L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo IX
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CAPITOLO IX.
In poche parole Gedeone Spilett, Harbert e Nab vennero informati della situazione. L’accidente, che poteva avere conseguenze gravissime — almeno Pencroff così pensava — produsse diversi effetti sui compagni dell’onesto marinajo.
Nab, immerso nella gioja d’aver ritrovato il suo padrone, non ascoltò, o meglio non volle nemmanco inquietarsi di quel che diceva Pencroff.
Quanto ad Harbert, egli parve dividere in un certo grado le apprensioni del marinajo. Il reporter invece rispose semplicemente:
— In fede mia, Pencroff, ecco una cosa che mi importa poco.
— Ma vi ripeto che non abbiamo più fuoco.
— Peuh!
— Nè mezzo alcuno di riaccenderlo.
— Fa lo stesso.
— Pure... signor Spilett.
— Non abbiamo forse Cyrus?... rispose il reporter; non è vivo forse il nostro ingegnere? Troverà ben egli il modo di farci del fuoco.
— E con che cosa?
— Con nulla.
Che poteva rispondere Pencroff? Nulla invero, perchè in fondo divideva la fiducia che i suoi compagni avevano in Cyrus Smith. L’ingegnere era per essi un microcosmo, un compendio di tutta la scienza ed intelligenza umana! Tanto valeva trovarsi con Cyrus in un’isola deserta, che senza Cyrus nella città più industriosa dell’Unione. Con lui non si mancava di nulla; con lui non si poteva disperare. Quand’anche si fosse venuto a dire a quelle brave persone che un’eruzione vulcanica doveva distruggere quella terra, o farla inabissare sotto il Pacifico, essi avrebbero risposto imperturbabilmente; “Cyrus è là! Andatelo a dire a Cyrus.”
Frattanto, peraltro, l’ingegnere era ancora immerso in una nuova prostrazione e non si potea far appello in quel momento alla sua ingegnosità. La cena doveva necessariamente essere assai magra. Infatti tutta la carne di tetras era stata consumata e non si aveva mezzo alcuno di far cuocere una selvaggina qualsiasi. D’altra parte i curucù, che servivano di riserva, erano scomparsi. Bisognava dunque provvedere.
Prima di tutto Cyrus Smith fu trasportato nel corridojo centrale, dove si riuscì a preparargli un lettuccio di alghe rimaste quasi all’asciutto.
Il profondo sonno che s’era impadronito di lui doveva rimetterlo rapidamente in forze, e meglio senza dubbio che non avrebbe fatto un nutrimento abbondante.
Era venuta la notte, e con essa la temperatura, modificata da un mutamento di vento, si raffreddò di molto. Or siccome il mare aveva distrutto i tramezzi posti da Pencroff in alcuni punti dei corridoj, soffiavano certe correnti d’aria che rendevano i Camini inabitabili. Laonde l’ingegnere si sarebbe trovato in condizioni assai disgraziate se i compagni, spogliandosi delle loro giubbe o delle loro casacche non lo avessero coperto con gran cura.
In quella sera la cena non si compose d’altro che degli inevitabili litodomi di cui Harbert e Nab fecero ampia raccolta sulla spiaggia.
Nondimeno a quei molluschi il giovinetto aggiunse una certa quantità di erbe commestibili che raccolse sopra alte roccie cui il mare non doveva bagnare se non al tempo delle grandi maree. Quelle alghe, appartenenti alla famiglia delle fucacee, erano specie di sargassi che disseccati forniscono una materia gelatinosa abbastanza ricca di elementi nutritivi.
Il reporter ed i suoi compagni, dopo d’aver assorbito una gran quantità di litodomi, succhiarono adunque codesti sargassi che trovarono di un gusto sopportabile. Convien dire che sulle rive asiatiche siffatto cibo entra largamente nell’alimentazione degli indigeni,
— Non monta! disse il marinajo, è tempo che il signor Cyrus ci venga in ajuto.
Intanto il freddo divenne vivissimo, e per disgrazia non s’aveva alcun mezzo di combatterlo. Il marinajo, contrariato, cercò con tutti i mezzi possibili di procurarsi del fuoco, e Nab l’ajutò in quest’operazione.
Costui aveva trovato alcuni muschi secchi, e percotendo due ciottoli ottenne delle scintille; ma il musco non essendo abbastanza infiammabile, non si accese, e d’altra parte quelle scintille, che non erano altro se non silice incandescente, non avevano la consistenza di quelle che si ottengono coll’acciarino solito. L’operazione adunque non riuscì.
Pencroff, benchè non avesse alcuna fiducia in codesto processo, cercò poi di strofinare due pezzi di legno secco, l’uno contro l’altro, alla maniera dei selvaggi.
Certo se il movimento che fecero Nab ed egli si fosse trasportato in calore, secondo le nuove teorie, avrebbe bastato a far bollire una caldaja a vapore. Il risultato fu nullo. I pezzi di legno si riscaldarono, e nulla più, ed anzi infinitamente meno degli operatori medesimi.
Dopo un’ora di lavoro, Pencroff era tutto in sudore e buttò via i pezzi di legno dispettosamente.
— Quando mi si farà credere che i selvaggi accendono così il fuoco, diss’egli, farà caldo anche d’inverno! Accenderei più presto le mie braccia strofinandole l’una contro l’altra,
Il marinajo aveva torto di negare il processo, poichè è certo che i selvaggi infiammano il legno col rapido strofinío, ma non ogni specie di legno è adatta a codesta operazione, e poi occorre avere il “colpo” secondo l’espressione consacrata, ed è probabile che Pencroff non avesse il colpo.
Il malumore di Pencroff non durò molto; i due pezzi di legno buttati via da lui erano stati ripresi da Harbert, che s’adoperava a strofinarli senza requie. Il robusto marinajo non potè trattenere uno scoppio di risa vedendo gli sforzi dell’adolescente per riuscire là dove egli aveva fallito.
— Strofinate, fanciullo mio, strofinate!
— Strofino, rispose Harbert ridendo, ma non ho altra pretesa fuorchè di scaldarmi alla mia volta invece di battere i denti; presto avrò caldo al par di te, Pencroff.
Così accadde; checchè ne fosse, bisognò rinunciare per quella notte a procurarsi del fuoco. Gedeone Spilett ripetè per la ventesima volta che Cyrus Smith non sarebbe imbarazzato per così poco, e si sdrajò in uno dei corridoj sopra il letto di sabbia. Harbert, Nab e Pencroff lo imitarono, intanto che Top dormiva ai piedi del padrone.
Al domani, 28 marzo, quando l’ingegnere si risvegliò, verso le otto del mattino, vide i suoi compagni accanto a lui che ne spiavano il ridestarsi, ed al par della vigilia le sue prime parole furono:
— Isola o continente?
Come si vede, era la sua idea fissa.
— Buono! rispose Pencroff, non ne sappiamo nulla, signor Smith.
— Non sapete ancora!...
— Ma lo sapremo, aggiunse Pencroff, appena ci avrete diretti in questo paese.
— Credo di essere in grado di tentare, rispose l’ingegnere, che senza gran sforzo si rizzò e si tenne in piedi.
— A meraviglia! esclamò il marinajo.
— Io moriva sopratutto di sfinimento, rispose Cyrus Smith; amici miei, un po’ di cibo, e tutto sarà finito. Avete del fuoco, non è vero?
Questa domanda non ottenne risposta, ma dopo alcuni istanti Pencroff disse:
— Ohimè! non abbiamo fuoco, od almeno, signor Cyrus, non ne abbiamo più.
Ed il marinajo fece il racconto di quanto era accaduto nella vigilia. Allegrò l’ingegnere raccontandogli la storia del loro unico zolfanello; poi il tentativo infruttuoso di procurarsi del fuoco alla maniera dei selvaggi.
— Provvederemo, rispose l’ingegnere, e se non troviamo una sostanza analoga all’esca....
— Ebbene? domandò il marinajo.
— Ebbene, faremo dei fiammiferi.
— Chimici?
— Chimici.
— La cosa è semplicissima! esclamò il reporter battendo sull’omero del marinajo.
Costui non la pensava così, ma non protestò.
Tutti uscirono; il tempo era ridivenuto bello.
Un vivo sole sorgeva sull’orizzonte del mare e faceva scintillare le rugosità prismatiche dell’enorme muraglia.
Dopo di aver volto una rapida occhiata intorno a sè, l’ingegnere sedette sopra un macigno. Harbert gli offrì alcune manate di conchiglie e di sargassi, dicendo:
— È tutto quanto abbiamo, signor Cyrus.
— Grazie, figlio mio, rispose Cyrus Smith, ciò basterà almeno per questa mane.
E mangiò con appetito quel magro cibo, che inaffiò con un po’ d’acqua fresca attinta al fiume in un’ampia conchiglia.
I compagni lo guardavano senza parlare, poi, dopo essersi ristorato alla meglio, Cyrus Smith incrociando le braccia, disse:
— Dunque, amici miei, voi non sapete ancora se la sorte ci ha gettati sopra un continente o sopra un’isola?
— No, signor Cyrus, rispose il giovinetto.
— Lo sapremo domani, soggiunse l’ingegnere; per ora non c’è nulla a fare.
— Sì, che qualche cosa c’è da fare, replicò Pencroff.
— E che cosa dunque?
— Del fuoco, disse il marinajo, il quale anch’esso aveva la sua idea fissa.
— Ne faremo, Pencroff, rispose Cyrus Smith; in tanto che voi mi trasportavate jeri, non ho io visto nell’ovest una montagna che domina questa regione?
— Sì, rispose Gedeone Spilett, una montagna che deve essere molto elevata....
— Bene, riprese a dire l’ingegnere, domani saliremo sulla sua vetta e vedremo se questa terra è un’isola od un continente; per ora, lo ripeto, non c’è nulla a fare.
— C’è da fare del fuoco, disse ancora l’ostinato marinajo.
— Se ne farà del fuoco! replicò Gedeone Spilett; un po’ di pazienza, Pencroff.
Il marinajo guardò Gedeone Spilett con una certa aria che sembrava dire: “Se ci siete voi solo per farne, non assaggeremo l’arrosto così presto!” Ma si tacque.
Cyrus Smith non aveva risposto, egli sembrava poco impensierito della quistione del fuoco. Per alcuni istanti stette assorto nelle proprie riflessioni; poi, ripigliando la parola, disse:
— Amici miei, la nostra posizione è forse deplorabile, ma ad ogni modo è semplicissima. O siamo sopra un continente, ed allora a prezzo di fatiche più o meno grandi giungeremo a qualche punto abitato, oppure sopra un’isola, ed in quest’ultimo caso delle due l’una: se l’isola è abitata vedremo di cavarci d’impiccio coi suoi abitanti, se è deserta vedremo di far da soli.
— Certo che non v’ha nulla di più semplice, rispose Pencroff.
— Ma sia continente od isola, domandò Gedeone Spilett, dove credete voi, Cyrus, che l’uragano ci abbia gettati?
— Io non posso saperlo con precisione, rispose l’ingegnere, ma le presunzioni stanno per una terra del Pacifico. Infatti, quando noi abbiamo lasciato Richmond, il vento soffiava da nord-est e la sua violenza medesima prova che non ha mutato direzione. Ora, se ha sempre soffiato da nord-est a sud-ovest, abbiamo attraversato gli Stati della Carolina del Nord, della Carolina del Sud, della Georgia, il golfo del Messico, il Messico medesimo nella sua parte stretta, poi una porzione dell’oceano Pacifico. Non stimo meno di sei o settemila miglia la distanza percorsa dal pallone, e per poco che il vento abbia variato d’un mezzo quarto, ha dovuto portarci sull’arcipelago di Mendana, sia sulle isole Pomotu, ossia anche, se aveva una velocità maggiore di quella che io immagino, fino alle terre della Nuova Zelanda. Se quest’ultima ipotesi si è avverata, ci sarà facile tornare in patria; Inglesi o Maori, noi troveremo sempre con chi parlare. Se al contrario questa costa appartiene a qualche isola deserta d’un arcipelago Micronesiano, forse potremo riconoscerle dall’alto di quel cono che domina la regione, ed allora vedremo di stabilirci qui come se non dovessimo mai uscirne.
— Mai! esclamò il reporter; voi dite mai, mio caro Cyrus?
— È meglio pensare al peggio, rispose l’ingegnere, e riserbarci la sorpresa gradita.
— Ben detto, replicò Pencroff, e bisogna sperare anche che quest’isola, se pure è un’isola, non sia precisamente situata fuor della via delle navi! La sarebbe davvero una sciagura.
— Non sapremo che pensare se non quando saremo saliti sulla montagna, rispose l’ingegnere.
— Ma domani, signor Cyrus, domandò Harbert, potrete voi sopportare le fatiche di questa ascensione?
— Lo spero, rispose l’ingegnere, a patto che mastro Pencroff e tu, fanciullo mio, vi mostriate cacciatori intelligenti e destri.
— Signor Cyrus, rispose il marinajo, poichè voi parlate di selvaggina, se al mio ritorno fossi certo di poterla fare arrostire, come sono certo di portarla meco....
— Cominciate a portarla, Pencroff, rispose Cyrus Smith.
Fu dunque convenuto che l’ingegnere ed il reporter dovean passare la giornata ai Camini per esaminare il litorale e l’altipiano superiore, intanto che Nab, Harbert ed il marinajo tornerebbero alla foresta per rinnovarvi le provviste di legna e per far man bassa sopra qualsiasi selvaggina che venisse a tiro.
Partirono adunque verso le dieci del mattino, Harbert confidente, Nab allegro, Pencroff mormorando fra sè e sè:
— Se al mio ritorno trovo del fuoco in casa, bisogna che il fulmine in persona venga ad accenderlo.
Tutti e tre risalirono l’argine e, giunti al gomito formato dal fiume, il marinajo s’arrestò e disse ai compagni:
— Dobbiamo cominciare dall’essere cacciatori o boscajoli?
— Cacciatori, rispose Harbert; ecco appunto Top che va in cerca.
— E sia pure, rispose il marinajo; torneremo poi a far qui la provvista di legna.
Ciò detto Harbert, Nab e Pencroff, dopo di aver strappato tre bastoni al tronco d’un giovane abete, seguirono Top che saltellava nelle alte erbe.
Questa volta, invece di seguire il corso del fiume, si cacciarono più direttamente nel cuore della foresta. Erano sempre i medesimi alberi appartenenti per la maggior parte alla famiglia dei pini. In certi luoghi meno fitti, sparsi a gruppi, codesti pini avevano enormi dimensioni e sembravano indicare, per il loro sviluppo, che quella regione si trovava più alta in latitudine di quello che l’ingegnere immaginasse. Alcune radure, irte da ceppi rosicchiati dal tempo, erano coperte di legna secca e formavano inesauribili provviste di combustibile; più oltre il bosco si restringeva e diveniva quasi impenetrabile.
Guidarsi in mezzo a quel fitto d’alberi, senza alcun sentiero tracciato, era cosa abbastanza difficile; laonde il marinajo segnalava di tanto in tanto la sua via con segni facilmente riconoscibili. Ma forse egli aveva avuto torto di non risalire il corso d’acqua come aveva fatto nella prima escursione, poichè dopo un’ora di cammino non si era ancora mostrata alcuna selvaggina. Top correndo sotto i bassi rami faceva levare a volo uccelli a cui non era possibile accostarsi. I curucù medesimi erano assolutamente invisibili e pareva probabile che il marinajo avesse ad essere costretto a ritornare a quella parte acquitrinosa della foresta in cui aveva così felicemente fatto la pesca dei tetras.
— Eh! Pencroff, disse Nab con accento alquanto sarcastico, se è tutta la selvaggina che avete promesso di portare al mio padrone, non occorrerà gran fuoco per farla arrostire.
— Pazienza, Nab, rispose il marinajo, non sarà già la selvaggina che mancherà al ritorno.
— Non avete dunque fiducia nel signor Cyrus Smith?
— Sì.
— Ma non credete che egli farà del fuoco?
— Lo crederò quando vedrò la fiammata nel focolare.
— Ci sarà la fiammata, se il padrone l’ha detto.
— La vedremo!
Frattanto il sole non era giunto al più alto punto della sua corsa sopra l’orizzonte. Si continuò adunque l’esplorazione, che fu utilmente segnalata dalla scoperta che Harbert fece d’un albero, i cui frutti erano commestibili. Era il pino pinocchio che produce una mandorla eccellente, molto stimata nelle regioni temperate dell’America e dell’Europa. Codeste mandorle erano in perfetto stato di maturità, ed Harbert le segnalò ai due compagni, che banchettarono.
— Andiamo, disse Pencroff, alghe invece di pane, conchiglie crude invece di carne e mandorle per frutta; è proprio il desinare di gente che non ha in tasca nemmeno un zolfanello.
— Non bisogna lamentarsi, rispose Harbert.
— Non mi lamento, fanciullo mio, disse Pencroff; solo ripeto che della carne si fa un po’ troppo economia in questa sorta di pasti.
— Top ha visto qualche cosa! esclamò Nab correndo verso una forra, nella quale il cane era scomparso abbajando.
Ai latrati di Top si mescevano singolari grugniti.
Il marinajo ed Harbert avevano seguito Nab. Se vi era alcuna selvaggina, certo non era quello il momento di discutere come si potesse farla cuocere, ma sibbene in qual modo si dovesse impadronirsene. I cacciatori, appena entrati nel bosco, videro Top alle prese con un animale che esso afferrava per un orecchio. [p. 79 modifica]I cacciatori, appena entrati nel bosco....Vol. I, pag. 94.
Quel quadrupede era una specie di porco, lungo due piedi circa, color bruno nerastro, ma meno scuro al ventre, con setole dure e poco fitte, colle dita che parevano riunite da membrane.
Harbert credette di riconoscere in quell’animale un cabiaj, vale a dire uno dei gran campioni dell’ordine dei roditori.
Frattanto il cabiaj non si dibatteva contro il cane, girava stupidamente i grossi occhi affondati in un fitto strato di grasso; forse vedeva uomini per la prima volta.
Nab avendo brandito il bastone stava per accoppare l’animale, quando costui, strappandosi da Top, a cui rimase fra i denti l’estremità dell’orecchio, mandò un forte grugnito, e sparve attraverso i boschi.
— Ah! il curioso animale! esclamò Pencroff.
Subito tutti e tre s’erano lanciati sulle traccie di Top, ed al momento in cui stavano per raggiungerlo, l’animale spariva sotto le acque d’un vasto pantano ombreggiato da pini secolari.
Nab, Harbert e Pencroff s’erano arrestati immobili. Top s’era gettato in acqua, ma il cabiaj, nascosto in fondo alla pozza, più non si mostrava.
— Aspettiamo, disse il giovinetto, verrà presto a respirare alla superficie.
— Non si annegherà? domandò Nab.
— No, rispose Harbert, ha i piedi palmati, ed è quasi un anfibio; stiamo alle vedette.
Top era rimasto in acqua e nuotava ancora; Pencroff ed i due compagni andarono ciascuno ad occupare un punto dell’argine, affine d’impedire la fuga al cabiaj, che il cane cercava nuotando.
Harbert non s’ingannava. Dopo pochi minuti l’animale risalì a gala. Top d’un balzo gli fu addosso e gl’impedì di tuffarsi nuovamente. Poco stante il cabiaj trascinato fino alla sponda, veniva accoppato da un colpo di bastone di Nab.
— Evviva! esclamò Pencroff, il quale adoperava volentieri questo grido di trionfo. Un solo carbone ardente e questo roditore sarà rosicchiato fino alle ossa! Pencroff si caricò sulle spalle il cabiaj, e giudicando dall’altezza del sole essere oramai le due ore, diede il segnale del ritorno.
L’istinto di Top non fu inutile ai cacciatori, i quali, grazie all’intelligente animale, poterono trovare la via già percorsa.
Mezz’ora dopo essi giungevano al gomito del fiume.
Come avea fatto la prima volta, Pencroff formò rapidamente una zattera di legno, benchè mancando il fuoco gli paresse fatica sciupata, ed affidò il tutto alla corrente. A questo modo si tornò ai Camini.
Ma il marinajo non era a cinquanta passi, che s’arrestava, mandava ancora un evviva formidabile, e stendendo la mano verso l’angolo della ripa scoscesa, gridava:
— Harbert, Nab, osservate!
Un nugolo di fumo sfuggiva turbinando di mezzo alle roccie.