La colonia italiana in Abissinia/VIII
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VIII.
L’allievo del padre Stella — I fratelli Deghlel — Trattative tra uno dei Deghlel e il nostro capo — Il conte Debiseu — Il vessillo francese e i Cordofani — Le donne dei Bogos — I fadab — Congedo dei Deghlel — Un sito fantastico.
Il giovane capo, che si avanzava con tanta gaiezza ed ansietà, non appena giunse a qualche passo da noi, corse direttamente al sig. Stella, gli prese avidamente le mani, che si recò tosto alla fronte; poi, prostratosi, appoggiò la faccia sopra i piedi di lui; quindi ci venne incontro e ad uno ad uno ci prese la destra e vi chinò sopra la fronte, come avea fatto col sig. Stella.
Era questi Olda-Gabriel, il famoso cacciatore d’elefanti, l’allievo prediletto del sig. Stella di cui è stata fatta menzione più sopra.
Saputo il nostro arrivo, abbandonò la caccia, e sebbene si trovasse in luoghi, parecchie giornate lontani, appena ne giunse a lui la nuova, si pose in viaggio col proponimento di incontrarci e di seguirci dovunque, pronto a dare anche la sua vita in nostro aiuto e difesa.
Fin da quando eravamo a Cassala, era giunta sino a lui la voce del nostro viaggio, e ciò non deve far meraviglia, dacchè si sappia che in quelle regioni non si fa uso di staffette a cavallo, ma invece se ne adoperano di quelle a due piedi, che nulla lasciano per certo a desiderare rispetto a sollecitudine. Una notizia si divulga colà fra le varie tribù colla celerità del vento, specialmente se straordinaria, com’era quella della nostra escursione.
Il sig. Stella incaricò Olda-Gabriel di provvedere alcune stuoie per nostro uso, genere ch’ivi si trova assai facilmente. Lo stesso sig. Stella ebbe vari colloqui col Capo di quella tribù giunto dappoi, e col quale proseguimmo il cammino fino a Zaghà.
I due fratelli Deghlel si presentarono all’ingresso della cinta a darci il benvenuto. Erano essi due nomini tarchiati, specialmente il maggiore di età, un vero Ercole, d’aspetto maestoso, imponente. La sua cortissima capigliatura, addicevasi assai bene a quella faccia austera.
Avvolgevasi in un manto di grossa tela, portava dei gingilli d’oro, in forma di anelli, agli orecchi — segnale di nobiltà; — dalle spalle, mediante una ciarpa, pendevagli la scimitarra riccamente lavorata e il braccio destro aveva cinto da cerchietti metallici recanti inscrizioni del Corano; era infine uomo, di voce robusta e di pochissime parole.
Il minore era più snello; la sua capigliatura copiosissima e nero-lucente, stava raccolta e costretta da un lungo e grosso spillo d’avorio; intorno ai fianchi cingeva una specie di grembiale di grossa tela; un cordone al collo sosteneva un frutto recato dalla Mecca che gli scendeva sul petto; le braccia, le gambe ed i piedi aveva nudi.
I due fratelli, ci fecero entrare nel proprio recinto; ed uno di essi ordinò ad alcuni indigeni di sgombrare una o due capanne per poterci alloggiare.
Ci furono destinati degli uomini per assistenza e questi ci diedero mano a scaricare i camelli. Una vasta capanna accolse poco dopo noi e tutti i nostri bagagli. Mentre ciò avveniva, il Capo conversava col sig. Stella, e noi, poco dopo, andavamo disponendo le nostre brande e collocando alla meglio le nostre robe. Alcuni del seguito, tra cui quattro Bogos, che avevano abbandonato Cassala per seguire il sig. Stella fino a Keren, andarono a provvederci di legna.
Accomodatici, pensammo alla cucina, e qualche tempo dopo, mentre stavamo ragionando, sdraiati sulle nostre brande, rientrò il sig. Stella, che fino allora avea girato il paese, ed egli ci fece conoscere le intenzioni di quel Capo.
A quanto ei ne disse, il maggiore dei fratelli avrebbe proposto, che qualora avessimo voluto soggiornare nella sua tribù, ci avrebbe ceduto il dominio di qualche terra, facendoci pagare un tributo. Là avremmo potuto fortificarci, costruire capanne e portarvi la coltura europea, chiamando a noi molti di quei nomadi che colle loro mandre erravano pel Barka.
Così sarebbe stato più facile al Deghlel medesimo sottrarsi, mediante qualche fatto d’armi, alle molestie dei soldati del Cordofan, contro i quali non sarebbe più stata difficile una vittoria. Così inoltre avrebbesi potuto fondare uno stato indipendente, e a suo tempo procedere alla conquista d’altre tribù per costituire finalmente una specie di regno.
Una simile proposta era invero arrischiata, nè era meno imprudente da parte nostra l’accettarla, avvegnacchè il suolo fosse tributario dell’Egitto; e, se pure la fortuna ci avesse dapprincipio favorito, non avremmo potuto a lungo sostenerci contro avversari troppo potenti.
D’altronde, lo scopo della nostra missione era ben diverso, anche prescindendo dalla poca concordia che avrebbe potuto regnare fra Cristiani e Mussulmani. Questa fu l’opinione del sig. Stella, che noi tutti dividemmo con lui.
Ci raccontò egli, che prima di noi, altra carovana di Europei, guidati da un francese, aveva provato a proprio costo quanto fosse insostenibile la loro posizione in quei luoghi. Il conte Debiseu, arrivato con trecento uomini, fornito di copiose vettovaglie, e munito d’armi portatili e di tre pezzi di cannone, aveva la missione di stabilirsi nelle terre dei Bogos, e per sua mala ventura, passato per Zaghà e fattovi sosta alcuni giorni, aveva ricevuto l’eguale proposta da un capo, che fu un fratello dei Deghlel residente a Kufit.
Questi lo aveva lusingato a tentare un colpo di mano contro i soldati del Cordofan, fornendogli gente e mezzi d’ogni specie, lusingando anche la sua ambizione col cedere il comando nelle sue mani, e facendogli da ultimo osservare che avrebbe avuto opportunità di erigere solidissime fabbriche di granito, e così trincerarsi e rendersi indipendenti dal governatore di Kartun. Il sig. Stella, che trovavasi a quell’epoca nel medesimo sito ed aveva quindi opportunità di parlargli e di consigliarlo, gli aveva fatto vedere non essere attuabile la proposta; ma il francese, lusingato dal proprio orgoglio, fingeva di dargli ascolto anzi stabiliva di recarci con lui nel paese di Bogos. — Invece di soppiatto, cercava di screditarlo e di perderlo.
L’orgoglio infatti la vinse, e il Debiseu, fidando nelle proprie forze, recossi coi suoi e con molti indigeni sino a Kufit, ove, inalberata la bandiera francese, diede mano ai lavori. Dopo un mese circa, speso nella costruzione di capanne e di bastioni, vennero assaliti da seicento soldati neri del Cordofan, spediti dal governatore di Kartun, coll’intimazione che tosto sgombrassero da quel sito.
Intimoritisi i seguaci del conte, si sbandarono chi a levante e chi a ponente, e soltanto un piccolo numero riuscì con gravi stenti a salvarsi. Il resto perì miseramente. Quei pochi che poterono ritornare in Egitto, vi arrivarono laceri, smunti, abbronzati dal sole ed infermi.
Se il Debiseu avesse seguito il consiglio di Stella, e l’avesse seguito sino al punto di recarsi con lui tra i Bogos, come aveagli promesso, la disfatta dei trecento Europei non sarebbe avvenuta e sarebbe stata possibile la colonizzazione in quel paese.
Infatti, come si è detto, il francese aveva stabilito che si sarebbero riuniti a due giornate più in giù di Zaghà; ma se Stella fu ligio al convegno, non lo fu il sig. conte.
Quando il nostro missionario giunse al luogo del convegno, egli attese invano il compagno sleale, e l’attese invano per sei giorni consecutivi; dimodochè, non sapendo più che pensarne, ritornò a Cassala, ove seppe in qual modo avea proceduto, e qual era stata poi la fine della sua malaugurata intrapresa.
Certamente per un francese sarebbe stato disonorante il ricever consigli da un italiano — ciò si è veduto più volte; ma la troppa presunzione conduce assai spesso a risultati di questa specie.
Mentre la nostra conversazione animavasi sempre più, comparve nella capanna il minore dei fratelli Deghlel, con un piccolo leopardo sulle braccia, che ci regalò e che conducemmo poscia con noi fino a Sciotel. In questo incontro il sig. Stella gli fece conoscere che la nostra spedizione aveva lo scopo di stabilirci, nelle vicinanze di Keren, restarvi per due anni all’incirca, costruendovi delle capanne provvisorie per riparo e per sicurezza; che dovevamo darci alla cacciagione, alla raccolta di erbe medicinali, alla imbalsamazione di uccelli, e infine dovevamo fornire al re d’Italia una bella raccolta di belve, per la qual cosa avevamo ricevuto incarichi speciali.
Aggiunse in proposito che, in breve, saremmo stati raggiunti da un console italiano, e ciò per tenere in rispetto i Beniahmer, che si esercitavano in scorrerie ed in saccheggi, come ne faceva prova la provincia Amarica, gl’Indigeni delle quale vengono spessissimo assaliti e derubati. Noi dovevamo perciò servire di baluardo agli Amarici, occupando il tratto di terreno abbandonato d’ambo le parti nemiche e proteggendo eziandio le tribù vicine col nostro soggiorno in Sciotel.
Dopo queste ed altre osservazioni fatte al Capo dal sig. Stella, il colloquio ebbe fine, e noi, a motivo dell’eccessivo caldo che si provava nella capanna, uscimmo a respirare un pò d’aria libera e meno infocata.
L’imbrunire era imminente, per cui, recate fuori le nostre brande, ci sdraiammo sopra, eccetto Glaudios che rimase in cucina. Io deposi il piccolo leopardo sulla branda, e dopo essermi collocato vicino ad esso accesi la pipa, mentre il sig. Stella faceva altrettanto, fumando il gogò e conversando col suo allievo Olda-Gabriel.
Gli chiese notizia di ciò che era avvenuto dopo la sua assenza da Keren ed egli le porse con garbo e con semplicità.
La sera si inoltrava e già le tenebre, nulla permettevano di rilevare all’intorno, allorchè ci comparvero, quasi inosservati, quattro indigeni con dei piatti giganteschi contenenti una specie di polenta male impastata con dura 1 e latte, avente un sapore acre, e dei pani somiglianti alle nostre focaccie. Questa refezione eraci stata mandata dal capo Deghlel, e noi ne prendemmo una piccola porzione, lasciando il rimanente ai nostri servi.
Mangiammo quindi delle lenti e dopo avere asciolto, ritirammo nell’interno le brande ed, ivi sdraiati, continuammo a conversare per alcune ore, quindi dormimmo.
La mattina seguente ci alzammo per tempo e ci diemmo a pulire e raccomodare i nostri effetti. Ricevemmo in regalo due montoni che ci servirono di pasto per tutti i tre giorni in cui ci soffermammo. Nello stesso giorno alcuni indigeni vennero ad offrirci la pelle d’un leone ucciso nella sera precedente, della quale chiedevano un tallero; ma il sig. Stella la rifiutò perchè forata da un colpo di lancia.
Passavamo quei giorni girando il paese o cacciando, talvolta assistendo alle conversazioni del sig. Stella col capo Deghlel, tal’altra alla lettura che ci teneva lo Spagnuolo. Assai spesso mi allontanava dal recinto, curioso di rilevare in qual modo si usasse colà vivere e lavorare.
M’incontrava sovente qualche bella donna dai cui vezzi mi sentiva attratto; ma la gelosia degl’indigeni m’impediva di avvicinarmi non che di fissarvi troppo lo sguardo. Devo confessare che qualche fanciulla avrebbe esercitato un ascendente sul mio cuore, ma agli sguardi di quella, dovevasi prudentemente rispondere con occhiate furtive e sospirare da lontana, atantechè l’avvicinarsi sarebbe stato pericoloso. Altro inconveniente per un Europeo, sarebbe stato l’odore di burro rancido che tramandano tutte le donne per l’abuso che ne fanno intorno alla loro capigliatura.
Le forme delle donne dei Bogos, se non sono eleganti e voluttuose, sono però regolari e più rotonde che quelle dei maschi.
Le loro fattezze hanno talvolta una espressione di semplicità e di dolcezza che non manca di attrattive....
Il signor Issel, citato più sopra in una annotazione, parlando delle donne dei Danakil, le qualifica di forme piacevoli e di simpatico aspetto... «a distanza però, egli soggiunge, poichè da vicino gli effluvî del burro rancido — almeno per noi Europei — neutralizzano le seduzioni dei loro begli occhi».
Portano desse, a guisa delle Nubiane, una veste di cotone color turchino che, girando a pieghe intorno alla persona, ne copre una parte, lasciando scoperto il seno e le gambe fino sopra al ginocchio.
S’ornano il collo di conterie, le braccia e le gambe con cerchi di metallo lucido — ferro od ottone — e le nubili hanno traforata la cartilagine destra del naso da uno stecchetto di legno, il quale viene sostituito da un anello di metallo quando vanno a marito. Sono timide e temono assai i loro uomini.
Giusta le intelligenze prese a Cassala, attendevamo i rinforzi di Keren, che il sig. Stella avea disposto ci avrebbero raggiunto a Zaghà; ma i giorni di aspettativa ci parevano sì lunghi che risolvemmo di avviarci noi stessi verso Keren, per incontrarli. Veramente il partito non era troppo prudente, come aveva osservato il nostro capo condottiero, perchè credevasi invasa la tribù dei Bogos dalle scorrerie dei Marias loro nimicissimi, od anche da altre tribù nemiche.
Ma egli contava sull’appoggio di parecchi suoi servi, che dovevano tosto raggiungerci, e che, da lui allevati ed istruiti, avrebbero sparso il proprio sangue prima che a noi fosse stato torto un capello. Difatti l’assistenza di costoro ci si rendeva indispensabile, dacchè la carovana, che avea viaggiato con noi da Suakin a Cassala, erasi colà soffermata e il nostro scarso numero non offriva garanzie sufficienti per esporsi al minimo rischio.
Appoggiati invece da un discreto numero di servi del sig. Stella, gente valorosa e temuta dai Marias per recenti fatti, avremmo potuto avanzarci con una certa tal quale sicurezza.
Ci narrava egli che quei giovani, chiamati Fadab, ossia valorosi, erano assai ben conosciuti dai Marias e che questi si sarebbero ben guardati dal misurarsi con uomini sì formidabili, i quali, durante l’ultima sua assenza, in un solo scontro ne avevano ucciso quaranta.
Ed erano stati in trecento contro sedici, questi armati però di fucile, al cui maneggio erano stati eccellentemente istruiti dal sig. Stella.
Consultatici quindi in via decisiva, risolvemmo di recarci incontro a coloro che aspettavamo, pronti ad accogliere i Marias a schiopettate nel caso in cui, consci della nostra marcia, tentassero di coglierci in qualcuna delle foreste che dovevamo attraversare.
Or bene, risolse il padre Stella: all’opera! Ponete all’ordine le vostre armi, caricatele a palla, abbiate a mano altre cartuccie, e in marcia. Io stesso non sono alieno dall’augurarmi un incontro con codesti selvaggi a punirli un poco della loro albagia e della persecuzione che ci fanno.
Caricammo i camelli, allestimmo le nostre some e partimmo in compagnia dei due fratelli Deghlel che vollero accompagnarci con grande ceremoniale.
Montavano essi due superbi cavalli; indossavano una sopraveste di lusso, sotto la quale apparivano le loro splendide scimitarre. Dietro le spalle tenevano appeso lo scudo, dal cui centro partiva una bellissima criniera di leone, che cadeva a coprire buona parte della groppa alle cavalcature. Dopo un ora circa di viaggio, si congedarono stringendoci amichevolmente la mano e ricevendo da noi i più vivi ringraziamenti. Lasciarono con noi una staffetta a cavallo, acciocchè, se mai fossimo assaliti, potesse questa rapidamente correre a Zaghà per soccorso.
Il giorno di questa mossa fu il 16 Aprile, e viaggiammo sette giorni di seguito, scorsi i quali ci trovammo in una grande foresta, ricca di colossali adansonie e d’alberi lunghissimi e sottili i cui rami attortigliandosi ad altri alberi, formavano una specie di tettoia continua, ch’era una magnifica veduta e serviva mirabilmente a proteggerci dai raggi del sole.
Osservammo, inoltrandoci, che la maggior parte di quegli alberi avevano i rami spezzati ed erano stati scortecciati di fresco, la qual cosa lasciava supporre che la foresta doveva essere stata visitata poco prima di noi.
Ci fermammo allora, scaricammo i camelli e ci diemmo a percorrere a piedi alcuni tratti, i più accessibili. Supponemmo che quei guasti dovevano essere stati praticati da elefanti, ed appunto in vari luoghi ne notammo gli escrementi ancora freschi, dal che arguimmo che una mandra dei medesimi doveva essere passata in quello stesso giorno.
Al di sopra delle nostre teste svolazzavano uccelli di rapina, ed altra specie innocua e di minore grandezza, il cui canto era sì flebile che assomigliava ad un lamento. La cantilena veniva di tratto in tratto sospesa, poi ripigliata, e finiva in una nota che andava insensibilmente mancando.
Il luogo non poteva essere più fantastico; ma non essendo compito nostro quello di perderci in islanci da romanzo, pensammo piuttosto a rifocillarci e a metterci in grado di proseguire il cammino.
Note
- ↑ Dura, (surgum vulgare) una specie di saggina che tien luogo del nostro frumento. Se ne fa la grossolana focaccia che è il pane quotidiano della famiglia.