XIV. La catastrofe

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XIII XV


Dopo le espansioni di un pranzo largamente annaffiato da quel vino grosso e pesante che i vinai milanesi vendono al popolino, i muratori del Piloni si separarono perfettamente convinti che, per il momento, non valeva la pena di mettersi in isciopero. Per meglio dire la massa non aveva convincimenti di sorta. Le discrete vivande, il vino abbondante e le grasse facezie del capomastro l’avevano domata.

D’altra parte i capi - quei pochi che sanno e pensano e per forza ineluttabile si tirano dietro gli altri - avevano compreso che era meglio aspettare perchè non erano pronti e non avrebbero avuto l’appoggio necessario.

Così tutti lavorarono il lunedì, con più zelo del solito e una serenità affatto nuova.

Bitossi non sapeva se rallegrarsene, o disperare de’ suoi compagni. Luisina l’aspettava per il mezzogiorno in casa Martinelli; e questo pensiero bastava a serenare la fronte del giovine innamorato.

Tutti i lunedì Luisina aiutava Sofia a ripulire la casa, messa sossopra il sabato sera; poi cucivano e stiravano insieme.

Nell’andarsene Diego aveva detto, secondo il solito:

- Giacchè oggi c’è Luisina, verrò a colazione con Francesco; così mangeremo un boccone tutti insieme.

Una mezza festa!

A mezzogiorno Sofia smise di lavorare. Andava in cucina a preparare la tavola, intanto che la Terragni dava l’ultima mano allo studio, dove non era mai finito di levare la polvere.

Un viavai di gente animava la corte. Alcuni operai, di quelli abituati a fare la lunediana, empivano l’osteria dei loro canti e del loro chiasso. Altri, di quelli che non perdono mai una giornata, ma non si accontentano del pane asciutto, né della polenta fredda, entravano dall’oste per mangiare una scodella di minestra e bere un bicchiere.

Traversando la corte la Colombo vide Luisina che spazzolava un tappetino alla finestra dello studio, e s’accostò a lei per fare quattro chiacchiere.

- L’è una bella storia! Se ne vedrà di tutti i colori...

- Che storia?

- La Cesira, eh! Non sa?... Non sa che ha giurato di vendicarsi coi mariti o coi ganzi di tutte le vicine? Non si ricorda come si son picchiate con la donna gialla!...

- Ho sentito qualche cosa, ma non ho fatto attenzione.

- Eh! si capisce, poverina! Aveva altro per il capo, lei!... Bene, la sora Civardi ha avuto la peggio; e per di più, Santino, il suo bello, non vuol più saperne della sua ciccia, perchè è incapricciato della Cesira... Ci muore dietro. E Cesira non sa più che farsene di lui. Fin da ieri è in baracca col ferraio Mariani, che da qualche mese era l’amoroso della macchinista, sa bene, la sora Cleofe, quella santarellina che sta nella sua camera di una volta. Ah! che pasticcio! Si vorrà ridere. Senta, ora la Cesira non è ancora ritornata; né il ferraio s’è visto; e la sora Cleofe li aspetta alla finestra. Se alza un po’ la testa la vede; è verde come un ramarro. Avremo un putiferio, perchè si racconta che il sor Luigi, il macchinista, è stato anche lui con la Cesira e non le risparmierà un paio di schiaffi. Così marito e moglie si troveranno d’accordo. A buon conto il mio uomo farà rapporto, perchè di queste porcherie non se n’è mai viste da che siamo noi portinai. La Cesira disonora la casa... Ah! Madonna Santissima! Cosa succede? Gesù mio!...

Una folla di gente si precipitava nell’entrata spingendosi nella portineria... Erano operai scamiciati, donne, ragazzi; e gridavano gesticolando, tutti in una volta.

Luisina sentì queste precise parole:

- È rovinata la fabbrica di Piloni!...

Il ferraio Mariani, che entrava in quel momento, disse tranquillamente:

- Si, è rovinata un’ala; ma non ci sono vittime, perchè suonava mezzogiorno e gli operai erano appunto discesi. Quanto alla fabbrica era il suo destino.

E attraversò la corte ridendo e sbirciando la Cleofe che gli faceva gli occhiacci.

Sofia, accorsa al rumore, gridava:

- Che hanno detto?... Cascata la fabbrica?!... Ah, Diego ha sempre detto che la sarebbe finita così!...

Luisina cercò di calmarla ripetendole le parole del ferraio.

- Speriamo in Dio! I nostri uomini devono essere discesi al primo rintocco del mezzogiorno, sapendo che noi li aspettiamo....

- Saranno qui a momenti.

Tacquero per la cresciuta ansietà, con la speranza di essere sollevate da quella pena di momento in momento.

Ma i minuti volavano con vertiginosa rapidità, e Diego e Francesco non si vedevano.

Entrarono due uomini in blusa. Sofia sussultò; Luisina disse subito:

- Non sono i nostri.

Erano due scalpellini che non appartenevano alla fabbrica del Piloni; venivano però da quella parte. Uno disse subito:

- Saranno dieci vittime... forse venti!...

Un urlo formidabile gli rispose, un urlo di terrore, di angoscia, di disperazione.

Le donne si precipitarono; quelli dell’osteria vennero fuori; e le domande, le risposte, le acclamazioni desolate si urtarono, s’incrociarono senza senso, senza costrutto.

La corte era piena di gente che pareva impazzita. Molti si avviavano di corsa verso Porta Venezia, curiosi o allarmati. La moglie di un falegname che lavorava anche lui dal Piloni era svenuta. Le donne la circondavano.

Luisina e Sofia, sempre alla finestra dello studio, si tenevano per mano, così assorte nel cruccioso aspettare che non sentivano i discorsi della gente; così tormentate dal dubbio terribile, che non osavano scambiarsi una parola né uno sguardo. Tremavano, e le loro mani si stringevano sempre più forte per un impulso istintivo. A un tratto Luisina sentì alcune donne esclamare: "Poveretta! Poveretta!" e le parve che indicassero lei.

Il vecchio muratore Berini era entrato nella corte volgendo intorno gli occhi spaventati, camminando a casaccio. Pareva più curvo del solito e strascicava le gambe. Di tratto in tratto alzava le braccia al cielo come se l’avesse chiamato a testimonio di un fatto incredibile; poi le lasciava ricadere inerti lungo il corpo; e scrollava la grossa testa contornata di capelli bianchi.

Tutti tacevano intorno a lui, impressionati; raccogliendo le sue tronche parole; interpretandone i gesti.

Avendo scorto uno dei due scalpellini entrato poco prima, il quale era suo amico, Berini andò a lui e cominciò a parlargli con la foga di uno che ha bisogno di gridare per sollevare l’animo oppresso.

- Sai tutto, tu?... Sai?... No. Tu non puoi sapere! Io so. La crepa si vedeva da una settimana. Dacchè le travi pesavano su quei muri di polenta!... E io glielo dissi a quell’asino. Sai cosa mi ha risposto?... Che ero un vigliacco, io, che avevo paura di tutto!... Vigliacco a me, figurati! Questa mattina alle sei, per prima cosa vado a vedere la crepa: era larga così!... Aspetto che arrivi quel bestione, e lo chiamo, e gli dico: "Bisogna rimediare". E lui: "Va al diavolo! Non sei buono di stuccarla? Quando non la vedrai più, non avrai paura..." E rideva. Ora è successo quello che è successo; e se non siamo morti tutti è un miracolo; e lui, sai cosa dice? Che la colpa è nostra, che abbiamo lavorato male per astio, per buscarci la mancia. L’ho sentito io!... Quando però ha visto che tutti si rivoltavano ha fatto presto a scappare!... Non lo pigliano più...

Suonarono in quel punto le dodici e mezzo. Luisina e Sofia uscirono in una identica disperata esclamazione:

- Non verranno più!...

Berini si voltò e le vide, e nel suo volto si manifestò tanta compassione, che le due infelici si sentirono come fulminate.

Era dunque vero?... Vero?! L’orrido presentimento non le aveva ingannate!

- Giovanni! - chiamò la stiratrice - Giovanni!...

Ma il vecchio non intese quella voce morente, o non volle intenderla per non rispondere con una parola fatale alla disperata domanda; e s’allontanò per recare altrove la funesta novella e il suo rammarico di operaio illibato e solerte, il suo rancore di vecchio insultato e deriso da un cinico.

- Andiamo! - gridò Sofia drizzandosi con energica risoluzione. - Andiamo a cercarli... Vieni, Luisina...

Luisina, paralizzata dallo spavento, non poteva muoversi. Le accadeva come tante volte accade nei sogni, quando ci si sente rincorsi da un nemico, o minacciati da un pericolo, o attesi ansiosamente da una persona cara; e si vorrebbe volare, ma le gambe fatte pesanti non si muovono e par d’essere appiccicati al suolo.

- Non puoi correre, Luisina? - domandò Sofia disperata. - Fatti core, appoggiati a me; quando saremo fuori, prenderemo una vettura. Muoviti per carità! Voglio andare in cerca del mio Diego, io...

Con uno sforzo supremo Luisina riuscì a fare alcuni passi.

Traversarono la corte, uscirono: Sofia sorreggendo l’amica, quasi portandola.

Un fiaccheraio che transitava senza carico le invitò a salire nel suo calesse.

- Al Lazzaretto! - gridò Sofia appena furono sedute.

Il fiaccheraio comprese di che si trattava e sferzò il cavalluccio.

Tutti sapevano ormai, e non si parlava d’altro.

Lungo i marciapiedi i passanti si arrestavano, formando dei capannelli intorno ai meglio informati che narravano i particolari del disastro. E quelle due donne scarmigliate, piangenti, portate via al trotto, erano seguite da lunghi sguardi curiosi, commossi di sùbita pietà.

Ogni tratto sbucava un muratore, o un garzone, da una scorciatoia, correndo, pallido, ansimante, le vesti luride.

Subito la gente gli era attorno e lo interrogava. Le risposte erano laconiche.

- Salvato!... Vado a casa a farmi vedere dalle donne... che non si disperino.

E via di corsa.

- I nostri sono morti! - esclamò Sofia a un certo punto mettendosi a singhiozzare più forte. - Se non fossero morti si sarebbero già incontrati...

- No! Non è vero! - gridò Luisina con un gesto disperato di diniego. Lo stesso pensiero era sorto in lei, ma lo respingeva con tutte le forze dell’anima. Guai se fossero morti!... Guai!... E la minaccia che si formulava chiara e terribile nella sua coscienza le oscurava la fronte e lampeggiava sinistramente nei grandi occhi vellutati.

Sul ponte di Porta Venezia videro una donna che correva ansimando, la faccia intrisa di sudore, i capelli incollati alle tempie; inciampava; a volte cadeva, ma ritrovava la forza di rialzarsi e si rimetteva a correre, come pazza.

- La Tamburini!.. - disse Luisa. - Poverina... come è ridotta!

La raggiunsero; fermarono il legno e la fecero montare.

Ci volle un certo tempo prima che la infelice si raccapezzasse. Quando fu seduta ed ebbe riconosciuta la Terragni, volle ringraziarla, ma non potè. Non le uscivano dalle labbra che suoni rotti e parole confuse.

Fuori di porta bisognò andare al passo in mezzo alla folla enorme.

Il cocchiere si raccomandava che lo lasciassero passare, che le donne da lui condotte avevano i loro uomini laggiù fra le rovine, e smaniavano di vederli.

E la folla terrorizzata guardava le sventurate, e faceva largo.

La fabbrica stava dinanzi a loro e appariva intatta; la facciata non aveva sofferto alcun danno.

Eppure la gente si assiepava, guardando con occhi intenti quel muro bucato da tante finestre che nulla rivelavano della immane tragedia. Chi poteva aprirsi un varco passava dall’altra parte. Altri salivano sui tetti delle case vicine.

Finalmente dopo lunghi sforzi e molta pazienza, il cocchiere si trovò col suo legno sul luogo del disastro. Dovette arrestarsi ad alcuni metri di distanza, presso a una corda tesa. Le donne rimasero un istante senza rifiatare, oppresse, sbigottite, incapaci di orizzontarsi, annientate dall’orribile spettacolo a cui si affacciavano.

Nello spazio immediato, circondati da alcune donne che piangevano e urlavano disperatamente, due cadaveri erano distesi in terra, con la testa fracassata; irriconoscibili.

Soldati e lavoranti andavano e venivano con ceste e secchie, esportando il materiale scavato. I lavori di salvataggio avvenivano di là da un alto muro, poichè la rovina era interna. Nel quadrato d’angolo i piani si erano inabissati uno nell’altro, e quella enorme congerie di travi, di ferramenta, di pietre e di calcinacci aveva rotto col suo peso la volta della cantina insieme alla quale era sprofondata nel vano delle fondamenta. Dei quattro muri maestri, formanti il quadrato, uno - quello verso corte - spaccato dall’alto al basso, minacciava di rovinare completamente; gli altri rimanevano ritti, ma con larghi squarci qua e là.

Si temeva che tutta la fabbrica seguisse la parte precipitata nell’improvvisa voragine. Dappertutto pompieri, soldati, operai guidati da qualche esperto muratore e dagli ingegneri municipali, qua occupati all’opera di salvataggio, là intenti a impedire nuove rovine e a renderle meno pericolose.

Del capomastro Piloni neppure l’ombra.

Chi narrava di averlo visto scappare. Chi pretendeva invece che non fosse uscito di casa quella mattina; altri, che appena udita l’antifona avesse preso il treno.

Un ometto sparuto si era lasciato cadere su un mucchio di rottami e restava accasciato, intontito.

- Il socio! - mormoravano alcuni additandolo.

- Povero diavolo!

Ad ogni istante giungevano nuove carrozze dalle quali scendevano giornalisti, uomini rivestiti di qualche autorità cittadina, ufficiali, ingegneri, capimastri, signori privati, creditori del Piloni. Anche Luisina e le sue compagne erano discese e aspettavano di essere lasciate passare come mogli di uomini addetti alla fabbrica e dei quali non avevano notizia.

In quel momento un episodio drammaticissimo attirava l’attenzione generale. Vedendo che il muro smantellato era in grave pericolo di precipitare e temendo nuove disgrazie, si erano sospesi gli scavi e si stava allontanando la gente perchè i pompieri potessero atterrare quel muro così minaccioso, allorchè un ragazzo dell’età apparente di dodici o quattordici anni apparve a una finestra del terzo piano, chiamando al soccorso, disperato, piangente.

Si fece un silenzio di tomba. Poi, subito, per reazione, un gridare confuso, enorme.

- Casca! Dio! Dio! Casca!...

- Ah... Casca, casca!...

Una voce imperiosa comandava:

- In là, in là! via!... Si sfascia il muro... Resterete sotto, tutti!

La gente indietreggiava. Ma un momento dopo, spinta da una forza superiore perfino all’istinto della conservazione, tornava al posto di prima, per rivedere quel fanciullo, le cui povere mani violacee, ingranchite, si allentavano a vista d’occhio.

- Coraggio! - gridavano alcuni nella speranza di essere intesi. - Tienti forte! Ancora un momento! Ora vengono!

- Indietro, perdio! indietro! - ripigliava la voce imperiosa. Ma che!... Tempo perso. Nessuno pensava a sè. Quel fanciullo teneva tutti i cuori sospesi.

Un pompiere intanto si dava attorno per fermare una scala; cosa ardua e pericolosa con quel muro mezzo rovinato. Appena vi potè riuscire, si lanciò, leggiero e sicuro.

La folla tratteneva il respiro.

In un lampo egli si trovò al livello del fanciullo, lo afferrò e cominciò a discendere, salutato da applausi, da grida trepidanti e ammirative.

- Purchè non crolli il muro adesso! - gemevano i più spaventati.

Molti avevano riconosciuto il fanciullo per un tale Ernesto Miani, e un muratore raccontava che al momento della catastrofe doveva trovarsi sotto il tetto con altri due ragazzi a mangiare; li aveva veduti lui; e temeva molto che gli altri due fossero stati travolti.

Appena il fanciullo toccò terra, una donna si gettò su di lui con un urlo. Era la povera Tamburini impazzita dal terrore. Ella si figurava di rivedere il suo Carlino e si avvinghiava disperatamente a quel fanciullo, che non la conosceva e cercava di liberarsi da quella stretta con un senso di ribrezzo.

- Povera Tamburini! Ha perso la testa! - disse un muratore.

- La mamma di Carlino e di Pietro? - esclamò di scatto il ragazzo. - Erano con me. Sono cascati in fondo... li ho visti... io solo ho potuto attaccarmi all’arpione...

E, ripreso dallo spavento, tornò a singhiozzare convulsamente.

La Tamburini si guardò attorno con gli occhi sbarrati, e scoppiò in una risata spaventevole.

Il fracasso ed il denso polverìo sollevato da un largo pezzo di muro che i pompieri avevano atterrato, disperse un momento la folla e allontanò la povera pazza dalla curiosità generale.

La confusione cresceva.

I muratori, che sapevano d’avere altri compagni sepolti, si rimettevano a scavare insieme ai soldati.

Sofia e Luisina si erano fatte avanti.

- Diego! - gridò Sofia al colmo della gioia, scorgendo lo scultore che lavorava a tutt’uomo con la vanga. - Diego mio!...

- O Sofia!

Si abbracciarono piangendo, ridendo, pronunciando parole sconnesse.

Quando vide Luisina, Diego si vergognò quasi della propria fortuna, impallidì e restò muto.

- E Francesco?... - domandò la giovane con voce rotta.

- Non è qui?... Dov’è?...

Diego cercava una frase che velasse in parte l’orrore del vero; ma non riesciva a trovarla.

- Morto!?... - gridò lei interpretando quel silenzio nel modo più tragico.

- No.... morto. Speriamo di no....

- Ah!... È là sotto!...

E si lanciò tra i soldati, come ebbra.

Un momento prima, allorchè aveva gridato: - "Morto!?" in fondo all’anima le rimaneva la speranza occulta che qualcuno le rispondesse: "No; salvo!".... - Ora quella speranza era distrutta e la terribile verità non lasciava alcun posto alle attenuanti.... Egli era là, sotto a quel cumulo di macerie, nell’improvvisa voragine; se non morto, sepolto vivo! Ogni istante che fuggiva portava forse con sè, nell’irredimibile passato, l’ultimo anelito di quella vita.

- Qui! qui! - gridò un soldato chiamando a sè i compagni. Tutti si precipitarono da quella parte.

- Allontana Luisa - suggerì Diego a Sofia.

Luisina intese, e con voce morente supplicò:

- Non mi allontani!... Sarò forte....

Sofia la strinse fra le sue braccia.

Dovettero scostarsi un poco.

Era un silenzio funereo, interrotto soltanto dai gemiti delle donne e dal rumore monotono delle vanghe.

Gli scavatori andavano a rilento misurando i colpi, scrutando il terreno, dominati, e a volte paralizzati dal timore di far del male a quelli che volevano salvare.

Vi erano là dei signori, nobili, ricchi, insigniti di alti gradi sociali, confusi insieme ai poveri badilanti, e manovali laceri, sporchi.

Le insormontabili differenze della società sembravano scomparse, come se il dolore umano, supremo livellatore, le avesse in un sol colpo cancellate.

Un altro grido selvaggio risuonò tra le rovine e un uomo, un’ombra d’uomo che pareva uscito di sotto terra, tutto coperto di polvere e fango, si gettò su i due piccoli cadaveri che i soldati deponevano con delicatezza sopra una barella.

I muratori, davanti al dolore dello sciagurato Tamburini, erano presi da un inconsapevole rispetto per quell’uomo, già tante volte disprezzato per i suoi vizi e le sue follie.

Dopo quell’urlo disperato egli non emetteva neppure un gemito, lo sguardo fisso sui due cadaveri orribilmente sfracellati.

E lo sguardo e il viso stravolto dicevano solo quale fosse il suo strazio.

La misera madre era lontana, in fondo al cortile esterno, presso all’omnibus dove erano i due primi cadaveri: guardava dinanzi a sè, stralunata, indifferente.

Le salme dei due fratelli - di quei ragazzi fino a poche ore prima così rumorosi, allegri, pieni di vita - furono portate in un altro omnibus: avvolte in un panno perchè le povere membra restassero insieme; allora, il padre e la madre si trovarono un istante faccia a faccia.

- Tu?! - ringhiò la pazza riconoscendo il marito e ricuperando a un tratto la favella. - Tu?

E si gettò su lui, i pugni serrati, mitragliandolo sulla testa, sul viso, con una scarica rabbiosa di colpi.

Era una strana forza irruente che si manifestava in quel corpo sfinito.

L’uomo lasciava fare senza difendersi, senza neppure scansarsi, gli occhi sempre fissi sui due piccoli morti, le braccia inerti.

Alcuni particolari del tragico episodio dei due ragazzi passavano già di bocca in bocca tra la folla avida di notizie, che si addossava fitta fitta attorno allo spazio circoscritto, stendendosi, poco meno densa, sul viale e fino oltre il piazzale di Porta Venezia.

I più vicini si spingevano innanzi a gomitate, vincendo ogni resistenza per vedere la disgraziata madre e i due piccoli morti.

La ressa cresceva di minuto in minuto.

Come Dio volle, i due omnibus si misero in moto; un nugolo di gente andò loro dietro.

Un’ondata irrefrenabile separò la pazza da suo marito e non pochi la sballottarono brutalmente senza sapere che era appunto quella per cui tanto si intenerivano.

Alcuni pietosi, finalmente la raccolsero e la condussero all’ospedale.

Gli scavi continuavano.

Una tenue speranza rinasceva nell’anima di Luisa.

Forse Francesco non era morto, né sepolto vivo... Forse era riuscito a fuggire; e mentre ella agonizzava nella terribile aspettativa di vederlo estrarre di sotto terra morto o morente, egli era corso a casa in traccia di lei per dirle: Son qui!... Sono salvo!...

Ma la speranza le morì nel cuore una seconda volta, guardando la faccia addolorata del Martinelli.

- Chi manca ancora? - domandò un signore della prefettura.

Un impiegato municipale, che aveva preso nota dei nomi di quelli che non avevano risposto all’appello, guardò la sua lista, poi disse:

- Non può mancarne che uno, un certo Bitossi; ma potrebbe anche essere scappato nel primo spavento e ricomparire... Ne abbiamo visti ricomparire cinque di quelli che non risposero.

- Ma Bitossi non fu visto da nessuno - osservò un assistente.

Il nome di Bitossi volò di bocca in bocca. Invano. Nessuno si ricordava di averlo veduto dopo il disastro; moltissimi prima; e tutti volevano precisare.

Era in solaio... sulle scale... sul tetto... in cantina.

Non potevano andar d’accordo, avevano perso la memoria; solo concordavano in questo: prima sì, dopo no.

Martinelli non osava dire quello che pensava. Vedeva Luisina dinanzi a sè, e quel viso bianco, disfatto, quegli occhi bruciati dalla febbre gli toglievano il coraggio.

Per lui non esisteva alcun dubbio: Francesco giaceva laggiù, sotterrato.

Si ricordava di averlo visto al momento della catastrofe, allorchè il vecchio Berini, sempre attento, sempre vigile, si era messo a gridare: "Oh ragazzi! La fabbrica la va all’inferno!" correndo con le sue vecchie gambe come un giovane di venti anni.

Tutti si erano lanciati alla rinfusa per la scala grande... e Bitossi avrebbe dovuto essersi lanciato con loro, poichè era lì a pochi passi. Invece, chi sa per qual motivo, egli non li aveva seguiti.

Probabilmente dal punto in cui si trovava gli era parso di scendere più presto per la scala C, quella che doveva precipitare l’istante appresso.

Appena riavuto dalla follia del terrore che lo aveva fatto correre all’impazzata insieme agli altri sei o sette che si erano salvati con lui, il buon Martinelli aveva cercato l’amico credendo che fosse lì poco discosto. E quando gli dissero che Francesco non era fuggito con loro egli provò lo stesso terrore provato prima al formidabile rumore delle travi schiantate, dei muri rovinanti, dei cinque piani inabissati; soltanto, invece di scappare, ritornò con la stessa furia al luogo del disastro né più se ne staccò.

Un dubbio l’opprimeva: il dubbio che Bitossi non avesse voluto salvarsi.

E come le ore passavano e l’ultima illusoria speranza che Bitossi fosse fuggito da un’altra parte svaniva, il dubbio si mutava in una spaventosa certezza.

A forza di pensare lo scultore si compenetrava dello stato d’animo dell’amico suo e si rendeva conto di tutto. Essendo a giorno dei pasticci fatti dal Piloni, Bitossi doveva essersi esagerata la propria responsabilità; e il tumulto angoscioso della coscienza sgominata doveva essere stato così potente in lui da paralizzare la forza dell’istinto. Invece di fuggire, aveva pensato ai compagni in pericolo, per correre a salvarli.

Intanto la catastrofe era avvenuta; i cinque piani si erano inabissati... ed egli era stato miseramente travolto.