Le novelle della nonna/La fidanzata dello scheletro
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- La fidanzata dello scheletro
Maso aveva mantenuto la promessa, e la mattina del lunedì aveva chiesto in moglie Vezzosa per Cecco. - Lo sapete che io non vi posso dar nulla di dote? - disse il padre della ragazza al capoccia dei Marcucci. - Lo so, - rispose il contadino a denti stretti, - e in casa non ce la volevamo una donna che non portasse nulla; ma Cecco s’è piccato e c’è convenuto di cedere. - Dunque la mia figliuola ce la prendete per forza? - Non dico questo, - rispose Maso, - ma se avesse avuto qualche cosa, sarebbe stato meglio; tutte le nostre donne hanno portato un po’ di dote, e così si è potuto tirar avanti. Ma ora sulla dote ci abbiamo fatto un pianto e un lamento, e Vezzosa sposerà Cecco senza nulla. Interrogate la vostra figliuola, e, se dice di sì, a Pasqua si faranno le nozze. - Domani vi darò una risposta, - disse Momo. I due contadini si separarono; Momo salì dalla figliuola, che era sempre a letto. Senza tanti preamboli le disse che Cecco la voleva per moglie. - Ma dite davvero, babbo? - esclamò la ragazza fissandolo. - Come se su certe cose si potesse scherzare! Se vuoi sincerarti meglio, vai a parlare con la Regina e lei ti dirà come sta la faccenda. - Dunque Maso mi ha chiesta davvero per Cecco? Sono tanto felice che mi pare impossibile. - Un giorno di felicità vien per tutti; ne hai passate tante, povera figliuola! - disse il contadino. E, abbassando il capo senza aggiungere altro, andò al suo lavoro, ripensando alla bestialità fatta col dare una matrigna alle figliuole. La Regina confermò il fatto, piangendo dalla felicità e raccomandò a Vezzosa di essere per Cecco buona e affettuosa compagna. - Almeno quando non ci sarò più io per volergli bene, ci sarai tu, ed egli potrà consolarsi con te della mia mancanza, - diceva la vecchia. La domenica, Vezzosa, che non era più malata, ma bianca e rossa come un fiore, fu invitata a desinare a casa Marcucci, e le dettero a tavola il posto accanto a Cecco, che doveva occupare in seguito, quando sarebbe stata la moglie di lui . Maso aveva invitato anche il resto della famiglia di Vezzosa, ma la matrigna, che era in furore per non averla potuta accasare a modo suo, non volle accettare, e così convenne anche a Momo di stare a casa sua. Non fu un desinare, ma un pranzo in tutta regola, quello che i Marcucci offrirono a Vezzosa. Cappone lesso, un buon fritto, tordi arrosto, ammazzati da Cecco, cenci dolci e vin buono. E di questo pranzo non godé soltanto Vezzosa, ma anche il pievano e due amici di Cecco, che erano stati soldati con lui e si erano recati da Bibbiena al podere di Farneta, dietro invito dello sposo. Vezzosa non s’era messa in fronzoli; aveva la sua sottana di flanella, il giacchetto eguale e un grembiule di seta. Di gioie nulla, altro che i piccoli pendenti d’oro, che Cecco le fece togliere per ornarla delle buccole con le perle, regalo compratole a Firenze, dove aveva fatto una gita il venerdì col pretesto di vendere della canapa. Naturalmente quella domenica fu bevuto più del consueto, e il desinare terminò quasi a notte. Mentre gli uomini fumavano a tavola, Vezzosa si rimboccò le maniche del vestito, si mise un grembiale da cucina, e aiutò le altre donne a sparecchiare e a rigovernare. Cecco, non le toglieva gli occhi da dosso, badava a dire alla mamma sua: - L’ha già preso il suo posto in casa, e vedrete come lo saprà tenere! Come è graziosa anche nel far le faccende; par fatta di un’altra pasta di noi, zotici villani! Ed era vero. Vezzosa non si abbassava nel prestare umili servigi. Aveva un certo fare che nobilitava ogni opera delle mani, e una destrezza che già le future cognate le invidiavano. Quando la cucina fu tutta in ordine, ella andò a sedersi accanto a Regina, e le disse sorridendole: - Mamma, aspettiamo la novella! La vecchia la guardò con compiacenza e prese a dire:
- C’era una volta a Bibbiena una ragazza per nome Amabile, che era reputata in paese la bella delle belle. Il padre di lei faceva il tessitore di panni, dunque Amabile non era punto, ma punto ricca. Però le piaceva di comparire, e avrebbe fatto a meno di desinare pur di mettersi un fronzolo nuovo. Dovete sapere che da anni e anni a Bibbiena c’è la costumanza di far baldoria l’ultimo giorno di carnevale. In quel dì una comitiva di Fondaccini, con nastri celesti e merli, vivi o morti, legati per le zampe al cappello, gira di giorno la città suonando il trescone sul violino o sull’organetto. Ogni tanto questa comitiva dei Fondaccini si ferma davanti alla casa di qualche persona facoltosa, acclama il proprietario che dispensa denari e rinfreschi. Nello stesso tempo un’altra comitiva, detta dei Piazzolini, percorre altre strade, e a una cert’ora si ferma in Piazza Grande. Costì uomini e donne si mettono in giro alla fonte e cantano la canzone del Pomo Bello. Appena suona la campana della torre, tutta questa gente va in Piazzolina, dove i Fondaccini hanno acceso il Pomo Bello, che è un rogo formato di fascine di ginepro. Mentre la fiamma avvolge il rogo, anche i Fondaccini cantano la canzone del Pomo Bello, suonano il trescone, e le ragazze e i giovinotti ballano a più non posso. Ora avvenne che Amabile, la bella fra le belle di Bibbiena, si trovasse sulla Piazzolina quando fu incendiato il Pomo Bello. Ella era accompagnata dal padre, che, essendo uomo faceto, cantava a squarciagola: e le ronzava intorno Bindo, un altro tessitore, che era tanto innamorato di lei che pareva lo avesse stregato. Amabile, che era vana e ambiziosa, lo teneva a bada, ma non gli dava troppe speranze, perché il giovanotto non aveva terre al sole. Quell’ultima sera di carnevale, dunque, era mescolato alla folla un giovine signore di casa Dovizî, venuto da qualche giorno da Pisa, dove compieva gli studî. Costui appena vide Amabile se ne innamorò a tal segno che non si rammentò neppure che la ragazza era di bassa condizione, e lui di famiglia nobile. Voleva lasciare gli studî e non moversi più da Bibbiena, e dopo aver ballato con lei e averle dette tante dolci parole, consumò la strada davanti la casa di Amabile cantando le ultime strofe della canzone del Pomo Bello, che dicono:
La Brunettina mia,
Coll’acqua della fonte,
La si bagna la fronte,
Il viso e il petto.
Un bianco guarnellino,
Ell’ha con che si veste,
E pel dí delle feste,
Quello adopra.
La voce del giovane si faceva specialmente forte per cantare gli ultimi quattro versi, che sono questi:
S’io fossi in campo acciso,
Fra suoni e canti,
Io mi vedrei davanti,
Il suo bel viso.
Amabile, cui non era sfuggita la cortesia del giovine signore, capì che era lui che cantava, e disse fra sé: - Bindo non mi avrà certo; di qui a poco, sarò la moglie del bel cavaliere. Il dì appresso ella stava filando sull’uscio di casa, quando Desiderio Dovizî, passando di là, la salutò cortesemente. Ella rispose al saluto, e con belle maniere lo invitò a fermarsi per scambiare alcune parole. Desiderio accondiscese, e da quel giorno non cessò di passare dalla casa di Amabile, finché le due chiacchiere diventarono lunghi discorsi. A farla breve, egli, che era sempre più consumato dalla fiamma d’amore, le promise di sposarla appena terminati gli studî. Amabile era al colmo della felicità, perché aveva sempre bramato di crescere di grado e di vestire abiti di drappo, come aveva veduto portare alle signore del castello di Bibbiena. Ma intanto che i due giovani parlavano del loro avvenire, il fratello maggiore di Desiderio, cui non era sfuggita la passione del giovane per la bella fra le belle, gli ordinò di tornarsene a Pisa agli studî. Desiderio, prima di partire, pose in dito ad Amabile un ricco anello, e si fece promettere di restargli fedele. In capo a tre mesi egli sarebbe tornato e allora avrebbero pensato a celebrare le nozze. Amabile pianse in sulle prime, ma il timore di guastarsi i begli occhi, che tutti decantavano, la fece smettere, e, ripreso il fuso, tornò sulla porta a cantare per svagarsi. I giovinotti, che si erano allontanati per lasciare il campo libero a messer Desiderio, appena lo videro partire ricominciarono a ronzare intorno ad Amabile, la quale li trattava gentilmente, e alle loro parole melate rispondeva senza scoraggiarli, come sogliono far le ragazze che desiderano di sentirsi sempre adulare. Intanto messer Desiderio non s’era fatto vivo, e Amabile si cominciava ad annoiare di doverlo attendere tanto tempo, Un giorno ella era andata a merenda a Fonte Chiara da una sua comare, e verso sera se ne tornava a Bibbiena, quando le si accostò un cavaliere montato sopra un bellissimo cavallo morello: - Che cosa desiderate, signor cavaliere? - domandò Amabile alzando su di lui i bellissimi occhi. - Bella fra le belle, vorrei offrirti questa rosa, meno fresca delle tue labbra, - rispose il signore. Amabile fece una risata. - Voi non sapete certo che io sono promessa sposa, e che non posso accettare neppure un fiore da altri che dal mio sposo. Il cavaliere non rispose, ma balzato di sella infilò il braccio nella briglia e si mise a camminare accanto ad Amabile, sussurrandole nell’orecchio paroline dolci. Fra le altre cose egli le disse: - Se la bella fra le belle non vuole accettare una rosa, posso offrirle un bel fiore d’argento, poiché mio padre mi ha lasciato tanti fiorini d’oro da caricare tre carri. - Anche il mio sposo è ricco e non mi ricuserebbe nulla, - rispose Amabile. Quand’ebbero fatto un pezzo di strada il cavaliere disse: - Oltre l’eredità di mio padre, ho anche i beni che mi ha lasciati mia madre, i quali consistono in campi e vigneti; e se la bella fra le belle ricusa il fiore d’argento, posso offrirglielo d’oro. - Non vi ascolto, - rispose Amabile turbata. Così doveva parlare il serpente alla nostra prima madre. Fecero un altro pezzo di strada e il cavaliere disse: - Fin qui ho parlato alla bella fra le belle soltanto dei beni ereditati da mio padre e da mia madre; ma ho ancora dei boschi immensi lasciatimi da mio zio, e se il fiore d’oro le par cosa troppo misera, posso offrirgliene uno tutto scintillante di diamanti e rubini. Questa volta Amabile rispose: - Tacete, messer lo cavaliere, voi volete la mia dannazione. Ma lo sconosciuto continuò a parlare a voce bassa di ciò che voleva offrire alla bella fra le belle. Prima di tutto abiti più ricchi di quelli di una regina e un palazzo degno di un re di corona. Amabile non poté resistere a siffatte tentazioni. Ella si tolse di dito l’anello da sposa e l’offrì al cavaliere, e invece di tornare a casa si lasciò condurre lontano, nel luogo ove doveva trovare il palazzo promessole. Ma più che camminavano, più il cielo si faceva scuro, e a una a una sparivan le stelle. Nella campagna non si udiva altro canto che quello sinistro della civetta. Allora ella ebbe paura e disse allo sconosciuto: - Signor cavaliere, è tanto che camminiamo e non vedo dinanzi a me altro che una spianata, che somiglia a un camposanto. - È il cortile del mio palazzo, - rispose il signore. - Vedo una croce come quelle che piantano sul margine delle vie, nel luogo ove fu commesso un delitto. - È la banderuola del mio tetto, - rispose lo sconosciuto. Amabile fece alcuni passi e poi si fermò. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s’è impietosito e mi ha dato le sembianze d’uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l’ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l’alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell’abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l’anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero le fecero fare un giuramento sulla crocellina d’oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l’ebbe posata nell’orticello del tessitore, l’avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all’uscio di cucina, che dava sull’orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra’ Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra’ Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell’erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell’erba, che è quella del sonno, portala nell’orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l’erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell’orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l’Amabile rimase nell’orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull’erba preparata da Amabile; ma l’erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d’oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po’ di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l’ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull’erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra’ Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl’infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra’ Cirillo, e fra’ Cirillo l’asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po’ più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l’aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l’inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l’assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l’anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all’alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l’era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d’Amabile era sparito e nessuno l’aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com’erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d’incontrare il Diavolo, e gli esposero l’accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All’ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d’orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c’è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d’improperî. - Spergiura!... Vile!... Anima nera!... Strega!... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita.
- Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l’abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l’ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l’usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell’Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l’Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand’ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c’era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne’ palazzi de’ Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n’era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s’era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell’inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s’ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d’uscire chiamò da parte l’Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c’era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell’altro! È questa l’ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n’è per poco; lasciala urlare e dormi bene.