nessuna formalità o scrittura giudiziaria. L’ordine d’arresto sarà spiccato in iscritto senza essere neppur motivato.
Ecco una potestà discretamente romana, e nella quale si dispone in tutti i sensi di una creatura umana senza neppure supporle una madre, la quale non ha in tutto ciò nemmeno un voto consultivo.
Ma la madre non è ella almeno una limitazione del patrio diritto in forza del diritto incontestabile e solenne che le dà la natura, che affida la prole alle sue cure, e non a quelle del padre?
Signore no. La madre legittima non esiste; e se qualche cosa può limitare la patria potestà sul figlio, non sarà mai la madre, bensí la proprietà; e non sarà questo il solo caso in cui vedremo la legge fare assai piú stima della proprietà che della persona, principalmente se questa persona è una donna; ed eccone la prova nel § 220: «Se il figlio ha beni proprii ed esercita una professione, non potrà aver luogo il di lui arresto se non mediante istanza nella forma prescritta nell’articolo 216, quand’anco il figlio non fosse giunto all’età d’anni 16.»
Ma la madre non ha essa mai in nessun caso dei diritti sulla prole?...
... Se non che il disdegno, che i codici mostrano per la donna, non è che uno dei corollarii di quel principio cosí lucidamente impugnato dal Beccaria, che cioè, quel legislatore che considera la società come una associazione di famiglie, non deve necessariamente riconoscere a membri attivi che i capi di esse e lasciar gli altri tutti nell’ombra ed in balía del capo, sopprimendo cosí ogni diritto ingenito, sul quale si eleva prepotente il diritto parziale...
... Riapro il Codice Sardo ove tratta dei rispettivi diritti e doveri dei coniugi, e trovo al § 125: «I coniugi hanno il dovere di reciproca fedeltà, soccorso ed assistenza.»
Senz’altro va ad essere un paradiso terrestre! Si tratta di una perfetta eguaglianza! Di una completa fraternità! È il matrimonio tipico! È l’ideale del coniugio! È l’androgino umanitario che fonde due esseri in una sola unità! Adagio, vediamo come s’intendono di reciprocanza e mutualità i nostri legislatori.
§ 126: «Il marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito.» Ecco i primi albori della reciprocanza legale; discutiamoli un momento.
Che cosa sia la protezione che il marito deve alla moglie; qual logica analogia ella abbia coi costumi d’una civil società; qual fatica costi al marito questo fantasma di dovere, non si saprebbe definir veramente, circondati come siamo da leggi ed agenti d’ordine pubblico. Egli lavora siccome un re, i cui ministri fanno tutto, ed al quale pur tuttavia i beati popoli governati debbono innalzare inni di riconoscenza e d’ammirazione. Cosí la moglie vive sicura all’ombra della protezione maritale esattamente come viveva sicura sotto l’egida dei provvedimenti di pubblica sicurezza, il giorno prima d’aver acquistato il protettore.
Ma niuno forse ardirà toccare alla moglie per timor del marito?
Vi domando scusa. È piú che dimostrato, che tutti i delitti sono possibili.
Ma nel caso che la moglie venga insultata, sarà per lo meno dal marito vendicata?
Neppure. La giustizia personale è vietata; essa è fatta esclusivamente delle leggi. Il legislatore, che prescindesse da questo principio fondamentale d’ordine pubblico, esporrebbe la sua società a terribili disordini e distruggerebbe la sicurezza personale.
Che cosa intende adunque la legge nello imporre al marito questa protezione?
Intende di gravare il marito di un dovere, ma di un dovere da marito; tuttoché illusorio, però le serve per giustificare tutti i diritti di cui vuole circondarlo. Dichiarato protettore, epperò responsabile, ogni misura, od intorno o sopra il suo protetto, divien logica ed equa, e la legge ha ribadito cosí l’arbitrio maritale.
Quella legge stessa però cosí vaga, cosí laconica, cosí speciosa sui doveri del marito, è quella stessa che sa molto bene determinarsi, amplificarsi e dimostrarsi nei doveri della moglie; e per primo le impone obbedienza, senza assegnare a questa obbedienza limite o confine, cosicché, in faccia a tanta completa passività imposta alla metà della popolazione, io non so piú che cosa si voglia intendere il legislatore, dichiarando irrito e nullo ogni contratto, che stipuli l’alienazione personale.
Ed invero, un rapido sguardo ai doveri della moglie ed ai diritti del marito, basterà per toglierci alla taccia d’esagerazione. Veniamo perciò ai logici corollarii della illimitata obbedienza.
§ 127: La moglie deve concorrere al mantenimento del marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti.
§ 129: La moglie non può stare in giudizio senza il consenso del marito. Se questi non voglia o non possa prestarlo, il tribunale può autorizzarla.
Notisi, che v’ha però un caso, nel quale può stare in giudizio senza il consenso del marito; e questo caso eccezionale, benché assai logico e giusto, non è fatto per portar luce sull’astruso problema della protezione maritale: quando cioè è inseguita dalla legge per delitti o contravvenzioni.
§ 130: La moglie non può donare, né alienare, né ipotecare, né acquistare a titolo sia gratuito sia oneroso, né obbligarsi per nessuno degli atti eccedenti la semplice amministrazione, senza che il marito, personalmente od in iscritto, presti a ciascun atto il suo consenso.
Dopo tutto ciò non sarà soverchio notificare alle mie giovinette lettrici, che la legge ammette anche nella donna il diritto di proprietà, tutto che, questi paragrafi non siano fatti per farlo credere.
Nel § 137, la legge si mette una mano al cuore, e prova un palpito d’incertezza e d’apprensione pel marito. E lo vede circondato da pericoli e soperchierie, e si trova in dovere di proteggere e tutelare il forte contro i verosimili eccessi del debole; epperò pone per lui le mani avanti e decreta in anticipazione che «l’autorizzazione od il consenso in genere, non sono validi, ancorché stipulati nel contratto di matrimonio».
Coll’articolo 139 poi, la legge ridona alla donna il diritto pratico di proprietà, riconosce per un’ora di tempo la sua autonomia, permettendole di fare il suo testamento, senza autorizzazione o consenso del marito. Confessiamo che la legge è generosa, peccato che sia un po’ tardi!
Che il vedovo marito si crucci o meno, per il decesso della sua consorte, che piú o meno presto la scordi, poco importa alla legge; ma ciò che le sta a cuore sommamente si è, che la vedova non troppo facilmente si consoli del perduto protettore, ed a ciò efficacemente provvede nel § 145, dov’è disposto che «la vedova, contraendo nuove nozze, prima che siano trascorsi dieci mesi dopo la morte del marito, incorre nella pena della perdita di tutti i lucri nuziali stabiliti dalla legge, o stipulati col primo marito, non che di tutte le liberalità, che a lei fossero pervenute dal medesimo».
Notisi che quel vocabolo pena, di cui si serve la legge, supponendo una colpa, dichiara implicitamente criminose nella donna le seconde nozze; mentre il vedovo marito, erede della sposa defunta, è abilitato a scordarla innanzi sera.
Ecco come s’intende la legge alla reciprocanza ed alla mutualità; ed ecco come ella è coerente al suo § 125.
Ovunque vedesi la personalità della donna maritata affatto eclissata, ella non è che l’ombra del marito che la invalida, che la assorbe, che la annichila e dal quale non è emancipata neppur per la sua morte, non che pel caso di separazione di corpo e d’abitazione, nel qual caso, avendo ella la semplice amministrazione de’ suoi beni, non può tuttavia senza il di lui consenso ed autorizzazione né alienare, né obbligare i suoi beni immobili, né stare in giudizio per azioni riflettenti li stessi suoi beni.
Quando si rifletta che, cessata colla legale separazione la comunanza degli interessi fra i coniugi, possono questi diritti del marito attraversare ad ogni tratto gl’interessi della moglie, subordinati quali sono ad ogni suo capriccio, ben si vedrà quanto la legge si solleciti del benessere della donna.
E, separata e non separata, non può la moglie, senza consenso ed autorizzazione del marito, accettare incarico di esecutrice testamentaria; non può accettare nessun mandato; non può accettare nessuna donazione; non può validamente accettare nessuna eredità; non può assumersi fideiussione; in una parola, civilmente non esiste. Dove il marito si rifiuti all’assenso, il tribunale di prefettura assume i suoi diritti, e conferma il rifiuto di lui, oppur prescinde secondo che gli pare; e questa specie di difesa, che la donna ripete dalla legge che controlla il rifiuto del marito, non è che un’incoerenza di piú in faccia al suo spirito, una oscurità di piú ch’ella apporta a quell’oscuro busillis che è la protezione maritale, un fatto di piú che prova alla donna sposa, ch’ella è sempre minore od interdetta.
Se non che, potrebbero per avventura, questi esorbitanti diritti maritali, se non certo giustificarsi, almeno spiegarsi sopra ciò, che, dovendo il consorte nutrirla, in caso di dissipazione ella cadrebbe a tutto suo carico. Ma, signori no, anche qui la legge ha provvisto per non aver ragione, col sopraccitato § 128, nel quale è disposto che «la moglie debba alimentare il marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti», per cui, soggiacendo ambedue allo stesso peso, qui, come dovunque, la legge si sollecita affinché non vi soccomba che il debole. Il marito perciò potrà sciupare i beni suoi e quelli della consorte, ch’egli solo amministra senza controllo, eppoi dovrà esserne alimentato.
Cosicché riassumendomi, abbia il marito torto o ragione, sia egli o non sia in buon accordo colla moglie, sia egli onesto od immorale, sia egli accorto e prudente, oppure stupido od incapace, la legge ha già deciso in anticipazione, che il matrimonio deve produrre nella donna l’evirazione delle sue facoltà; per cui deve divenire essenzialmente incapace, mentre nel marito deve aggiungere onestà ed intelletto, senza eccezioni e senza limitazioni.
Ma se la legge fatta dall’uomo, è necessariamente altresí fatta per l’uomo, essendogli pressoché impossibile astrarre dal personale interesse; per lo meno, essendo la morale una, ed inalterabile, saranno in caso di contravvenzione strettamente pareggiati nella penalità?
Ciò non potrebbe essere, senza che la legge cadesse in una delle più grosse incoerenze. Distribuiti parzialmente i doveri, ne risulta una disparità di situazione, donde relativa dev’essere la colpa, epperò relativo il castigo.
Il § 486 del Codice Penale, decreta che «la moglie, convinta d’adulterio, sarà punita col carcere, non minore di tre mesi, estensibile a due anni»; e che «il marito convinto di concubinato, sarà punito col carcere da tre mesi a due anni».
Per quanto giusta vi sembri questa disposizione non v’andate a credere, che stabilisca almeno in un punto un po’ d’eguaglianza. La legge ha trovato modo di sciogliere il marito da ogni pericolo, e togliere alla moglie ogni diritto di querela coi §§ 482 e 483, dichiarando che, la moglie può essere adultera dappertutto, mentre il marito non lo è, per lei, che quando si abbia tenuto la concubina sotto il tetto coniugale.
Ma forse che la legge ha cosí disposto nella impossibilità di constatare piú chiaramente il concubinaggio per parte del marito? Domando scusa.
Quando la legge ammette la sorpresa in flagrante, dovunque, contro la moglie, non v’ha equità che possa vietare sul conto del marito la stessa ipotesi. Più, se contro la moglie, la legge ammette prove risultanti da lettere o carte dal complice scritte, non si vede equa ragione, per la quale le prove reputate legali contro la donna, non si reputino egualmente legali contro il marito.
La legge considera ella nell’adulterio l’offesa al diritto coniugale? Or bene, questa davanti alla natura, davanti all’equità, davanti al suo medesimo § 125 è la stessa in ambo i coniugi. - O considera dessa le conseguenze? Allora l’elemento eterogeneo che l’adulterio della donna arrischia d’introdurre nella famiglia del marito, è quello stesso, che il marito porta in un’altra famiglia; con quella maggior reità, che porta con sé davanti ad ogni sano criterio e davanti allo stesso Codice Penale, la provocazione e l’iniziativa. Piú, il marito amministrando solo, le sostanze sue e della moglie, piú funesti sotto ogni aspetto riescir debbono alla famiglia i suoi disordini. Egli può detrarre il patrimonio dei figli, egli può spogliare la moglie, per arricchire l’amica.
Finalmente, giudicate da ciò, se il codice divide il pregiudizio degli onesti che la morale sia una, e quanto si solleciti d’essere seco stesso coerente ricordandovi dell’edificante § 125, al quale or ora accennavo: «I coniugi hanno dovere di reciproca fedeltà.»
Ma dandosi il caso che un uomo, nel quale il sentimento d’equità predomini lo innato egoismo, e porti alla sua sposa riverenza, siccome ad essere umano, ed in lei però considerando l’ingenito principio del diritto, non dipende egli dalla sua ragione, dal suo cuore, dalla sua volontà il riabilitarla, deponendo spontaneo i non equi diritti?
Rispondo. Sapete voi come, i legislatori della Carolina del Sud, impediscono gli assembramenti delli schiavi neri, la loro istruzione e la loro privata industria, che padroni coscienziosi potrebbero favorire con animo di avviarli all’emancipazione, il qual risultato sembra a quei signori un notevole inconveniente? Puniscono insieme il padrone e lo schiavo.
Con poche varianti il nostro codice, prevedendo questo caso appunto, che il marito possa voler riabilitare la sua compagna, dichiara anticipatamente nel § 1.509, che gli sposi, nel loro contratto, non possono in alcun modo derogare ai diritti risultanti sopra la moglie dall’autorità maritale, ecc., e, nel § 1.511, avverte che è egualmente vietato agli sposi di stipulare in modo generico, che il loro matrimonio verrà regolato da alcune delle leggi, statuti, consuetudini che non siano attualmente in vigore in questi Stati, e ciò tutto, sotto la responsabilità del notaio, che incorrerà in una pena od anche nella deposizione della carica.
Si può contrarre matrimonio sotto diverse forme di regime, ben inteso, che queste modificazioni non riguardano che la proprietà, restando in tutto e sempre la persona della moglie completamente alienata.
E per primo, v’ha il regime della comunione dei beni, nel quale s’intende coniugato chiunque non abbia fatto convenzioni speciali; v’ha il regime dotale.
Nel primo l’amministrazione dei beni comuni è devoluta al marito solo; i quali beni si compongono di tutti i mobili ed immobili, frutti ed interessi d’ogni natura, acquisiti anche dopo il matrimonio.
Oltre il diritto di amministrare, egli solo può stare in giudizio per azioni riflettenti i beni della comunione.
Egli può inoltre vendere, alienare, ipotecare questi beni senza concorso della moglie, non essendo richiesto il suo esplicito consenso, per la legale validità d’ognuno di questi atti.
Ora, laddove si consideri che se abbia la donna posto dei beni in comunione, o col proprio censo, o col proprio personale lavoro, o col lento e penoso risparmio, deve pur sempre stendere al marito la mano per averne in tutto o in parte ciò che vuole ogni equità le sia dovuto, fortunata ancora se una cattiva amministrazione del marito, od i debiti da lui incorsi, od i suoi vizii e disordini non l’hanno spogliata di tutto, vedrassi chiaramente quanto un simile regime sconvenga alla donna.
Nel popolo, i cui matrimonii si fanno senza contratto generalmente, non è raro vedere un marito beone, brutale, o giuocatore, sciupare in assidue gozzoviglie il piú che modesto mobiliare raccolto della misera consorte, colle lunghe notti vegliate nel lavoro, o con indicibili economie, che spesso le costarono la salute.
Bisogna perciò persuadere le donne del popolo a fare un contratto nuziale, ed a voi tocca, signore mie, ad accorrere in soccorso della loro improvvida ignoranza, in nome di quel vincolo solidale che unir deve la donna di tutti i ranghi sociali, poiché tutte sono egualmente oppresse dalle istituzioni; e passiamo ora a vedere come la legge tratta la donna nel contratto.
Un secondo regime matrimoniale è il regime dotale. I beni dotali debbono esplicitamente dichiararsi tali; tutti gli altri sono detti parafernali o estradotali.
I beni dotali sono inalienabili in regola generale. Il marito solo li amministra; i frutti sono destinati a concorrere al peso delle spese domestiche.
La moglie può ricevere annualmente sopra sua semplice quietanza una parte delle rendite di essa dote, dietro esplicita convenzione nel contratto di nozze.
Un terzo regime è la separazione dei beni. In questo caso la moglie ha il dominio non solo, ma anche l’amministrazione de’ suoi beni parafernali, uniformandosi, in quanto all’esercizio dei suoi diritti, alle restrizioni citate piú sopra, che la riducono all’impotenza d’ogni atto legale senza consenso esplicitamente prestato dal marito, od in caso di suo rifiuto, dal tribunale.
Come ognun vede, la donna, in qualunque regime coniugale, è schiava o minore.
Per avere un diritto materno, ella non dovrebbe esser madre che di prole illegale, e per avere il reale possesso di sé stessa e delle cose sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo del matrimonio; e cosí facendo ella non farebbe che ridurre a pratica le immorali lezioni, che le dà il codice con tanta eloquenza; donde poi la corruttela massima dei costumi; la origine incerta delle famiglie; la moltiplicazione allo infinito degli orfani e degli esposti, non potendo la donna, priva del diritto industriale, bastare all’alimentazione di numerosa prole; e ci darebbe così delle generazioni degenerate dal punto di vista fisico, depravate, dal punto di vista morale, miserabili, dal punto di vista economico, e dal punto di veduta politico, terribile ed eterna minaccia all’organismo sociale...
...§ 185: Le indagini sulla paternità non sono ammesse - § 186: Le indagini sulla maternità sono ammesse.
Questi due paragrafi fanno sorgere spontanea piú d’una riflessione...
... Procediamo ora ad un rapido sguardo sulle condizioni della donna maggiore, vedova o nubile ch’ella sia.
Libera dai pesi della famiglia, non vincolata ad ogni ora e momento ai più minuti capricci d’un consorte, vivendo o della propria industria, o del proprio censo, non v’ha ragione nessuna che la debba, in faccia alla legge, inferiorizzare nei diritti competenti ad ogni cittadino.
Eppure non è cosí. La legge assume sulla donna per conto suo una seconda edizione della patria potestà, e ne limita ad ogni tratto l’autonomia ed i diritti, con un’aria di sollecitudine che tutta rivela la sua profonda convinzione dell’incapacità femminile. Ed a ciò non si accontenta, ma con patente ingiustizia si dà premura eziandio di diminuire per lei anche quella porzione di beni, che l’ordine della natura le assegna, e vo’ dire delle disposizioni della legge nelle successioni ab intestato.
Il Codice Albertino dedica un apposito capitolo alla consacrazione di questa flagrante ingiustizia, fondata sul vieto diritto feudale, il quale avea saputo imaginare, come ognun sa, a maggior bene e gloria delle famiglie, l’oppressione di tutti i suoi membri, quale forzatamente coniugato, quale violentemente monacato, tutti, meno uno, snaturatamente spogliati.
Ora, nel secolo decimonono, il Codice Albertino conserva fresche fresche le sue velleità feudali, e fa ancor dell’amore col passato trapassato.
In grazia che l’umanità ha un secolo di più, si rassegna ad emancipare tutti i suoi membri maschi, ché, in quanto ai membri femmine, non c’è mai premura; ed egli trova d’altronde, che il diritto scritto fa molto bene d’emanciparsi un po’ dal diritto naturale, troppo piú democratico che non comportino certi interessi; per cui: «Trattandosi di successione paterna, o di altro ascendente paterno maschio, la porzione di successione che spetterebbe alla femmina, o suoi discendenti, eredi o non della medesima, sarà devoluta, a titolo di subingresso, e secondo le regole di successione, ai suoi fratelli germani, o loro discendenti maschi da maschi, ove esistano; e in difetto di fratelli germani o loro discendenti maschi, ai fratelli consanguinei e loro discendenti maschi da maschi come sopra.»
Il § 944 decreta la stessa disposizione riguardo alla successione d’un fratello germano o consanguineo, se la donna trovasi qui pure in concorrenza con maschi, o con loro discendenti maschi da maschi, come sopra.
Il § 944 conferma la stessa disposizione riguardo alla successione materna, esclusa solo la concorrenza dei fratelli consanguinei.
La donna sorella, è l’elemento sul quale fa, assai generalmente, le sue prime armi la petulanza virile; e queste disposizioni sembrano fatte per apporre la legale ratifica a questo comunissimo fatto; ma, cessato il feudalismo, gli uomini della legge sentono benissimo di non potere in alcun modo, non che giustificare, neppure spiegare, non fosse altro, con ragioni di coerenza siffatta ingiustizia. D’altronde la dottrina del diritto è oggidí abbastanza sentita dalla coscienza delle masse, perché si possa piú oltre procedere in un ordine di cose ormai divenuto impossibile. Né ci riconosciamo noi stessi il diritto di piú oltre insistere su questo proposito, dacché siamo informati, che la commissione incaricata di rivedere i codici dal Parlamento nazionale, ha già compreso questo articolo fra quelli, ch’esser debbono oggetto di riforma...
... Esclusa, in regola generale, la donna dalla tutela ed anzi tutelata eternamente ella stessa, non deve meravigliare il vederla esclusa dal consiglio di famiglia, per cui, anche davanti a questo tribunale intimo, davanti al quale si agitano gl’interessi più cari al suo cuore, e dove la voce di una madre, di un’ava, di una sposa e di una sorella sembra reclamata dalla natura, trovasi la donna annullata dalla legge.
Non dite piú, che la donna è fatta per la famiglia; che nella famiglia è il suo regno ed il suo impero! Le son queste poetiche iperboli e vacue declamazioni, come mille altre di simil genere! Ella esiste nella famiglia, nella città e dovunque in faccia ai pesi ed ai doveri; da questi all’infuori ella non esiste in nessun luogo.