La cassa riposta
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LA CASSA RIPOSTA
Assessore comunale da circa un anno, Nino Mèndola, proprio dal giorno che aveva assunto la carica, non stava piú bene. Soffriva di capogiri. Senza volerlo confessare sé stesso, temeva d’esser colpito da un giorno all’altro d’apoplessia: male, di cui erano morti tutti i suoi, immaturamente. Era perciò sempre di pessimo umore; e ne sapeva qualche cosa quel suo cavalluccio attaccato al biroccino.
Ma tutta quella giornata, in campagna, s’era sentito bene. Il moto, lo svago... E, per bravar la paura segreta, aveva deciso lí per li di fare quell’ispezione al cimitero, promessa ai colleghi della Giunta e rimandata per tanti giorni.
«Non bastano i vivi,» pensava, salendo al poggio, «dànno da fare anche i morti in questo porco paese. Ma già, sono sempre quelli, i vivi, rottorio! Sanno un corno i morti, se son guardati bene o male. Forse, non dico di no: pensare che da morti saremo trattati male, affidati alla custodia di Pàmpina, stolido e ubriacone, può far dispiacere... Basta; adesso vedrò.»
Tutte calunnie.
Come custode di cimitero, Nocio Pàmpina, detto Sacramento, era l’ideale. Già una larva, che lo portava via il fiato; e certi occhi chiari, spenti; una vocina di zanzara. Pareva proprio un morto uscito di sotterra per attendere, cosí come poteva, alle faccenduole di casa.
Che c’era da fare poi? Tutta gente dabbene, lí — ormai e tranquilla.
Le foglie, sí. Qualche foglia caduta dalle siepi ingombrava i vialetti. Qualche sterpo era cresciuto qua e là. E i passeri monellacci, ignorando che lo stil lapidario non vuole interpunzioni, avevano seminato con le loro cacatine tra le tante virtú di cui erano ricche le iscrizioni di quelle pietre tombali, troppe virgole forse e troppi punti ammirativi.
Piccolezze.
Se non che, entrando nel bugigattolo del custode a destra del cancello, il Mèndola restò:
— E quella lí?
Nocio Pàmpina, detto Sacramento, aprí le labbra squallide a un’ombra di sorriso e bisbiglio:
— Cassa da morto, Eccellenza.
Era difatti una bellissima cassa da morto. Lustra, di castagno, con borchie e dorature. Fatta proprio senza risparmio. Là, quasi in mezzo alla stanzetta.
— Grazie; la vedo, rispose il Mèndola. Dico, perché la tieni lí?
— È del cavalier Piccarone, Eccellenza.
— Piccarone? E perché? Non è mica morto!
— No no, Eccellenza! Non sia mai! disse Pàmpina. Ma Vossignoria saprà che il mese scorso gli morí la moglie, povero galantuomo.
— E con ciò?
— La accompagnò fino qua, a piedi; attempatello com’è. Sissignore. Poi mi chiamò, dice: «Senti, Sacramento. Non scappa un mese, avrai anche me». «Ma che dice Vossignoria!» gli risposi. Ma lui: «Sta’ zitto,» dice. «Senti. Questa cassa, figliuolo mio, mi costa più di vent’onze. Bella, la vedi. Per la sant’anima, capirai, non ho badato a spese. Ma ora la comparsa è fatta, dice. Che se ne fa piú la sant’anima di questa bella cassa sottoterra? Peccato sciuparla, dice. Facciamo cosí. Caliamo la sant’anima, dice, pulitamente con quella di zinco, che sta dentro; e questa me la riponi, servirà anche per me. Uno di questi giorni, sull’imbrunire, manderò a ritirarla.»
Il Mèndola non volle piú né sapere né veder altro. Non gli parve l’ora di giungere al paese per spargervi la nuova di quella cassa da morto, che Piccarone aveva fatto riporre per sé.
Era famoso in paese Gerolamo Piccarone, avvocato e, al tempo dei Borboni, cavaliere di San Gennaro, per la spilorceria e la furbizia. Mal pagatore, poi! Se ne raccontavano sul suo conto da far restare a bocca aperta. Ma questa — pensava il Mèndola, tempestando allegramente di frustate il po- vero cavalluccio questa le passava tutte; e vera, ohé, come la stessa verità! La aveva veduta lui, là, la cassa da morto, con gli occhi suoi.
Pregustava le risate che avrebbero accolto il suo racconto bisbigliato con la vocina di Pàmpina, e non avvertiva neppure alla nuvola di polvere e al fragore che il biroccino sollevava per la corsa fu- riosa del cavalluccio, quand’ecco: - Para! Para! - udí gridare a squarciagola dall’Osteria del Caccia- tore, che un tal Dolcemàscolo teneva li su lo stradone.
Due amici, Bartolo Gaglio e Gaspare Ficarra, cacciatori accaniti, seduti davanti all’osteria sotto la pergola, s’erano messi a gridare a quel modo, credendo che il cavalluccio avesse preso la mano al Mèndola.
- Ma che mano! Correvo...
- Ah, tu corri cosí? disse il Gaglio. - Hai qualche altro collo di ricambio a casa?
- Se sapeste, cari miei! - esclamò il Mèndola, smontando ilare e ansimante; e, per cominciare, narrò a que’ due amici la storia della cassa da morto.
Quelli finsero li per li di non volerci credere, ma per un modo di dimostrar la loro maraviglia. E allora il Mèndola a giurare che - parola d’onore - la aveva veduta lui, con gli occhi suoi, la cassa da morto, nel bugigattolo di Sacramento.
Gli altri due, a loro volta, presero a narrare di Piccarone altre prodezze già note. Mèndola voleva rimontar subito sul biroccino; ma quelli ave- vano già ordinato a Dolcemàscolo un bicchiere per l’amico assessore, e volevano che questi bevesse.
Dolcemàscolo però era rimasto lí, come un ceppo.
- Dolcemàscolo, ohé! gli gridò il Gaglio.
L’oste, col berretto di pelo a barca buttato a sghembo su un orecchio, senza giacca, con le ma- niche della camicia rimboccate su le braccia pelose, si riscosse sospirando:
- Mi perdonino, disse. Quaglio, sto qua- gliando propriamente, a sentire i loro discorsi. Giusto questa mattina il cane del cavalier Picca- rone, Turco, quella brutta bestiaccia che va e viene da sé dalle terre del Cannatello alla villetta quassú... ma sanno che m’ha fatto? Più di venti rocchi di salsiccia m’ha rubati, che tenevo li su lo sporto, che gli facciano veleno! Fortuna, dico, che ho due testimoni!
Il Mèndola, il Gaglio, il Ficarra scoppiarono a ridere. Il Mèndola disse:
- Te li sali, caro mio!
Dolcemàscolo alzò un pugno; schizzò fiamme da- gli occhi:
- Ah no, perdio! a me la salsiccia me la pa- gherà! Me la pagherà, me la pagherà, ribatté di fronte alle risate incredule e al negare ostinato dei tre avventori. Lor signori vedranno. Ho trovato la via. So di che pelame è!
E con un gesto furbesco, che gli era abituale, strizzò un occhio e con l’indice teso si tirò giú là palpebra dell’altro.
Che via avesse trovato, non volle dire; disse che aspettava dalla campagna i due contadini che era- no stati presenti, la mattina, al furto della salsic- cia, e con essi prima di sera si sarebbe recato alla villetta di Piccarone.
Il Mèndola rimontò sul biroccino, senza bere; Gaglio e Ficarra saldarono il conto e, dopo aver consigliato all’oste di piantare per il suo meglio quell’impresa di farsi pagare, andarono via.
A metter su quella villetta d’un sol piano, sul viale all’uscita del paese, Gerolamo Piccarone, av- vocato e cavaliere di San Gennaro al tempo di Re Bomba, s’era industriato per più di vent’anni, ed era fama non gli fosse costata neppure un cente- simo.
Le male lingue dicevano ch’era fatta di sasso- lini trovati per via e sospinti fin lí a uno a uno coi piedi dallo stesso Piccarone.
Il quale era pure un dottissimo giureconsulto, e uomo d’alta mente e di profondo spirito filosofico. Un suo libro su lo Gnosticismo, un altro su la Filo- sofia Cristiana erano stati anche tradotti in lingua tedesca, dicevano.
Ma era malva di tre cotte, Piccarone, cioè nemico acerrimo di ogni novità. Andava ancora vestito alla moda del ventuno; portava la barba a collana; tozzo, rude, insaccato nelle spalle, con le ciglia sem- pre aggrottate e gli occhi socchiusi, si grattava di continuo il mento e approvava i suoi segreti pen- sieri con frequenti grugniti.
- Uh... uh... uh... L’Italia!... hanno fatto l’Ita- lia... che bella cosa, uh, l’Italia... ponti e strade... uh... illuminazione... esercito e marina... uh... uh... uh... istruzione obbligatoria... e se voglio restar somaro? nossignorel istruzione obbligatoria... tasse! e Piccarone paga...
Pagava poco o nulla, veramente, a furia di sotti- lissimi cavilli, che stancavano ed esasperavano la pazienza piú esercitata. Concludeva sempre cosí:
- Che c’entro io? Le ferrovie? Non viaggio. L’illuminazione? Non esco di sera. Non pretendo nulla io; grazie; non voglio nulla. Un po’ d’aria soltanto, per respirare. L’avete fatta anche voi, l’aria? Debbo pagare anche l’aria che respiro?
S’era infatti appartato in quella sua villetta, riti- rato dalla professione, che pure fino a pochi anni addietro gli aveva dato lauti guadagni. Ne doveva aver messi da parte parecchi. A chi li avrebbe la- sciati, alla sua morte? Non aveva parenti, né pros- simi né lontani. E i biglietti di banca magari, sí, avrebbe potuto portarseli giú con sé, in quella bella cassa da morto che s’era fatta riporre. Ma la villetta? e il podere laggiú al Cannatello?
Quando Dolcemàscolo, in compagnia de’ due contadini, si fece innanzi al cancello, Turco, il ca- naccio di guardia, come se avesse compreso che l’oste veniva per lui, si fogò furibondo contro le sbarre. Il vecchio servo accorso non fu buono a trattenerlo e allontanarlo. Bisognò che Piccarone, il quale se ne stava a leggere nel chiosco in mezzo al giardinetto, lo chiamasse col fischio e lo tenesse poi agguantato per il collare, finché il servo non venne a incatenarlo.
Dolcemȧscolo, che la sapeva lunga, s’era vestito di domenica e, bello raso, tra quei due poveri con- tadini che ritornavano stanchi e cretosi dal lavoro, appariva piú del solito prosperoso e signorile, con un certo viso latte e rosa, ch’era una bellezza a vedere, e la simpatia di quel porretto peloso sulla guancia destra, presso la bocca, arricciolato.
Entrò nel chiosco esclamando, con finta ammi- razione:
- Gran bel cane! Gran bella bestia! Che guar- dia! Vale tant’oro quanto pesa.
Piccarone, con le ciglia aggrottate e gli occhi socchiusi, grugní piú volte, assentendo col capo a quegli elogi; poi disse:
- Che volete? Sedete.
E indicò gli sgabelletti di ferro, disposti giro giro nel chiosco.
Dolcemàscolo ne trasse uno avanti, presso la tavola, dicendo ai due contadini:
- Sedete là, voi. Vengo da Vossignoria, uomo di legge, per un parere.
Piccarone aprí gli occhi.
- Non faccio piú l’avvocato, caro mio, da tan- to tempo.
- Lo so, C s’affrettò a soggiungere Dolcemȧ- scolo. Vossignoria però è uomo di legge antico. E mio padre, sant’anima, mi diceva sempre: « Segui gli antichi, figlio mio! ». So poi quant’era coscien- zioso Vossignoria nella professione. Dei giovani avvocatucci d’oggi poco mi fido. Non voglio at-. taccar lite con nessuno, badi! Fossi matto... Sono venuto qua per un semplice parere, che Vossignoria solo mi può dare.
Piccarone richiuse gli occhi:
- Parla, t’ascolto.
- Vossignoria sa, - cominciò Dolcemàscolo. Ma Piccarone ebbe uno scatto e uno sbuffo:
- Uh, quante cose so io! Quante ne sai tu! So, so, sa... E vieni al caso, caro mio!
Dolcemàscolo rimase un po’ male; tuttavia sor- rise e ricominciò:
- Sissignore. Volevo dire che Vossignoria sa che ho sullo stradone una trattoria...
- Del Cacciatore, sí: ci sono passato tante volte.
- Andando al Cannatello, già. E avrà veduto allora certamente che su lo sporto, sotto la per- gola, tengo sempre esposta un po’ di roba: pane, frutta, qualche presciutto.
Piccarone accennò di sí col capo, poi aggiunse misteriosamente:
- Veduto e sentito anche, qualche volta.
- Sentito?
- Che sanno di rena, figliuolo. Capirai, la pol- vere dello stradone... Basta, vieni al caso.
- Ecco, sissignore,
- rispose Dolcemàscolo, ingollando. -Poniamo che io su lo sporto tenga esposta un po’ di... salsiccia, putacaso. Ora, Vos- signoria... forse questo... già!... stavo per dire di nuovo... ma è un mio vezzo... Vossignoria forse non lo sa, ma di questi giorni abbiamo il passo delle quaglie. Dunque, per lo stradone, cacciatori, cani, continuamente. Vengo, vengo al caso! Passa un cane, signor Cavaliere, spicca un salto e mi afferra la salsiccia dallo sporto.
- Un cane?
- Sissignore. Io mi precipito dietro, e con me questi due poveracci ch’erano entrati nella bot- tega per comperarsi un po’ di companatico prima di recarsi in campagna, al lavoro. È vero, sí o no? Corriamo tutti e tre insieme, appressó al cane; ma non riusciamo a raggiungerlo. Del resto, anche a raggiungerlo, Vossignoria mi dica che avrei po- tuto farmene più di quella salsiccia addentata e strascicata per tutto lo stradone... Inutile rac- cattarla! Ma io riconosco il cane; so a chi appar- tiene.
- U... un momento, - interruppe a questo punto Piccarone. Non c’era il padrone?
- Nossignore! - rispose subito Dolcemàscolo.
Tra quei cacciatori là non c’era. Si vede che il cane era scappato di casa. Bestie da fiuto, capirà, sentono la caccia, soffrono a star chiusi: scappano. Basta. So, come le ho detto, a chi appartiene il cane; lo sanno anche questi due amici miei, pre- senti al furto. Ora Vossignoria, uomo di legge, mi deve dire semplicemente se il padrone del cane è tenuto a risarcirmi del danno, ecco!
Piccarone non pose tempo a rispondere:
- Sicuro che è tenuto, figliuolo.
Dolcemàscolo balzò dalla gioja, ma subito si contenne; si volse a’ due contadini:
- Avete sentito? Il signor avvocato dice che il padrone del cane è tenuto a risarcirmi del danno.
- Tenutissimo, tenutissimo, - raffermò Pic- carone. T’avevano detto forse di no?
- Nossignore, rispose Dolcemàscolo gon- golante, giungendo le mani. Ma Vossignoria mi deve perdonare se, da povero ignorante come sono, ho fatto debolmente un giro cosí lungo per venirle a dire che Vossignoria deve pagarmi la salsiccia, perché il cane che me l’ha rubata è pro- prio il suo, Turco.
Piccarone stette un pezzo a guardare Dolcemȧ- scolo come allocchito; poi, tutt’a un tratto, abbas- sò gli occhi e si mise a leggere nel libraccio che te- neva aperto su la tavola.
I due contadini si guardarono negli occhi; Dol- cemàscolo alzò una mano per far loro cenno di non fiatare.
Piccarone, fingendo tuttavia di leggere, si grat- tò il mento con una mano, grugní, disse:
- Dunque Turco è stato?
- Glielo posso giurare, signor Cavaliere! - sclamò Dolcemàscolo, alzandosi in piedi e incro- ciando le mani sul petto per dar solennità al giu- ramento.
- E sei venuto qua, G riprese, cupo e calmo, Piccarone, - con due testimoni, eh?
- Nossignore! - negò subito Dolcemàscolo. - Per il caso che Vossignoria non avesse voluto cre- dere alle mie parole. - Ah, per questo? C borbottò Piccarone. Ma io ti credo, caro mio. Siedi. Sei un gran dab- benuomo. Ti credo e ti pago. Godo fama di mal pagatore, eh?
- Chi lo dice, signor Cavaliere?
- Tutti lo dicono! E lo credi anche tu, va’ là. Due... uh... due testimoni...
- Per la verità, tanto per lei, quanto per me!
A Bravo, sí: tanto per me, quanto
- per te; dici bene. Le tasse ingiuste, caro mio, non voglio pa- gare; ma quel ch’è giusto, sí, lo pago volentieri; l’ho sempre pagato. Turco t’ha rubato la salsic- cia? Dimmi quant’è e te la pago.
Dolcemàscolo, venuto con la prevenzione di do- ver combattere chi sa che battaglia contro i ca- villi e le insidie di quel vecchio rospo, di fronte a tanta remissione, s’abbiosciò a un tratto, mor- tificato.
- Una sciocchezza, signor Cavaliere, disse.
Saranno stati una ventina di rocchi, poco piú poco meno. Non mette quasi conto di parlarne.
- No no - rispose Piccarone, fermo. - Dimmi quant’è: te la devo e te la voglio pagare. Subito, figliuolo mio! Tu lavori; hai patito un danno; devi essere risarcito. Quant’è?
Dolcemàscolo si strinse nelle spalle, sorrise e disse:
Copie Venti rocchi di quei grossi... due chili... a una lira e venti il chilo...
- Cosí a poco la vendi? - domandò Piccarone.
- Capirà rispose Dolcemàscolo, tutto miele.
Vossignoria non l’ha mangiata. Gliela faccio pagare (non vorrei...) gliela faccio pagare per quanto costa a me.
- Nient’affatto! negò Piccarone. Se non l’ho mangiata io, l’ha mangiata il mio cane. Dun- que, si dice... a occhio, due chili. Va bene a due lire il chilo?
- Faccia come crede.
- Quattro lire. Benone. Ora dimmi un po’, figliuolo mio: venticinque meno quattro, quanto fanno? Ventuno, se non m’inganno. Bene. Mi dài ventuna lira e non ne parliamo più.
Dolcemàscolo, li per lí, credette d’aver inteso male.
- Come dice?
- Ventuna lira, ripeté placido Piccarone. - Qua ci sono due testimoni, per la verità, tanto per me, quanto per te, va bene? Tu sei venuto da me per un parere. Ora, io, i pareri, figliuolo mio, i consulti legali, li faccio pagare venticinque lire. Tariffa. Quattro te ne devo di salsicce; dammene ventuna, e non se ne parli più.
Dolcemàscolo lo guardò in faccia, perplesso, se ridere o piangere, non volendo credere che dicesse sul serio e parendogli tuttavia che non scherzasse.
- lo a... a lei? balbettò.
- Mi par chiaro, figliuolo, spiegò Piccarone. Tu fai l’oste; io, debolmente, l’avvocato. Ora, come io non nego il tuo diritto al risarcimento, cosí tu non negherai il mio per i lumi che m’hai chiesti e che t’ho dati. Adesso sai che se un cane ti ruba la salsiccia, il padrone del cane è tenuto a fartene indenne. Lo sapevi prima? No! Le cogni- zioni si pagano, caro mio. Ho penato e speso tanto io per apprenderle! Credi che ti faccia celia?
- Ma sissignore! - confessò Dolcemàscolo con le lagrime in pelle, aprendo le braccia. - Io le abbono le salsicce, signor Cavaliere: sono un po- vero ignorante; mi perdoni, e non ne parliamo piú davvero.
- Ah no, ah no, caro mio! esclamò Picca- rone. Non abbono niente io. Il diritto è diritto, tanto per te quanto per me. Pago io, pago, voglio pagare. Pagare ed esser pagato. Stavo qua a stu- diare, come vedi; m’hai fatto perdere un’ora di tempo. Ventuna lira. Tariffa. Se non ne sei ben persuaso, da’ ascolto a me, caro: va’ da un altro avvocato a domandare se mi spetti o no questo compenso. Ti do tre giorni. Se in capo al terzo giorno non mi avrai pagato, sta’ pur sicuro, figliuolo mio, che ti cito.
- Ma signor Cavaliere! scongiurò di nuovo Dolcemàscolo a mani giunte, alterandosi però in volto improvvisamente.
Piccarone alzò il mento, alzò le mani:
- Non sento ragioni. Ti cito!
Dolcemàscolo allora perdette il lume degli occhi. L’ira lo acciuffò. Che era il danno? Niente. Alle beffe pensò, che avrebbe avute, che già indovinava guardando le facce allegre di quei due contadini: lui che si credeva tanto scaltro, lui che s’era im- pegnato di spuntarla e già aveva quasi toccato con mano la vittoria. Tale impeto gli diede il vedersi preso, ora, quando meno se l’aspettava, nella sua stessa ragna, che si trovò d’un tratto mutato in bestia feroce.
- Ah, perciò, disse, accostandoglisi, con le mani levate e contratte, perciò è cosí ladro il suo cane? L’ha addottorato leil
Piccarone si levò in piedi, torbido, levò un braccio:
- Esci fuori! Risponderai anche d’ingiurie a un galantuomo che...
- Galantuomo? ruggi Dolcemàscolo, affer- randogli quel braccio e scotendoglielo furiosa- mente.
I due contadini si precipitarono per trattenerlo; ma tutt’a un tratto, che è che non è, il vecchio si abbandonò appeso inerte per quel braccio alle mani violente di Dolcemàscolo. E come questi, allibito, le aprí, cascò prima a sedere su lo sgabello, traboccò poi da un lato e rotolò per terra già tutto in un fascio.
Di fronte al terrore dei due contadini, Dolcemà- scolo contrasse il volto, come per uno spasimo di riso. O che? Non lo aveva nemmeno toccato.
Quelli si chinarono sul giacente, gli mossero un braccio.
- Scappate... scappate...
Dolcemàsco li guardò entrambi, come inebetito. Scappare?
S’intese, in quel punto, cigolare una banda del cancello, e si vide la cassa da morto, che il vecchio aveva fatto riporre per sé, entrare in trionfo su le spalle di due portantini ansanti, quasi chiamati lí per lí, al bisogno.
A tale apparizione restarono tutti come basiti.
Dolcemàscolo non pensò che Nocio Pàmpina, detto Sacramento, dopo la visita e l’osservazione dell’assessore, si fosse affrettato a mettersi in re- gola, rimandando a destino quella cassa; ma si ricordò in un lampo di ciò che il Mèndola aveva detto la mattina, là, nella trattoria; e, all’improv- viso, in quella cassa vuota che aspettava e soprav- veniva ora al punto giusto come chiamata miste- riosamente, vide il destino, il destino che s’era ser- vito di lui, della sua mano.
S’afferrò la testa e si mise a gridare:
- Eccola! Eccola! Questa lo chiamava! Siate- mi tutti testimoni che non l’ho nemmeno toccato! Questa lo chiamava! L’aveva fatta metter da par- te per sé! Ed eccola qua che viene, perché doveva morire!
E prendendo per le braccia i due portantini per scuoterli dallo stupore:
- Non è vero? Non è vero? Ditelo voi!
Ma non erano per nulla stupiti, quei due por- tantini. Da che avevano portata appunto quella cassa da morto, era per loro la cosa più naturale del mondo che trovassero morto l’avvocato Pic- carone. Si strinsero nelle spalle, e:
- Ma sí, dissero, eccoci qua.