Libro nono

../Libro ottavo ../Libro decimo IncludiIntestazione 29 maggio 2008 75% Poemi

Libro ottavo Libro decimo


MORTE DI IPPOMEDONTE E DI PARTENOPEO


 
L’atroce rabbia di Tideo crudele
inasprì i Tirii, e mitigò ne’ Greci
il dolor di sua morte, e l’atto indegno
tutti biasmâr, che di vendetta ruppe
5ogni legge, ogni dritto. E tu de’ Numi,
Marte, il più fiero, ancor che la gran pugna,
tua mercè, fosse nel maggior calore,
fam’è tra noi che non il volto solo
torcesti altrove; ma i destrieri e ’l carro.
10Dunque la gioventù da Cadmo scesa
non altrimenti a vendicar si muove
di Menalippo la spietata morte,
l’esequie profanate e ’l fiero scempio,
che se l’ossa e le ceneri degli avi
15fossero sparse al vento, e l’urne aperte
e date in preda ad esecrandi mostri.
Il Re vie più gli accende: e,- Chi pietoso
(grida) fia più co’ Greci? E chi da loro
spera nulla d’umano? O non più inteso
20e ferino furore! han dunque in noi
tutte vuotate le faretre e gli archi,
che d’uopo sia che colle adunche zanne
squarcino a brano a bran le membra tronche?
Con tigri ircane e co’ leon feroci
25non vi sembra pugnar di Libia adusta?
Ed or colui sen giace (o della morte
nobil conforto!) e con i denti afferra
il teschio ostile, e le dure ossa e ’l sangue
rode e sugge l’infame, e muor contento.
30Adopriamo noi pure il ferro e ’l fuoco,
che basta lor la ferità natia
e gli odii soli senz’usare altr’armi.
Ma sieno pur crudeli, e questa luce
godano lieti; pur che ’l sommo Giove
35rivolga in lor gli occhi dall’alto e ’l veggia.
E si stupiscon poi che s’apra il suolo,
e fugga lor di sotto a’ piedi? Io sento
maraviglia maggior che anche li porti
il lor terren natio. - Così ragiona,
40e fremendo e scorrendo innanzi spinge
le schiere. Tutti un sol furore infiamma
a rapir di Tideo le spoglie e ’l corpo.
        Così veggiam stuolo d’ingordi augelli
velar co’ vanni il ciel, qualor da lungi
45senton l’aria spirar corrotta e guasta
da’ cadaveri putridi e insepolti:
vengon gracchiando, e l’etere rimbomba,
e gli augelli minor cedono il campo.
        La Fama intanto, più veloce e pronta
50nelle infauste novelle, era trascorsa
di schiera in schiera per lo campo argivo,
e giunta a Polinice, a cui maggiore
era per recar doglia. Al duro avviso
inorridissi il giovane, e su gli occhi,
55già pronti a uscir, gli si arrestaro i pianti.
Ei sta in dubbio se ’l creda, e di Tideo
la virtù conosciuta alla sua morte
il prestar fede persuade e vieta.
Poichè certo ne fu, le luci e ’l senso
60gli si adombraro, e ristagnato il sangue,
languîr le membra e l’armi, e già di pianto
asperso è ’l lucid’elmo, ed a’ suoi piedi
lo scudo cade. Con tremanti passi
se ne va mesto strascinando l’asta,
65qual se di mille piaghe il sen trafitto
ed ogni membro lacerato avesse.
Giunge ove Tideo giace intorno cinto
da’ fidi amici, che ’l mostrâr piangenti
a lui che ’l chiede. Allor l’armi, che appena
70seco avea tratte, lungi scaglia, e nudo
sul cadavere esangue s’abbandona,
e a le lagrime il fren scioglie e a la voce:
        - Dunque, o caro Tideo, delle mie guerre
unica speme, tal mercè ti rendo?
75Son questi i premii a tua virtù dovuti?
Che tu, me salvo, sul terreno infame
di Cadmo giaccia? Or sì che vinto io sono:
or sempr’esule andrò, or che m’è tolto
un fratel d’Eteócle assai migliore.
80Io più l’antiche sorti, e più non chieggio
la vïolata mia corona e ’l regno.
Qual cosa esser mai può che a tanto prezzo
lieta mi sembri? O qual gradito scettro,
che non mi porga la tua forte mano?
85Itene pure, amici, e me qui solo
al reo fratel lasciate. A che più giova
l’armi tentare, e invan perder tant’alme?
che più dar mi potete? Ecco ch’io stesso
Tideo condussi a morte: or con qual morte
90purgar giammai potrò tanto delitto?
Oh suocero! Oh Pelasghi! Oh della prima
notte risse gradite e pugne alterne!
Oh brevi sdegni d’un sì lungo amore
forieri e pegno! Ah perchè mai ’l tuo ferro
95(e ben tu lo potevi) in su le soglie
non mi svenò d’Adrasto, o gran Tideo?
Anzi per me, qual se i tuoi propri onori
e ’l tuo regno chiedessi, a’ tetti infidi,
onde tu sol tornar potevi illeso,
100del reo fratello volontario andasti.
Taccia il pio Telamon, taccia Teseo
l’antica fama. Ed or ohimè qual giaci!
Ahi quali prima ammirerò ferite?
E qual è il tuo, qual l’inimico sangue?
105Qual folta schiera di guerrieri eletti
fu che t’oppresse? Il padre, il padre stesso
invidïando tua virtù, la morte
ti diede: Marte fu quel che t’uccise. -
Così dice, e co’ pianti il morto viso
110di sozzo sangue deformato e lordo
lava, e sul petto gli compon le braccia.
Indi ripiglia: - Adunque tu cotanto
i miei nemici odiasti, ed io ancor vivo? -
E di già tratto il ferro, in sè crudele
115sel rivolgeva al sen per darsi morte;
ma il ritengon gli amici, e lo riprende
Adrasto, e delle guerre i vari casi
a lui narrando e del destin la forza,
l’accheta e lo consola, e a poco a poco
120dal corpo amato, onde s’avviva il duolo
e in lui s’accresce di morir la brama,
lungi lo guida, e destramente il ferro
tra’ discorsi di man gli toglie e il cela.
        Ei parte, come toro afflitto e lasso,
125cui venne meno il suo fedel compagno
e lasciò il solco non finito ancora:
mezzo il giogo sostien sopra il suo collo,
mezzo ne regge il villanel piangente.
        Ed ecco d’Eteócle i detti e l’armi
130seguendo, vien di giovani feroci
eletto stuolo, cui Bellona e Marte
non sprezzerieno in guerra. Ippomedonte
fermo su’ piedi, collo scudo al petto
abbassa l’asta, e a quanti son si oppone.
135Qual rupe incontro a’ flutti, e che del cielo
l’ire non teme, e ’l mar respinge e frange,
sta immota a le minacce, e la paventa
l’Oceàn procelloso, e d’alto mare
la conoscon da lungi i naviganti.
140 Vien Eteòcle, e l’asta scuote e grida:
- E non vi vergognate in faccia a’ Numi,
del cielo a vista e della pura luce
difender queste scelerate membra,
che fur della milizia obbrobrio eterno?
145O nobile sudor, rara virtude
per dar tomba ad una fera! Adunque in Argo
porterassi costui con mesta pompa,
e del rio sangue lorderà il ferétro?
Si tralasci tal cura: augelli e mostri
150nol toccheranno, e dello stesso rogo
(se gliel darem) l’abborriran le fiamme. -
Tacque, e scagliò sì smisurato dardo,
che ritardato ancor dal primo cerchio
del forte scudo, penetrò al secondo.
155Indi l’aste vibrâr Ferete e Lica;
ma il colpo di Ferete indarno cadde,
e con sorte miglior l’asta di Lica
lambìgli l’elmo orribile chiomato.
Svelte dal ferro le superbe piume
160volaron lungi, e inonorata apparve
e de’ suoi pregi la celata priva.
Non si arretra il guerrier, nè contro l’armi
provocato si lancia; in giro volge
su l’orme istesse la terribil fronte,
165e a’ nemici resiste, e ’l suo valore
tien che lungi non scorra. In ogni moto
guarda l’amato corpo, e lo difende,
e al cadavere intorno si raggira.
        Non con tanto valor, con tanta cura
170l’ardita vacca il suo vitel difende
dal lupo assalitor, ruotando intorno
le dubbïose corna; essa non teme,
ma del sesso scordata, e freme e sbuffa
e i forti tori generosa imita.
175 Ma pure al fine a Ippomedonte è dato,
poichè cessaro le saette ostili,
di rilanciar suoi dardi e far vendetta.
Già il sicïonio Alcone e già i veloci
Pisani erano accorsi in sua difesa,
180e fatto gruppo di guerrieri e d’aste,
affidato in costor, trave lernea
ei scaglia, e quella va non men veloce
di cretica saetta, ed a Polite
il petto passa, e a Mopso a lui congiunto
185fora e varca lo scudo; indi Cidone
di Focida, e Falante di Tanagro
ed Erice trafigge: Erice addietro
s’era rivolto, e mentre sta sicuro
e la morte non teme e chiede l’aste,
190nella nuca lo coglie, e i denti spezza,
e per la bocca, u’ non entrò, sen esce.
Leuconteo intanto dietro l’armi ascoso
e dietro i combattenti, avea di furto
stesa la mano, e per lo crin prendendo
195Tideo, seco il traeva. Ippomedonte,
quantunque cinto di minacce e d’armi,
il vide, e a terra con un colpo solo
gli fa cader la temeraria mano,
e grida: - Questa a te Tideo rapisce,
200Tideo stesso l’ha tronca, e quindi apprendi
de’ magnanimi eroi, benchè consunti,
a rispettare i fati, e le grand’ombre
in avvenire a non tentare impara. -
        Tre volte i Tirii avean l’orribil corpo
205rapito, ed altrettante i Greci audaci
loro l’avean ritolto. In cotal guisa
sta del siculo mar fra le procelle
nave agitata, e del nocchiero in onta
a gonfie vele e con in poppa il vento
210s’aggira, e torna ne’ medesmi flutti.
        Nè di Sidonia avrian tutte le schiere
respinto Ippomedonte; nè di loco
smosso l’avrian le macchine murali,
ed a le torri eccelse anche tremendi
215nel forte scudo foran vani e cassi
caduti gli urti, e ritornati indietro:
ma la Furia crudel, che ha fermo in mente
di Plutone il comando e di Tideo
le colpe in sè rivolge, in mezzo al campo
220ingannevol si mostra e in finto aspetto.
La sentiron le schiere, e un sudor freddo
scorse per l’ossa a gli uomini e a’ destrieri,
ancor ch’ella d’Alì prendesse il volto,
e il ceffo suo coprisse, nascondendo
225le sferze ed i flagelli: in cotal forma
vestita d’armi, e in placido sembiante,
con dolce voce, a Ippomedonte a canto
fermossi, e pur mentr’ella parla, ei teme,
e del nuovo timore ha maraviglia;
230ed essa allor piangendo: - Ed a che invano,
generoso guerriero, adopri l’armi
a difender i morti? Adunque solo
degl’insepolti corpi e delle tombe
avrem noi cura? Ma si mena intanto
235da l’altra parte prigioniero Adrasto,
e pur te solo ei chiama, e colla mano
e colla voce il tuo soccorso implora.
Ahi quale il vidi sdrucciolar nel sangue
privo di serto la canuta chioma!
240Nè quinci è lungi. In quella parte volgi
gli occhi, ove s’alza un turbine di polve,
u’ più folto è lo stuol. - Fra due timori
sta il dubbio cavalier mesto e sospeso;
ma la Furia lo preme: - A che più tardi?
245Chè non andiamo? Queste morte spoglie
ti ritengono forse, e non ti cale
di chi ancor vive? - Al fin vincer si lascia
Ippomedonte, e a’ forti suoi compagni
il corpo raccomanda e le sue pugne.
250Parte, e abbandona il suo fedele amico:
pur indietro si volge, e attento ascolta
pronto a tornar, se a sorte altri ’l richiami.
Del finto Alì l’orme seguendo intanto
di qua, di là per travïate strade
255si aggira indarno: fin che l’empio mostro
gettò lo scudo e sparve, e le ceraste
spezzaron l’elmo, e sibilando usciro.
Sciolta l’infernal nube, egli rimira
starsi sul carro suo sicuro Adrasto,
260e intorno a lui le guardie sue tranquille.
        Ma i Tirii intanto han preso il corpo, e lungi
il palesâr colle festive voci;
e a lui ferîr gli orecchi, e di segreta
doglia strinsero il core e gli urli e i gridi
265de’ vincitor superbi. O del destino
tiranna forza! Ecco Tideo si tragge
per l’ostil campo: quel Tideo che dianzi,
quando i Tirii incalzava, o sul destriero
o pedon combattesse, a lui davanti
270s’aprian di qua, di là tutte le schiere.
Non stan l’armi in riposo, e non le destre;
nè li ritien, ora che ’l ponno impuni,
da l’oltraggiar le già temute membra
quella ferocità che pur conserva
275nel terribil sembiante, ancor ch’estinto.
Una sol brama i vili e i forti accende
nobilitar le mani, e i dardi tinti
serbar nel costui sangue, ed in trionfo
mostrarli poscia alle consorti e a’ figli.
280 Così terror de’ mauritani campi
leon feroce, per cui stieron chiuse
le gregge, e in armi i buon custodi e desti;
se cade al fine da’ pastori oppresso,
il prato se ne allegra, e d’ogni parte
285con liete grida accorrono i bifolchi,
e gli strappan le giubbe, e l’ampia gola
spalancan, rammentando i propri danni.
Ei su l’ovile o da una pianta pende,
trionfo e gloria dell’antico bosco.
290 Ma il fiero Ippomedonte, ancor che vano
vegga il soccorso, e per la tolta spoglia
tarda la pugna, pur ruotando il ferro
irrevocabilmente il passo avanza;
nè l’inimico da l’amico scerne
295se lo ritarda; ma la fresca strage
lubrico fa il terreno, e i semivivi
e i carri al suolo rovesciati e infranti
gl’impediscono il passo, e ’l fianco aperto
da lo stral d’Eteòcle (o della pugna
300nel calor non sentillo, o di vendetta
per troppo amor dissimulò la piaga).
Vede Opleo al fin, che fu nelle battaglie
al gran Tideo compagno, ed or ne porta
inutilmente l’armi, e per lo crine
305tiene il destrier del cavaliero estinto:
il buon destrier, che del signore amato
il caso ignora, e co’ nitriti il chiama,
e si duol che di sè lo lasci vuoto
e che più goda di pugnare a piedi.
310Ippomedonte (ancor che il nuovo peso
portar ricusi su l’altero dorso,
siccome avvezzo a quella sola mano
che lo domò nella primiera etade)
il prende, lo corregge e gli flavella:
315- Infelice corsier, perchè ripugni
al nuovo impero? Il dolce peso amato
del tuo primiero eroe più non avrai,
tu più non pascerai d’Etolia i campi,
e più non scuoterai le altere chiome
320nell’acque d’Acheloo; quel che ci resta
eseguiscasi almen: le care spoglie
vien meco a vendicare, o pur mi segui,
perchè tu ancor l’ombra raminga errante
prigionier non offenda, e dopo lui
325altro superbo cavalier non porti. -
Parve ch’egl’intendesse, e d’ira acceso
si mosse al corso, e ’l cavalier sostenne,
meno sdegnando un condottier simíle.
        Tal se da l’Ossa a precipizio cala
330un biforme Centauro a l’ime valli;
temono i boschi l’uom, la belva i campi.
Fuggono stretti insieme ed anelanti
spaventati i Tebani. Ei sta lor sopra,
ed improvviso i capi tronca, e a tergo
335lascia i tronchi cadaveri cadenti.
        Eran giunti a l’Ismeno, oltre l’usato
(funesto augurio!) per gran mole d’acque
gonfio e spumante. Ivi pigliâr respiro
per breve tempo i miseri Tebani,
340e timorosi ivi fermâr la fuga.
Stupì l’onda non usa a le battaglie
in mirar tante schiere, e ripercossa
tutta s’accese di tant’armi a’ lampi.
Al fin cacciati dal timor, ne’ gorghi
345si lanciarono a gara, e dal gran peso
l’argine rotto, un turbine di polve
involò a gli occhi la contraria sponda.
Ma con salto maggior ne’ flutti ostili,
così com’era, Ippomedonte allora
350balzò (nè già ritenne il fren, chè troppo
avria tardato), e a l’atterrite turbe
terribil sopraggiunse, avendo prima
i dardi appesi d’un gran pioppo antico
al verde tronco, e a quel lasciati in cura.
355Trepidi allora i miseri Tebani
al flutto rapitor cedono l’armi.
Molti vi fur che pria l’elmo deposto,
per quanto il fiato ritener potero,
stetter sott’acqua infamemente ascosi;
360altri il fiume passar tentaro a nuoto;
ma gl’impediscon l’armi, e lor dà impaccio
il cinto al fianco e la corazza al petto.
        Qual si desta terror ne’ pesci allora
che per le vie del mar, sotto dell’onde,
365il fallace delfin stare a la preda
mirano inteso; la squammosa turba
al fondo fugge, e per timor s’unisce
nell’alghe verdi, e vi si addensa e asconde;
e non ardisce uscirne, in fin che sorto
370nol veggion sopra i flutti, e colle navi
da lungi viste gareggiar nel nuoto.
Tale il guerrier caccia i Tebani, e in mezzo
del fiume alto sostiene il freno, e l’armi
regge, e sostenta il suo destrier su’ piedi
375di remi invece: la ferrata zampa,
avvezza al suolo, ondeggia, e al fiume in fondo
cerca indarno toccar l’usata arena.
Iön da Cromi è ucciso; uccide Cromi
Antifo; Antifo Ipseo: quindi del pari
380Astiage a morte manda, e seco Lino,
che già dal fiume uscia, ma vieta il Fato
e la Parca crudel ch’in terra ei muoia.
Preme i Tebani Ippomedonte, e i Greci
turba figlio d’Asopo il grand’Ipseo.
385Ambi teme l’Ismeno, ed ambi i flutti
macchian dell’ostil sangue, e ad ambi il Fato
nega l’uscir dal profanato fiume.
E già su l’onde volteggiando vanno
membra e capi recisi, e spesso a’ busti
390riporta il flutto le già tronche destre.
Si vedon galleggiare e dardi e scudi
e gli archi lievi, ed il calare al fondo
tolgon le piume eccelse a gli elmi vuoti.
Vanno intorno a fior d’acqua armi vaganti,
395e i miseri guerrier giacciono al fondo:
ivi lottando stan coll’empia morte
i corpi offesi, e l’anime spiranti
il fiume incontra, e le respinge indietro.
Da la corrente in giù rapito, aveva
400Agrio fanciul della vicina sponda
afferrata una pianta: a lui da tergo
Meneceo sopraggiunge, e da le spalle
gli recide le braccia. Egli l’impresa
imperfetta abbandona, e in giù cadendo
405mira le braccia sue pender dal tronco.
L’asta d’Ipseo d’immensa piaga uccide
Sago, e al fondo lo caccia, e sol di lui
resta l’orma sanguigna in cima a l’onde.
Per dar soccorso al suo fratel discese
410Agenor da la sponda, ed afferrollo,
misero! chè il ferito a lui le braccia
al collo stende, e col suo peso il grava.
Potea Agenor da gl’importuni amplessi
sciogliersi, e uscir dal periglioso guado;
415ma arrossì di tornar senza il fratello.
Alza Calete di ferire in atto
minaccevole il braccio. Il rio crudele
ne’ girevoli gorghi ecco l’involge:
già la faccia, già il crin, la man si cela:
420ultimo il ferro fu che si sommerse.
In varie guise una sol morte affligge
i miseri. Ad Argite il tergo passa
de’ Micalesi un’asta: ei si rivolta,
e cerca il feritor; ma non appare.
425Il fiume stesso col veloce corso
portò quell’asta micidial sull’onde,
ch’a ber sen gì dell’infelice il sangue.
Ma l’etolo destrier riman ferito
nella spalla: a l’ambascia, al vïolento
430dolor di morte su due piedi s’alza,
e sospeso così l’aria flagella
colle ferrate zampe, e versa il sangue.
Già non paventa i procellosi gorghi
il cavalier; ma del caval pietade
435sente, e di propria man l’asta ne svelle
dolente, e lascia in libertade il freno;
indi sbalza di sella, e più sicuro
e di mano e di piè pugna di nuovo,
e Nomio vile e Mimanto feroce,
440e Antedonio Liceo, Lica di Tisbe,
l’un dopo l’altro uccide, ed il minore
de’ due figli di Tespio. A Panemone,
che chiede anch’ei la morte, insulta: e, - Vivi
(dice) e ritorna alla profana Tebe
445solo senza il fratel, che non sarai
più dolce inganno a’ genitori afflitti:
sien grazie a’ Dei, che nel rapace fiume
Bellona mi guidò con man sanguigna,
u’ da l’onda natia tratti n’andrete
450timidi, in pasto de’ marini mostri;
nè l’ombra ignuda di Tideo insepolto
a’ vostri fuochi striderà d’intorno:
ei giace in terra, e al suo principio torna. -
Così gl’incalza, e con i detti acerbi
455inaspra le ferite, ed or col brando
infuria, or scaglia li nuotanti dardi.
Terone amico della casta Dea,
e Gía di ville abitator; Ergino
per li flutti vagante, Erse chiomato
460a morte manda, indi Cretea v’aggiunge
sprezzatore del mare, e che sovente
lo scoglio Cafareo su picciol legno
e l’euboiche procelle ardito vinse.
Ma che non puote il Fato? Il sen trafitto
465dal ferro micidial naufrago cade,
ed oh in qual flutto! della doric’asta
tu pur, Farsalo fosti al primo colpo
da l’alto carro rovesciato, in cui,
a soccorso de’ tuoi, varcavi il fiume,
470e rimasti i destrier senza governo,
da’ vortici rapiti, insiem congiunti,
la funesta unïone ambi sommerse.
        Ma quanta ebber fatica i flutti insani
ad atterrar Ippomedonte, e quale
475l’Ismeno ebbe cagion di prender l’armi,
fate a me noto, alme Castalie Dee.
Vostr’opra è il rïandar gli scorsi tempi,
e da l’oscuro oblio sottrar la fama.
        Godea di guerreggiar per le materne
480onde il giovin Creneo, d’un Fauno nato
e d’una Ninfa dell’Ismeno figlia.
Egli aprì gli occhi al giorno in queste ripe:
a lui fur patria il fiume e cuna l’alghe.
Ei dunque non credea ch’entro quell’acque
485ragion avesser le crudeli Parche,
e lieto gía da l’una a l’altra sponda,
passando l’avo lusinghiero, e l’onda,
o ne seguisse il corso, o pur col nuoto
obliquo la fendesse, alto il sostenta;
490e s’a ritroso va, non lo ritarda,
ma lo seconda, e seco torna indietro.
Non più placido il mar bagna co’ flutti
dell’Antedonio Glauco il ventre e i fianchi;
nè più legger su la marina estiva
495Triton galleggia; nè più pronto torna
fra’ dolci amplessi della cara madre
Palemone, affrettando il suo delfino,
che troppo lento su le spalle il porta.
Ben l’adornano l’armi, e per molt’oro
500fulgido e insigne il grave scudo porta,
in cui sta sculta dell’aonia gente
l’origin prima: ne’ sidonii flutti
del toro mansueto il dorso preme
la fanciulla di Tiro, e già sicura
505fatta del mar, non più le corna afferra
colle tenere mani, e lussureggia
l’onda baciando a lei le molli piante.
Sembra veracemente entro lo scudo
nuotare il divin toro e fender l’acque;
510e l’acque sono tanto al ver simíli,
che acquistan fede ed han di mar sembianza.
Quindi Crenèo fatto più audace, sfida
con orgogliosi detti Ippomedonte:
        - Questa, Lerna non è d’atro veleno
515infetta e tinta, nè l’erculee serpi
vengono a dissetarsi entro quest’onde.
È sacro il fiume, è sacro, e ’l proverai
tu, che ’l profani e sanguinoso scorri
per l’acque ultrici de’ superni Dei. -
520 Quel non risponde, e s’avvicina: opponsi
il fiume a lui con maggior forza d’acque,
e gli tarda la man, ma non in guisa
ch’essa il colpo non vibri, e nel più interno
non giunga a penetrare u’ l’alma ha sede.
525Inorridissi il fiume, e voi piangeste,
de l’una e l’altra sponda o afflitte selve,
e d’ululati rimbombâr le ripe.
Egli morendo profferì l’estremo
suono, e chiamò la madre. I flutti intanto
530gli passâr sopra e soffocâr la voce;
ma la madre infelice, intorno cinta
da le cerulee sue meste sorelle,
d’improvviso dolore il cor trafitta,
lascia le grotte cristalline, e i crini
535sparsi e confusi, e percuotendo il petto
e lacerando il volto e ’l verde crine,
accorre furibonda, e poi che fuori
uscì da l’acque, con tremante voce,
        - Creneo, o Creneo - ripete, e indarno il chiama.
540Ma ben lo scudo galleggiar su l’onde
ne vede, a lei troppo sicuro segno
di sue sciagure. Egli ben lungi giace,
ove l’Ismeno con il mar si mesce.
        Così Alcïone desolata geme,
545qualora vede per lo mar vagante
il caro nido co’ suoi figli, e vede
ch’Austro piovoso ognor l’urta e l’incalza,
e finalmente dentro il mar gli asconde:
ella al fondo si cala, e sotto i flutti
550ricerca i figli, ovunque l’onda splende,
e in ricercarli si lamenta e piagne.
Tal la madre dolente si querela,
nè però si ritiene; a’ dardi e a l’aste
intrepida va incontro, e colla mano
555gli elmi ricerca, e i tronchi busti esplora;
ma respinta dal mar, ne’ flutti amari
gli è tolto entrar, fin che a pietà commosse
le Ninfe di Nereo nelle sue braccia
meste portaro il già rapito figlio;
560ed essa allor, come s’ei fosse vivo,
al sen lo stringe, e sel riporta indietro,
e sulle sponde, qual su letto, il posa:
indi col molle crin l’umido volto
gli asciuga e terge, e singhiozzando esclama:
565 - Sì fiero dono i Semidei parenti
e l’avo tuo immortal ti diero, o figlio?
Così tu regni nel materno fiume?
Più mite a te fu la straniera terra
e discorde da noi: più miti l’onde
570del mar, che te fino a l’estrema foce
portâr del fiume ed aspettâr la madre.
Ahi questo è dunque il volto a me simíle?
Questo del torvo genitore il guardo?
Son questi i crini del grand’avo ondoso?
575Tu di quest’acque e delle selve un tempo
gloria fosti e decoro; io delle Ninfe,
mentre vivesti, fui Regina e Dea.
Or dove andrà l’ambizïoso e folto
stuolo che stava alle mie porte intorno?
580E di servirti le Napee bramose?
Ed io, che teco dentro il mar profondo
meglio poteva rimaner estinta,
con infelici amplessi, or ti riporto
non a me, ma a la tomba; e tu, crudele
585padre, non hai rossor di tanta strage,
e pietà non ne senti? E qual t’asconde
nell’imo centro torbida palude,
ove non giunga a le tue sorde orecchie
del nipote la morte ed il mio pianto?
590Ecco ne’ gorghi tuoi va furibondo
Ippomedonte, e omai di te maggiore
nel tuo letto trionfa, e l’acque e i lidi
n’hanno spavento, e le nostr’onde tinte
sono per lui di sangue; e tu codardo
595non ricusi servire a’ fieri Greci?
A’ roghi almeno, ed a l’esequie estreme
vieni, o crudel, de’ tuoi: non sarà solo
il tuo nipote, che arderan le fiamme. -
E qui rinforza il pianto e squarcia il seno,
600e l’altre Ninfe a’ pianti suoi fann’eco.
        Così dell’Istmo in su l’estrema spiaggia
(s’ha fede il ver), non ancor fatta Dea,
Leucotoe pianse in rimirare il figlio
freddo versar da l’affannato petto
605il già bevuto mar nel sen materno.
        Ma il padre Ismeno, ch’entro gelid’antro,
onde s’imbevon l’aure e l’atre nubi,
e si nudrisce l’Iride piovosa,
e più fansi fecondi i tirii campi,
610giacendo stava: poi che lungi intese
(bench’egli stesso strepitando corra)
della figlia i clamori e i nuovi pianti,
alzò il muscoso collo e la di gelo
gravosa chioma, e da le man gli cadde
615l’eccelso pino, e l’urna a terra sparse.
Stupir le selve in su le ripe, e i fiumi
minori inorridîr, quando da l’onde
tutta smaltata dell’antico loto
la faccia eresse. Tanto e tale inalza
620spumoso il crine, e per lo sen gli corrono
giù da la barba risuonanti rivi.
Della figlia il dolore, e del nipote
la morte a lui tutto per ordin narra
Ninfa, che lo rincontra, ed il feroce
625uccisor gli dimostra, e colla mano
la man gli preme. Egli su l’onde allora
tutto si mostra, e colla man tergendo
l’umido volto, e di verdi alghe cinte
l’ardue corna scuotendo, irato e gonfio
630così forte esclamò dal sen profondo:
        - Questo dunque è l’onor che a me tu rendi,
rettor de’ Numi? A me, che tante volte
ospite a te divenni, e de’ tuoi fatti
consapevole fui? (nè già pavento
635di rammentarli). Tu d’inique corna
vestisti pur la simulata fronte;
tu gli umidi destrier scioglier dal carro
vietasti a Cintia, e i nuzïali roghi
e l’ingannevol folgore io mirai,
640e i tuoi più cari figli io ti nudrii.
Così sprezzar miei doni? E pur fu visto
pargoleggiare in questo seno Alcide,
e spense l’onda mia di Bacco il fuoco.
Mira con quante stragi al mar sen corra,
645quai cadaveri porti il nostro fiume
tutto d’armi coperto e di cataste
di morti e di malvivi: entro il suo seno
tutta la guerra è accolta; ogni onda spira
sceleraggini e lutto; e in cima e al fondo
650vagando vanno alme novelle, e meste
adombrano spirando ambe le sponde.
Pur quel son io che i sacri gridi accolgo
delle Baccanti; e i tirsi imbelli e i corni
mondar ne soglio con mie pure linfe.
655Ed or ristretto da cotante stragi
angusta strada mi procaccio al mare.
Non dell’empio Strimon corrono i fiumi
di maggior sangue, nè rosseggia tanto,
qualor Marte combatte, Ebro spumoso.
660Nè te muove a pietà l’onda nudrice,
nè le tue mani a l’armi irrita, o Bacco?
Così gli avi ti scordi? O in orïente
meglio Idaspe si doma? E tu, o crudele,
che vai altiero delle imbelli spoglie,
665e d’un fanciul nell’innocente sangue
trionfi e godi; non farai ritorno
da questo fiume a la crudel Micene,
nè vincitore a l’Inaco potente,
onde partisti, s’io mortal non sono,
670o uno tu degl’immortali Numi. -
        Così sdegnoso parla, e in un istante
dà il segno a l’onde: Citerone alpestre
manda gli aiuti, e le sue antiche nevi,
alimenti del verno, in giù discioglie.
675Tacite forze per occulte vie
manda a l’Ismeno il suo germano Asopo,
e somministra l’onde, ed egli stesso
della terra le viscere ricerca,
e fuor ne caccia i stagni e i tardi laghi
680e le pigre paludi; indi a le stelle
avidamente il volto inalza, e i nembi
umidi in seno attragge e l’aria sugge,
e tumido soverchia ambe le sponde.
Ippomedonte, che già mezzo il fiume
685varcato avea solo coll’acqua a’ fianchi,
si maraviglia come tanto cresca
la torbid’onda, e che le braccia e ’l petto
omai gli copra, e sè minor conosce:
gonfiansi i flutti d’ogni parte, e sorge
690animosa tempesta al mar simíle,
quando assorbe le Pleiadi, e Orïone
torbido oppone a’ timidi nocchieri.
Non altrimenti del marino assalto
scuote il fiume tebano Ippomedonte,
695e più s’estolle nello scudo urtando,
e in quello infranto si dilata e spande,
e con onda maggiore indi ritorna;
nè contento di ciò svelle ed atterra
gli arbuscei da le ripe e i vecchi tronchi,
700e solleva dal fondo arena e sassi.
Sta inegual la tenzon fra l’uomo e ’l Fiume,
e la Divinità n’ha sdegno e scorno;
perchè non cede il fier, non si ritira,
nè paventa minacce, e a’ flutti irati
705va incontro, e a’ fiumi torbidi e sonori
oppon lo scudo e li respinge indietro.
Sotto il terren gli sfugge, ed ei sta immoto
sovra i lubrici sassi, e le ginocchia
tende, e si ferma sul fallace limo,
710ed oltraggiando parla: - E donde Ismeno
questo nuovo furor? E da qual vena,
servo d’imbelle Dio, traesti l’acque?
O sol avvezzo a rimirare il sangue
tra’ femminili cori, allor che i bossi
715suonan di Bacco e le furenti madri
svenan negli orgi trïennali i figli? -
Disse: ed a lui tutto mostrossi il Fiume,
torbido il viso di stillanti rivi
ed offuscato di nuotante arena;
720nè co’ detti infierì: ma dell’opposto
guerrier tre volte e quattro il petto audace,
quanto il suo Nume e l’ira sua valea,
alzandosi percosse. Allora il passo
ritrasse Ippomedonte, e da la mano
725cadde lo scudo, e tardi volse il tergo.
L’incalzan l’onde, e trionfante il Fiume,
mentr’ei vacilla, il preme. I Tirii d’alto
scaglian d’aste e di sassi orrido nembo,
e gli vietano irati ambe le sponde.
730Or che farà d’acque assediato e d’armi?
Non può fuggire il misero, e gli è tolto
morir di grande e memorabil morte.
Stava frassino eccelso in su l’erbose
ripe pendente fra la terra e l’acque,
735ma più a l’acque proclive, e di grand’ombra
copriva il fiume. A questo Ippomedonte
stende l’adunca mano, e vi si appiglia
(qual rimangli altra via per gire a terra?)
ma nol sostien la pianta, ed in giù tratta
740dal maggior peso, che l’aggrava in cima,
da le radici, con cui parte al fiume
s’attiene e parte a l’arido terreno,
divelta cade, e seco trae la ripa,
e ’l trepido guerrier, come se un ponte
745su lui cadesse, col suo peso opprime.
Vi accorron l’onde, ed un tenace limo
nel fondo siede, e i vortici profondi
fan maggior la vorago: e già le spalle,
già il collo del guerrier co’ tortuosi
750gorghi circonda. Allor si dà per vinto
il lasso Ippomedonte, e così parla:
        - Non ti vergogni, inclito Marte, in questo
fiume sommerger mia grand’alma? Io dunque
quasi vile pastor, cui d’improvviso
755la piena oppresse, andrò cibo de’ pesci
dentro i torbidi laghi e i pigri stagni?
Degno dunque non fui morir di ferro? -
        Da queste preci al fin mossa a pietade
Giuno parlò al Tonante: - E sino a quando,
760gran genitor de’ Numi, i mesti Argivi
opprimerai? Già Pallade ha in orrore
il suo Tideo; già per lo vate assorto
tacciono in Delfo i tripodi d’Apollo:
or ecco Ippomedonte, a cui Micene
765fu culla ed Argo è patria ed io son Nume,
(così a’ miei son fedele?), andrà de’ mostri
marini in preda? Tu l’esequie estreme,
tu pur le tombe promettesti a’ vinti.
Che gioveranno a lui l’attiche fiamme
770e i roghi di Teseo? - Non sprezzò Giove
della consorte i giusti voti, e a Tebe
volse placido il guardo, e al primo cenno
calmârsi l’onde e si abbassaro i fiumi.
Scoprîrsi allor del cavalier ferito
775l’esangui spalle e il traforato petto;
siccome avvien se le procelle scosse
dallo spirar d’impetuosi venti
cessano in mar, sorgon gli scogli in alto,
e la terra cercata a’ naviganti
780si mostra, e l’onda da i sbattuti sassi
al fondo cala. E già preme il terreno:
ma che pro, se di strali un folto nembo
d’ogni parte il circonda, ed a le membra
non ha riparo, e tutto esposto è a morte?
785Gli si apron le ferite, e ’l congelato
sangue, che istupidì sotto dell’onde,
a l’aria aperta esposto, ogni meato
scioglie a le vene e giù piove a torrenti,
e sotto gli vacilla istupidito
790dal gel del fiume il mal sicuro piede.
Al fin ei cade; quale in giù ruina
nell’Emo tracio, d’Aquilone a’ fiati,
o perchè le radici il tempo edace
le abbia corrose, altera quercia e grande,
795ch’alzò il capo a le stelle, e di sua mole
molt’aria sgombra: mentr’essa vacilla,
il pian la teme e il monte, e da qual parte
cada non sanno, e quali selve opprima.
        Non v’ha però chi di toccarne ardisca
800l’elmo, la spada; e a gli occhi propri appena
prestano fede, ed han terror mirando
quel cadavere immenso, e insiem ristretti
coll’armi in pugno a lui si fan vicini.
Ma giunge al fine Ipseo, che da la mano
805(che morta ancor l’impugna) il ferro tragge,
e l’elmo scioglie da la torva faccia:
indi in cima dell’asta a’ suoi Tebani
alto lo mostra, e così fiero esclama:
        - Questi è il feroce Ippomedonte, e questi
810dell’immane Tideo l’ultor temuto
e il domator del nostro sacro fiume. -
        Il fiero Capaneo da lungi il vede,
e il dolor reprimendo, immensa trave
libra col braccio, e la sua destra invoca:
815- Siimi propizia, o destra, a me sol una
presente in guerra, e inevitabil Nume;
te sola adoro, e ogni altro Nume sprezzo. -
Dice: ed ei stesso il proprio voto adempie.
Vola l’asta tremenda, e per lo scudo
820passa l’usbergo, e mortalmente giunge
là dove l’alma nel gran petto ha sede.
Allor sen cade Ipseo con quel fragore
ch’eccelsa torre da più colpi scossa
in giù ruina e al vincitor superbo
825lascia della cittade aperto il varco.
Capaneo gli sta sopra; e, - Della morte
non ti fraudo l’onor (dice): rimira
quello che ti ferì, quello son io.
Or va contento, che riporti il vanto
830sopra l’altr’ombre. - Indi la spada e l’elmo
ripiglia, e a questi il vinto scudo aggiunge,
e su l’esangue Ippomedonte in alto
le tien sospese; e, - Queste prendi (grida)
spoglie tue, spoglie ostili, inclito duce;
835ben si daranno al cenere famoso
gli onor dovuti, e tua magnanim’ombra
non se n’andrà raminga e senz’avello:
ma intanto che tu aspetti e fiamme e rogo,
te con quest’armi, di sepolcro invece,
840vendicatore Capaneo ricopre. -
Così a vicenda fra i Tebani e i Greci
dubbioso Marte dividea le stragi.
Piangono questi Ippomedonte fiero,
e quelli Ipseo non men feroce e pronto,
845e dal dolore altrui traggon conforto.
        Dell’arcade garzon la fiera madre
turbata intanto da funeste larve,
de’ notturni riposi in mezzo a’ sonni,
col crin disciolto e colle piante ignude
850(secondo il rito) e prevenendo l’alba,
se ne gía del Ladone a l’onde algenti,
per purgar dentro il fiume il sonno infausto.
Perocchè fra i sopor dell’atre notti,
fatte inquïete da’ pensier molesti,
855vedute avea cader da’ sacri altari
quelle che di sua man spoglie vi appese,
e sè da’ boschi esclusa e dalle Ninfe
cacciata in bando andar raminga e sola
ad ignoti sepolcri errando intorno.
860Spesso nuovi trofei tornar dal campo,
e l’armi e ’l destrier noto ed i compagni
del figlio vide, e mai non vide il figlio:
talor le parve la faretra a terra
da le spalle caderle, e la sua immago
865e i suoi simulacri arder nel fuoco.
Ma presagio più certo e più funesto
recò a la madre quella stessa notte,
che tutta a lei mise in tumulto l’alma.
Sorgea d’Arcadia negli ameni boschi
870quercia famosa e di felici rami,
che scelta fuor da le minori piante
aveva di sua man sacra a Dïana,
e col suo culto l’avea fatta Dea.
A questa essa appendea sovente l’arco
875e i rintuzzati dardi, e de’ cinghiali
le adunche zanne, e de’ leoni uccisi
le vuote spoglie, e de’ fugaci cervi
pari a le selve le ramose corna.
Appena a’ rami luogo resta, tante
880la circondan per tutto agresti spoglie,
e ’l balenar di ferri e d’armi appese
toglie della verd’ombra il grato orrore.
A lei parea che dal cacciar le fiere
scendea da’ monti faticata e lassa,
885d’orsa feroce alto portando il teschio,
terror dell’Erimanto: e quivi giunta
vedea la pianta da reo ferro tronca
giacer, scosse le chiome, ed ogni ramo
stillar di vivo sangue. E a lei, che il chiede,
890Ninfa racconta che il nemico Bacco
e le sanguigne Menadi l’han svelta.
Mentr’ella piange e si percuote il seno,
si scioglie il sonno; essa abbandona il letto,
e il falso pianto invan da gli occhi asciuga.
895Dunque poichè attuffò, purgando il sogno,
tre volte il crin nel fiume, e detti aggiunse
delle madri a purgare atti le cure,
dell’amata Dïana al tempio corse
a lo spuntar del giorno, e lieta vide
900starsi la selva e la sua quercia intatta.
Fermossi allor sul limitar del tempio,
e in cotai voci pregò il nume invano:
        - Vergine Dea, c’hai sovra i boschi impero,
di cui le forti insegne e gli aspri studi,
905sdegnando il sesso, oltre il costume greco
sovente seguo, nè di me più fidi
sono al tuo culto i popoli di Colco,
nè delle scite Amazzoni le schiere;
non a me i balli ed i profani giuochi
910piacquer dell’empie notti, e benchè io giacqui
contaminata in odïoso letto,
trattare i tirsi e la conocchia imbelle
ebbi in orrore, e nelle selve ancora
restai dopo le nozze, e dopo il parto
915vergine colla mente e cacciatrice.
Nè già mi piacque entro remoti spechi
celar il fallo; ma il fanciul tremante
a’ piè ti posi, e confessai l’errore.
Ei non mentì il mio sangue, e nelle selve
920pargoleggiò fra gli archi, e con i pianti
e con le prime voci i dardi chiese.
Deh questo a me (che mai la spaventosa
notte minaccia e l’inquïeto sonno?)
questo, che in te fidato a le battaglie
925con audace desio pur or sen corse,
dammi, o gran Dea, che vincitore io miri
tornar dal campo: e se pur troppo io chieggio,
dammi almen che io lo veggia, e te seguendo,
sudi dell’armi tue sotto l’incarco.
930Fa vani, o Dea, di mie sciagure i segni.
E quale han mai ragion delle tue selve
le Menadi inimiche e i Dei tebani?
Misera! (ahi sian fallaci i tristi augurii)
perchè la quercia tua, perchè il mio sogno
935in così fiero e infausto senso io spiego?
Ma se i presagi miei veri pur sono;
per lo dolor materno e per quel lume
che dal fratel ricevi, io ti scongiuro,
co’ dardi tuoi quest’infelice seno
940trafiggi, o Diva, e pria ch’io la sua morte,
permetti ch’egli la mia morte intenda. -
Così diss’ella, e lasciò il freno al pianto,
e sudar vide il simulacro algente.
        Lascia Trivia feroce entro il suo tempio
945l’afflitta madre, che i suoi freddi altari
terge col crin disciolto, e addietro lassa
velocemente Menalo sublime,
ch’alza fra gli astri la frondosa fronte;
e per quella del ciel strada più interna,
950che sol risplende a’ Numi, il volo drizza
a le mura di Cadmo, e d’alto scorge
sotto a’ suoi piedi quanto è vasto il mondo.
E di già mezzo il suo cammin varcato
tra i verdi colli di Parnasso avea,
955quando incontrò il fratel mesto in sembiante
da risplendenti nubi intorno cinto.
Facea ritorno da’ tebani campi
piangendo invano il suo gran vate assorto;
all’unïon de’ due maggior pianeti
960rosseggiò il cielo, e a quel divino incontro
splendette accesa di più viva luce
d’ambo la chioma, e negli alterni amplessi
ripercossi suonâr faretre ed archi.
Febo parlò primier: - So ben, germana,
965che all’arcade garzon, che troppo audace
le tirie schiere e le feroci pugne
tentare osò, brami recar salute:
la fida genitrice è che ten prega.
Deh così nol vietasse il fato avverso!
970Ecco che io stesso del fedel mio vate
senza riparo (oh mia vergogna eterna!)
l’armi e le sacre bende al vuoto Inferno
discender vidi, e lui l’avide luci
(precipitando) in me tenere immote;
975nè il carro io gli ritenni, e non gli chiusi
la gran vorago. O veramente fiero,
e d’esser adorato indegno Nume!
Non vedi, o suora, come stanno mesti
i nostri spechi e taciturni i tempii?
980Questo sol dono al mio fedele io rendo.
Cessa tu ancor da la tua vana aita,
sorella, e non pigliar fatica indarno.
Immutabile è il Fato, e già al suo fine
tende Partenopeo, nè sono oscuri
985gli oracoli fraterni, e non t’inganno. -
        - Ma di gloria colmar quell’infelice
(rispose allor la vergine turbata)
e dar alcun sollievo alla sua morte
mi fia permesso. Le dovute pene
990non fuggirà il crudel che l’empia mano
profanerà nell’innocente sangue.
Anche a’ miei dardi incrudelire è dato. -
Parte, ciò detto, ed al fratel le gote
più scarsa porge, e a Tebe irata vola.
995 Intanto più crudel ferve la pugna
per li due regi estinti, e la vendetta
maggior furor d’ambe le parti accende.
Piangono Ipseo i Tebani; e maggior duolo
a’ Greci apporta Ippomedonte estinto;
1000vengono a stretta pugna; un solo ardore
i cuori accende: uccidere o morire,
e trar l’ostile o dare il proprio sangue.
Non si arretran d’un passo, e corpo a corpo
s’azzuffano rabbiosi, ed a la fuga
1005antepongon la morte. In su la cima
del gran monte Dirceo fermossi allora
Cintia discesa per la via de’ venti.
La sentirono i colli, e tremò il bosco
in riveder la conosciuta Dea,
1010che in mezzo a le sue piante, ignuda il petto,
con saette crudeli a la feconda
Niobe spense la prole, e stancò l’arco.
        Scorreva intanto per le schiere ostili
Partenopeo per poche stragi altero
1015su cacciator destriero, a le battaglie
non uso e appena a’ primi freni avvezzo,
cui ricopriva il maculoso vello
di tigre ircana e colle zampe aurate
flagellava le spalle: il collo in arco
1020curvo e sottile, e la superba chioma
ristretta in nodi, e gli pendean sul petto
bianchi monili di ritorti denti
(trofeo de’ boschi) dell’uccise fiere.
Ei con nodo legger succinto il fianco
1025del manto d’ostro doppiamente tinto,
e della ricca d’ôr lucida veste
(unico della madre almo lavoro),
pender lasciava dal sinistro arcione
il forte scudo, e del suo grave brando
1030con aurea fibbia alleggeriva il peso.
Che grato udir lo strepito con cui
la vagina, il pendaglio e la faretra
eco fanno al fragor delle catene,
che, del collo a difesa, in su le spalle
1035gli cadon da la cima dell’elmetto!
Baldanzoso scuoteva egli talora
le piume del cimier di gemme adorno.
Ma quando, stanco di pugnar, dal volto
di sudor molle la celata scioglie
1040e fa vedersi col bel capo ignudo,
dolce allora il veder scherzar col vento
la bionda chioma, e di più viva luce
sfolgoreggiare le pupille accese
e le guance di rose, in cui non spunta
1045(bench’ei sen dolga) il primo pelo ancora.
Egli di sua beltà sprezza le lodi,
e il volto inaspra; ma nel vago aspetto
leggiadra è l’ira, e venustà gli accresce.
Cedongli volontari, e altrove i dardi
1050in lui drizzati volgono i Tebani,
rimembrando i lor figli, ed egli ingrato
li tenta, e l’aste vibra, e ognor più fiero
contro chi gli perdona incrudelisce.
Mentr’ei combatte e più leggiadro appare
1055tra la polve e il sudor, da’ vicin colli
lui vagheggiando le sidonie Ninfe
lodanlo a prova, e co’ sospiri interni
van traendo del cor le occulte brame.
Mentre Cintia ciò vede, e in sen le serpe
1060pietoso duolo, le virginee gote
contamina di pianto, e così dice:
        - E qual poss’io da la vicina morte,
tuo fido Nume, ritrovarti scampo?
Oh troppo audace e misero fanciullo!
1065Tu pur volesti della madre in onta
gire a sì crude guerre? In te cotanto
poteo virtù immatura e ardente brama
di glorïoso e memorabil fine?
A te i menali dunque ombrosi boschi
1070d’anni tenero ancor parvero angusti?
Tu, che senza la madre infra i covili
delle fiere sicuro andavi appena,
nè forza avevi a maneggiarne l’arco
e le agresti saette; or che si lagna
1075la misera, e rinfaccia i sordi Numi,
e stanca i nostri tempii e i muti altari:
tu godi altero infra le trombe e i gridi
delle battaglie, e mentre te non curi,
tu morrai solo a l’infelice madre. -
1080 Ciò detto, cinta di purpurea nube
(per non essere almen discesa indarno
ad onorar del giovane la morte)
ov’è lo stuol più folto ella si mesce;
ma pria da la faretra i lievi dardi
1085toglie al folle garzone, e la rïempie
di celesti infallibili saette.
Quindi il cavallo e ’l cavaliero asperge
d’ambrosia, e vuol che sino al punto estremo
a’ colpi ostili impenetrabil resti,
1090e i sacri carmi e i mormorii vi aggiunge
ben noti a lei, che ne’ notturni tempi
entro le grotte a le profane Maghe
gl’insegna, e addita lor l’erbe nocive.
Allor Partenopeo, tendendo l’arco
1095scorre per tutto, nè ragion l’affrena:
già la patria, la madre, e già se stesso
posto ha in oblio; ma più feroce e ardito
usa soverchio de’ celesti dardi.
        Qual tenero leon, cui nella grotta
1100la madre arreca il sanguinoso pasto,
appena sente svolazzar la giubba
su l’altera cervice e torvo mira
di novell’unghia il fiero piede armato,
sdegna d’esser nudrito, e per li campi
1105libero scorre, e gli antri angusti oblia.
        Chi potrà raccontar, giovine ardito,
color che da’ tuoi strali ebbero morte?
Corebo tanagreo cadde primiero,
passando il dardo per angusta via
1110tra l’orlo dello scudo e ’l fin dell’elmo;
gli sgorga da la gola a rivi il sangue,
e il volto acceso ha del divin veleno.
Più crudelmente ad Etion trafigge
tripartita saetta il manco ciglio:
1115ei fuor la tragge insiem coll’occhio, e corre
contro del feritore a far vendetta.
Ma che non pon l’armi celesti? Un nuovo
strale vola per l’aure, e l’altra luce
colpisce, e tutto se gli oscura il giorno;
1120egli pur segue furïoso, dove
il nemico rimembra, infin che d’Ida
nel cadavere urtando, inciampa e cade.
Qui fra le stragi il misero si giace
palpitando e fremendo, e a dargli morte
1125e i suoi Tebani e gl’inimici invoca.
D’Abante i figli a questi aggiunge; il biondo
Argo chiomato, e di lascivo amor
il bel Cidon dalla sorella amato.
Ferì del primo il ventre, e del secondo
1130con colpo obliquo penetrò le tempie.
Là passò il ferro, e qua restâr le penne,
e da due parti il caldo sangue uscío.
Chi da quei dardi può fuggir la morte?
Non Lamo la beltà, Ligdo le bende,
1135nè l’età giovanile Eolo difese:
nell’anguinaglia Ligdo, in volto Lamo,
Eolo è ferito nella bianca fronte.
Un la scoscesa Eubea, l’altro produsse
Tisbe nudrice di colombe; e il terzo
1140voi più non rivedrete, o verdi Amicle.
Colpo in fallo non vibra, e senza piaga
strale non parte, nè la man si stanca;
ma il primo fischio d’un volante dardo
segue il secondo. E chi mai creder puote
1145che tanto faccia una sol destra, un arco?
Or per lo dritto fere, ora inquïeto
a destra ed a sinistra i colpi alterna.
Fugge talor, ma chi l’incalza mira
solo coll’arco, e i dardi a tergo scocca:
1150e già maravigliando e mossi a sdegno
s’univano i Tebani, ed Anfione,
che il sangue tragge dal Rettor de’ Numi,
cui fino allora erano state ignote
le stragi onde il garzon rïempie i campi,
1155primo a lui si fa incontro, e lo minaccia:
        - E fino a quando differir la morte
speri, o fanciul, che déi lasciare in pianto
e di te privi i genitori afflitti?
Tanto l’ardire in te cresce e l’orgoglio,
1160quanto fra tanti un sol guerrier non degna,
teco (perchè minor) provarsi in guerra,
e sei dell’ire nostre indegno oggetto.
Torna in Arcadia, e in fanciullesche guerre
scherza co’ tuoi compagni: in questa arena
1165Marte ferve davvero, e non da giuoco.
Che se pur brami di funesta fama
ornare il tuo sepolcro e il cener freddo,
ti fia concesso. Morirai da forte. -
Da stimoli più gravi il sen trafitto
1170già buona pezza d’Atalanta il figlio
ardea di maggior ira, ed al Tebano,
che non taceva ancor, fiero rispose:
        - Troppo anche tardi a Tebe l’armi io porto
contro sì vili schiere. E chi è cotanto
1175fanciul, che contro voi pugnar non possa?
Non i Tebani tuoi, ma in noi tu vedi
la gran stirpe d’Arcadia e il fiero seme
di valorosa infatigabil gente.
Ne i taciti silenzi della notte
1180me già non partorì ministra a Bacco
madre profana: di lascive mitre
noi non orniamo il crin; nè con infame
destra vibriamo i pampinosi tirsi.
Io pe’ fiumi gelati a gir carpone
1185fanciullo appresi, e delle immani belve
osai entrar negli orridi covili.
Che più? La madre mia di ferro e d’arco
va sempre armata. I genitor fra voi
solo sanno suonar timpani e bossi. -
1190 Più non soffrì Anfion, ma grave dardo
vibrògli al viso: al balenar del ferro
spaventato il destrier lanciossi in fianco,
e sè da morte e il suo signor sottrasse,
e cadde a vuoto il sitibondo colpo.
1195Quindi Anfion vie più sdegnoso il ferro
ignudo stringe, ed al garzon si avventa;
ma Cintia allor svelatamente in campo
si fe’ vedere, e al suo furor s’oppose.
Tra i seguaci dell’arcade garzone
1200stava Dorcèo menalio, e n’era amante,
ma di pudico amore, a cui la madre
le guerre, i suoi timori e gli anni audaci
dati avea in cura dell’amato figlio.
Sotto sembianza di costui la Dea
1205così parlò: - Partenopeo, ti basti
turbate aver sin qui le tirie schiere;
assai per te si è fatto: a la dolente
madre perdona e a’ tutelari numi. -
Non piegossi il garzone, e a lei rispose:
1210- Lascia, fido Dorceo (nè più ti chieggio)
deh lascia almen che costui solo abbatta,
ch’emula co’ suoi dardi i dardi miei,
che come me s’adorna, e sul destriero
alto s’asside e scuote il fren suonante.
1215Mie fien le briglie, e le acquistate spoglie
saranno appese di Dïana al tempio,
e la faretra donerò alla madre. -
        Malgrado del suo duol Cintia sorrise
al semplice parlar del giovanetto.
1220La vide Citerea, che allor del cielo
in parte più remota e più segreta
tenea fra le sue braccia il Dio guerriero,
e rammentava al suo feroce amante
i nipoti d’Harmonia e Cadmo e Tebe.
1225Prende scaltra il suo tempo, ed opportuna
l’interno duol, che dentro il cuor si cela,
in cotai detti fra gli amplessi esprime:
        - Vedi, Marte, costei fatta orgogliosa
per sua verginità, che ne’ tuoi campi
1230tra i guerrieri si mesce; osserva come
e le schiere e le insegne ordina e regge.
Nè contenta di ciò, di nostra gente
ve’ quanti manda innanzi tempo a morte.
A costei la virtù dunque è concessa?
1235A costei è il furor? A te sol resta
ferir co’ dardi le silvestri damme. -
        Da sì giusti lamenti il fiero Nume
mosso a l’armi sen corre, e mentr’ei scende
per lo vano del cielo, ha sola al fianco
1240l’Ira: gli altri Furor sudano in guerra.
Appena giunto, minaccioso sgrida
la sconsolata Dea: - Non a te Giove
diede le guerre, temeraria; e tosto,
se tu non parti dal sanguigno campo,
1245vedrai che a questo braccio e a questa destra
Bellona stessa non può dirsi eguale. -
        Or che farà? Quinci di Marte il brando,
quindi già colmo del fanciul lo stame
la preme, e il volto del Tonante irato.
1250Cede essa al fin da la vergogna vinta,
e Marte allora infra le schiere sceglie
l’orribile Driante a la vendetta.
Dal torbido Orion nacque costui,
e del gran genitor l’innato sdegno
1255contro i seguaci di Dïana serba:
questo è del suo furor prima cagione;
quinci gli Arcadi turba, e i loro duci
dell’armi spoglia: cade a lunghe file
il popol di Cilene, e dell’opaca
1260Tegea gli abitatori; e i capitani
fuggon d’Epiro e le fenee falangi.
Spera Partenopeo mandare a morte
anche costui, e pur la destra ha stanca,
nè più le forze intere; e benchè lasso,
1265or questa turma, ora quell’altra infesta.
Mille presagi del vicino fato
e una tetra caligine di morte
gli si presenta. Già più raro e scemo
scorge suo stuolo, e il vero Dorceo vede.
1270Sente che a poco a poco il vigor manca,
e la faretra omai di dardi ha vuota;
può l’armi appena sostenere, e tardi
si conosce fanciul: ma quando a lui
l’orribile Driante appresentossi
1275col risplendente scudo, un tremor freddo
pel volto e per le viscere gli scorse.
        Qual bianco cigno, che venir si vede
sovra del capo il grande augel che a Giove
le folgori ministra; entro le sponde
1280vorria celarsi di Strimon sotterra,
ed i timidi vanni al petto stringe.
Tal di Driante in rimirar la mole
l’Arcade d’ira non s’accende, e sente
un insolito orror nunzio di morte.
1285Pur l’armi appresta pallido, ed invano
i Numi e Cintia invoca, e l’arco tende
sordo e impotente, e la saetta appresta:
tira indietro la destra, e la sinistra
innanzi spinge, e le due corna unisce,
1290e colla corda a sè già tocca il petto.
Ma più veloce del Tebano il dardo
vola contro il nemico, e del sonoro
nervo recide l’incurvato nodo,
e rende vano il colpo; e indebolite
1295le mani, e l’arco rilassato, a terra
cadono inutilmente le saette.
Lascia quell’infelice e il freno e l’armi,
impazïente dell’acerba piaga
che nell’omero destro lo trafisse.
1300Ed ecco nuovo stral giunge, e trapassa
la delicata pelle, e le ginocchia
tronca al destriero, ed il fuggir gli toglie.
Ma nello stesso tempo (oh maraviglia!)
cade Driante, e l’uccisore è ignoto;
1305ma son note le cause, e gli odii antichi.
        Riportan mesti il lor signor ferito
fra le braccia i compagni, ed ei si duole
(oh semplicetta età!) più del destriero
che di se stesso: sciolto l’elmo, cade,
1310qual fior reciso, il suo leggiadro volto,
e ne’ languidi lumi e moribondi
spira la venustade e manca il riso.
Tre volte e quattro sollevargli il capo
tentâr gli amici, ed altrettante il collo
1315ricusò sostenerlo. Il bianco petto
sgorga purpureo sangue, anche a’ Tebani
lagrimevol spettacolo e funesto.
Tai voci infine dall’esangui labbra
mandò interrotte da’ singulti estremi:
1320 - Noi già manchiam; vanne, Dorceo, e l’afflitta
madre consola. Certo io so (se il vero
predicono le cure) essa nel sonno,
già la mia morte, o fra gli augurii intese.
Ma vanne cauto, e con pietoso inganno
1325la tien sospesa, nè affrettarti, e tosto
non darle il tristo annunzio, e quando parli,
guarda che l’armi essa non tenga in mano.
Ma quando al fine vi sarai costretto,
così parla in mio nome a l’infelice:
1330"Madre, del mio fallir pago le pene,
chè rapii l’armi ancor fanciullo, e sordo
a’ tuoi consigli fui, nè mi ritenni;
nè a mia salute ebbi per te riguardo,
nè perdonai al tuo dolor. Tu vivi,
1335vivi, e piuttosto il nostro ardire a sdegno
muovati che a pietade, e omai deponi
il superfluo timore. Invan da i colli
di Liceo miri se da lungi scorga
il mio drappello alzar la polve, o il suono
1340se senta almen delle guerriere trombe.
Io giaccio freddo al terren nudo in braccio;
nè tu chiudermi i lumi, e almen gli estremi
spirti raccor colle tue labbra puoi.
Pur questo crine (ed a tagliar l’offerse),
1345questo mio crine che tu ornar solevi
contro mia voglia, o genitrice, avrai
del corpo invece. A questo dona il rogo.
Ma nell’esequie mie deh ti ricorda
che con mano inesperta altri non osi
1350spuntar le mie saette, ed i diletti
miei cani alcun più non adopri in caccia.
Quest’armi infauste nella prima guerra
abbian le fiamme, o, se ti piace, in dono
dell’ingrata Dïana appendi al tempio". -