L'origine della Rosa/Canto secondo

Canto secondo

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Canto primo Nota


 
Dïana, intanto, colla mente incesa
D’ ira, di rabbia, ed in turbata fronte.
A far vendetta della tanta offesa,
Cercando iva ogni piaggia ed ogni monte
5Ma perchè Fauno le facea contesa
Del verro, e s’aggiugnean gli scherni all’onte,
Alfin, l’ odio suo doppio a far satollo,
Mosse il consiglio a ricercar d’ Apollo.

Tigre così, che al noto albergo riede,
10Per la tana deserta urla e s’ aggira,
Quando i suoi dolci nati più non vede;
Poi, fitta il fianco dallo spron dell’ ira,
Il cacciator persegue, e sol si crede
All’ amor e al furor che l’ urge e tira;
15A lunga via non bada, e non l’ arresta
Piena di fiume o buio di foresta.

Giunse alfin Cinzia ove su prato erbaoso
Tresca delle Camene il vergin coro;
Ivi, al suonar de’ fonti, in bel riposo
20Febo sedea sotto l’ amato alloro.
Egli fea chiaro l’ aer e luminoso
Col guardo pur, e risplendea nell’ oro;
Oro la veste ed oro la faretra,
Eran oro i coturni, oro la cetra.

25Alla dolce sorella il Delio Iddio
Lieto si volge; e con pietoso affetto,
Udita la cagion di quel sì rio
Dolor che grava a lei d’ affanno il petto,
La riconsola; il caldo suo desio
30Temprar le giura, ed al fatal ricetto
L’ adduce ove usa l’ arte sua divina
Sovra il tripode sacro e la cortina.

L’ antro ivi s’ apre, con mirabil vista,
Che l’ alme inspira alle future cose;
35Ivi al bel verde degli allori è mista
La foglia sì di piante altre odorose,
Che il Sol non v’entra, non che minor vista;
Un’ armonìa gentil fra quelle ombrose
Frasche fan gli augelletti; e lor risponde
40L’ aura, che lieve scôte i rami e l’ onde.

Tondo è l’ albergo, e splendon quelle sante
Mura di dolce orïental zaffiro;
Sfavilla su colonne d’ adamante
Una cornice di carbonchi in giro;
45E diece are ivi son, cui tutte quante
Vulcano oprò con artificio miro;
E ride il pavimento in un tranquillo
Lume di soavissimo berillo.

Sotto grand’ archi d’ auro e di rubino,
50E cento e cento con solerte cura
Significate nel topazio fino
Vedi imagini attorno all’ alte mura,
Che han tanto del celeste e del divino,
Ch’ivi par vinta a un tempo arte e natura;
55E sì le dici, se agli occhi pur credi,
Vive e spiranti, che di più non chiedi.

Vedi colei che trasmutò persona
In la paterna Tessalica riva,
Quando fuggìa dal figlio di Latona,
60Che d’ amor caldo l’ orme sue seguiva;
Vedi il folle che già sperò corona
Dall’ empia gara, onde cotanto ardiva,
Qui al tronco avvinto, che di sangue sembra
Un rio versar dalle squoiate membra.

65Vedi in Anfriso all’ ombra più conserta
Seder, fatto pastore, il biondo Iddio;
E la cetra destar con mano esperta,
Onde abbian lungo le sue pene oblio;
Poi di Parnaso il vedi giù per l’ erta
70Spender sue frecce sovra il draco rio,
Che, benchè morto, gitta dalle cento
Sue teste ancor ne’ petti alto spavento.

Qui de’ Numi alla mensa il vate assiso,
Canta de’ fulminati empi giganti;
75E il concilio del ciel pende sì fiso
Dalla sua voce, che ne’ lor sembianti
Il vivo spiro di veder t’ è avviso,
E ti percôte il suon de’ dolci canti;
L’ ode pur degli augei l’ alta reina,
80E sul folgor che dorme il collo inchina.

Ma il chiuso penetral del santo ospizio
Poi d’ altre imagi è storïato intorno;
Che del tardo avvenir fan tale indizio,
Che la ragion del Fato ivi n’ ha scorno.
85Il fonte Ippocrenéo ha quivi inizio;
Quivi di biondo elettro in vase adorno
Quete distillan le sacrate e chiare
Acque, dipinte nel color del mare.

Questo è il loco ove tanto il Dio si piace
90Quand’ ei la porta occidental dischiude;
Quivi si sta quando il suo carro tace,
E i destrier scioglie e in grembo al mar gli chiud
E qui colle sue Nove ei canta, e face
Più chiara al ciel l’ occulta sua virtude
95Quando, cinto dai voti e dagli auguri,
Apre ai Numi medesmi i fati oscuri.

Or quivi giunto, con fraterno zelo,
A molcer della suora il crudo affanno,
E a squarciar del futuro il denso velo,
100Le narra come dell’ ordito inganno
Per la Diva che pinge il terzo cielo,
Ogni trionfo sarà volto in danno;
E sì le mostra agli occhi suoi disposta
Un’ aspra istoria, nel gran muro imposta.

105Un giovinetto vedi effigïato,
Bello come un bel Dio in sua figura,
Che di grand’ arco e di faretra armato.
Sembra fuggir per l’ alta ripa dura;
E un rio cinghial quasi venirgli allato.
110Che mette dalla vista la paura;
E nella fronte del garzon smarrito
Vedi l’ affanno ed il terror scolpito.

Poi vedi lui, già vinto in tanta guerra,
Lacero tutto e di gran sangue asperso,
115Che colle membra si piega alla terra,
E sol col volto alla Stella converso,
In quel bell’ atto che pietà disserra,
Sembra si lagni di suo fato avverso;
Vedi da lungi la sanguigna belva,
120Che minacciosa e lenta si rinselva.

E una donzella d’ aspetto divino,
Atteggiata di grave e rio dolore,
Battersi il petto vedi a lui vicino,
Versando amaro duol per gli occhi fuore;
125Simile a verde e liscio pioppo, inchino
Sul fiume che lo svelse in suo furore,
Giace il fanciullo; ed in sì vaga forma,
Che non par ch’ ei sia morto, ma che dorma.

Or qui, il dito drizzando, il vate Iddío
130La buona confortò suora dolente,
E di Vener le disse, e di quel rio
Fôco che tutta l’ arde, e delle spente
Luci del caro Adone, e di quel fio
Che Ciprigna n’ avría per l’ aspro dente
135Di quella cruda fatal belva stessa
Per cui fu già l’ amata Rodia oppressa.

E già per gioia di vendetta il seno
A Dïana godéa, e il torvo aspetto
Già ritornava a lampeggiar sereno.
140Ciprigna, intanto, d’ amorso affetto
Punta, discende nel divin terreno
Dove Flora leggiadra have ricetto;
Onde Zeffiro inchini al suo desire,
E il faticato Adon voglia seguire;

145Chè, il dì medesmo, l’ amator si giva
Per gli gioghi di Cipro a dura caccia,
Affaticando per la vampa estiva
Un crudo verro in sua lontana traccia.
Sì la cortese innamorata Diva
150Di lui l’ affanno allevïar procaccia;
Di lui per ch’ ella posto have in oblio
Il regno de le stelle ed ogni Iddio.

Così alle case dell’ amica Flora
Môve, ed il volo alle colombe scioglie.
155La bella donna che le piagge infiora,
Le si fa incontro e ne’ giardin l’ accoglie;
E, grata in côr, la fausta Diva onora
Che ognor siede a governo di sue voglie,
E la mente le scalda, e in lungo amore
160Infiamma ognor del suo Favonio il còre.

Cicco fanciullo! oh come crudo è il fòco
E il laccio che i celesti incende e lega,
Se per te, tolta di suo santo loco,
A una Diva minor Cipria si piega!
165Ahi dura legge! donde son tuo giuoco
E i mortali e gli eterni, e niun si slega;
Ma tutti avvinci di catena iniqua,
In cielo, in terra, universale, antiqua.

Si de’ giardini alla gentil donzella
170Vedi chinarsi in disusata foggia
Colei che fra gli eterni è la più bella;
E venir quivi, ove non d’ arco o loggia,
Ma di fronde e di fior tutto s’ abbella;
Ove son colli onde si scende e poggia;
175U’ non son mura di grand’ auro gravi,
Ma verd’ erbe, fresh’ antri, aure soavi.

Lieti boschetti di palme e d’ allori
Circondan tutta quella ripa amena;
Una soavità di mille odori
180Sorge dai fior di che la piaggia è piena,
E per un verde solco i freschi umori
Zampillando dal sasso in chiara vena,
Un fonte fan sì nitido e giocondo,
Che il lume porta non offeso al fondo.

185Di ramo in ramo in fra le belle fronde
Volan scherzando lascivetti augelli;
E a specchio seggon delle liquid’ onde
Cedri odorosi e folti mirti e belli;
Tutte in giro dipinte ivi le sponde
190Ridon de’ freschi e lucidi ruscelli;
Nè mai nel chiuso del giardino eterno
Penetra la ghiacciata ira del verno.

Zeffiro vola, e veste la campagna
De’ bei color che primavera avviva;
195Narciso del suo mal desio si lagna
E come suol si mira all’ acqua viva;
Clizia si volge, e pallida accompagna
L’ amato raggio, e ’l dolor suo ravviva
Giacinto ha scritta l’ aspra doglia in seno
200Curva è la mammoletta in sul terreno.

V’ è la nuova degli orti peregrina,
Che già fu Ninfa, ed ora è fatta rosa;
Al candor la diresti un fior di spina,
Tanto è modesta, e non ancor pomposa;
205L’ accarezza l’ auretta, e le s’ inchina
L’ acqua, la terra e l’ alba rugiadosa;
E dal beato suo vergineo stelo,
Rassembra un fior caduto ora dal cielo.

Qui vien Ciprigna, e ovunque il guardo môva,
210Ogni fior s’ apre, e le si piega umile;
Bàciane ognun le piante, ognun s’ innova
Lieto più che non suole ai dì d’ aprile.
Rodia la mira; e per l’ antica prova
Arde di sdegno, e offende il piè gentile;
215E coll’ ardita spina il sacro umore
Tragge, ch’ è sangue in terra, in cielo icore.

Il vendicato fior già tutto accoglie
E beve il sangue della sua nemica;
Già di porpora nuova orna le foglie,
220E giuso pon la pallidezza antica.
Così, dell’ alba su le chiare soglie,
Candida nuvoletta al Sole obblica,
Prima è di bianco argento, e poscia suole
Tutta d’ oro mutarsi a’ rai del Sole.

225Videla di sue vene esser vermiglia,
E dal cô l’ ira Venere depose;
E volgendole amica alfin le ciglia,
Regine d’ ogni fior, disse, le rose.
Non più di mirto i biondi crini impiglia,
230Nè colma il petto d’ erbe altre odorose;
Di rose splende delle trecce il freno,
Colmo di rose è il bianco indocil seno.

Le Grazie, di quel cespo un fior raccolto,
Mossèr dell’ Alba alle sedi beate;
235Ne volava nell’ aria il crin disciolto,
E l’ auree vesti addietro ventilate;
Per lo nôvo color rider più molto
Alle stelle parea la lor beltate;
E le sante Ore, visto il nôvo stelo,
240Rupper l’ eterno ballo in mezzo il cielo.

E alle Carite aggiunte, iro ne’ campi
Dell’ odorato lucido orïente,
Ove accende l’ Aurora i primi lampi
Quando il novello dì reca alla gente.
245Quanti sono i colori ond’ è si stampi
Qualunque cosa qui si fa parvente,
Tanti sono colà, dov’ è quel duce
Che li versa dal carro della luce.

E là deposto nel divin terreno,
250Più bello e vivo il nuovo fior germoglia;
E mille rose e mille aprono il seno
Fra lo smeraldo della verde foglia;
Qual s’ incappella in giro, e qual vien meno
Tutta rendendo al suol la rossa spoglia;
255Qual mostra sol sua cima, e qual nel fôce
Arde, e fa pompa del rinchiuso croco.

La sacra Aurora, che finor si cinse
De’fior del melograno e n’ empiea il grembo,
Gli aurei capei di fresche rose avvinse
260La prima volta, e le versò dal lembo.
Il cacume de’ monti allor si pinse
Sotto la pioggia del soave nembo;
S’ imporporò la nebbia mattutina,
E il largo tremolar della marina.

265Della notte e del dì l’ eterne ancelle
Trattando il ciel con pinte ali leggere.
In brune e bianche vergate gonnelle.
Mossero pronte alle superne spere;
Tenéan converso il volto in ver’ le stelle
270Liete danzando, e de’ fior nôvi altere,
Ch’ alto levavan sulle chiome d’ oro
Chiusi in canestri di divin lavoro.

All’ odor novo ed al novel colore
Tutta esultò degli Dei la famiglia.
275Giove i talami suoi del sacro fiore,
E la gran mensa d’ ôr fece vermiglia;
Ridea Saturno del novello onore,
Con fronte crespa e rilevate ciglia;
E la superba Giuno il suo depose
280Cerchio di gemme, e s’ andornò di rose.

L’ annoda Febo al verde lauro amato.
E ’l lungo crin ne pinge e l’ aurea cetra;
Oblia Bacco il corimbo, e al suo beato
Capo la rosa più vaghezza impetra;
285Amor tutto di rose incoronato,
Fiammeggiar ne fa I’ arco e la faretra;
E’ in mezzo al coro de’ celesti assiso.
Sciolse la voce e lampeggiò di un riso.

- Salve, o Rosa gentil: del’ universo
290Tu letizia e dolcezza ognor sarai;
Sempre vedràssi di te il suol cosperso;
Sul letto degli Dei sempre arderai;
Di qual donna è più vaga il labbro asperso
Del minio tuo divin sempre farai;
295E qual più è bella, tanto più fia nota
Quant’ ornerà del lume tuo la gota.

Così ti guardi da ogni oltraggio il cielo,
Così eterna ti rida primavera;
Nè uccidati giammai notturno gelo.
300Nè Sol di state dalla calda spera.
Io, côlto un ramo di quest’ almo stelo.
Paso ne adornerò, Cipro e Citera;
E a chi ben ama non sarà mai cosa
Che ben guidi ad amor meglio che Rosa. -

305Voi, dunque, le cogliete, o Verginelle,
Finch’ esse ridon sul mattino adorno.
Fugge il tempo d’ Amore a par di quelle,
E anch’ei trapassa al trapassar d’ un giorno;
Ma quando torna april, tornano anch’ elle;
310Sola la verde età non fa ritorno;
Cogliete, dunque, o giovinette, il fiore,
Il fior leggiadro che simiglia Amore.