L'isola del tesoro/Parte VI/XXVIII

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Parte VI Parte VI - XXIX

Il rosso bagliore della fiaccola, illuminando l’interno del fortino mi mostrò realizzate le mie peggiori apprensioni. I pirati erano in possesso della casa e delle provvigioni: ecco il barile dell’acquavite, ecco la carne salata, ecco i biscotti: tutto come prima; e, ciò che moltiplicava la mia angoscia, nessuna traccia di prigionieri. Non potevo altro pensare se non che fossero tutti periti; e il rimorso di non essermi trovato lì, a morire insieme con loro, mi spaccava il cuore.

Erano in tutto sei: nessun altro era sopravvissuto. Cinque d’essi scossi all’improvviso dal primo sonno dell’ubriachezza, stavano in piedi, ancora accesi e gonfi. Il sesto s’era levato soltanto sopra un gomito: il suo viso era coperto d’un pallore mortale, e le bende lorde di sangue che gli avviluppavano la testa dicevano ch’era stato recentemente ferito e ancora più recentemente fasciato. Mi ricordai d’uno che durante il grande attacco, colpito da una palla, era scappato nel bosco: senza dubbio era lui.

Il pappagallo si lisciava le penne, appollaiato sulla spalla di Long John. Questi mi parve alquanto più pallido e duro del solito. Portava ancora lo stesso bell’abito di panno sotto il quale aveva adempiuta la sua missione: ma codest’abito, per un amaro contrasto, era sporco di fango e lacerato dagli spini dei rovi.

«E così, ecco qua Jim Hawkins, morte delle mie ossa, piovuto a farci visita, eh? Vieni, vieni pure, io prendo la cosa amichevolmente.»

Così dicendo sedette sul barile dell’acquavite e si mise a riempir la pipa.

«Dammi un po’ qua la torcia, Dick», riprese.

E dopo ch’ebbe acceso:

«Va bene, ragazzo: pianta la torcia nella catasta della legna; e voi, signori miei, andate pure: non è il caso dl rimanere in piedi per il signor Hawkins: egli vi scuserà, state tranquilli.»

«E così, Jim», e calcava il tabacco, «eccoti qui: una ben amabile sorpresa per il povero vecchio John. Io m’ero accorto che tu eri un ragazzo sveglio, quando ti posai gli occhi addosso la prima volta: ma ora quest’improvvisata finisce di sbalordirmi, finisce.»

A tutto ciò, naturalmente, io nulla replicai. Essi mi avevano messo con le spalle al muro; e io rimanevo là, guardando Silver in faccia, con un piglio abbastanza coraggioso, forse, ma con in cuore la più cupa disperazione.

Silver tirò con molto sussiego una o due boccate di fumo, e continuò:

«E ora, Jim, dal momento che ti trovi qui, voglio un po’ dirti come la penso. Tu mi sei sempre stato caro come un ragazzo di spirito, e io t’ho amato come l’immagine di me stesso quando ero giovane e bello. Ho sempre desiderato che ti unissi a noi per avere la tua parte e morir da gentiluomo; e ora, ecco che ci sei venuto, mio piccolo ardito. Il capitano Smollett è un distinto uomo di mare, non mi stancherò di riconoscerlo: ma quanto a disciplina è inflessibile. “Il dovere è dovere” dice lui, e ha ragione. Devi guardarti dal capitano, tu. Lo stesso dottore ce l’ha a morte con te: “ingrato furfante”, così ti chiamava; e insomma la conclusione è questa, che tu non puoi ritornare coi tuoi perché di te non si vuol più sapere; e a meno che tu non formassi un terzo equipaggio — nel qual caso non raccoglieresti gran compagnia — non ti resta che unirti al capitano Silver.»

Fin qui tutto andava bene. I miei amici vivevano dunque, e sebbene io credessi vera in parte l’affermazione di Silver, che quelli della cabina me ne volevano per la mia diserzione, le parole udite mi diedero più sollievo che afflizione.

«Quanto al fatto che sei nelle nostre mani», continuò Silver, «e che ci sei non ne puoi dubitare — io non dirò nulla. Io preferisco ragionare: dalle minacce non ho mai visto uscir niente di buono. Se il servizio ti quadra, ebbene tu ti arruoli con noi; se non ti quadra, sei padrone padronissimo di dir di no, camerata mio; e se c’è un marinaio al mondo capace di parlare più chiaro di così, Dio mi fulmini!»

Attraverso tutte queste beffarde parole io avevo bene avvertito la minaccia di morte che mi pendeva sul capo; le mie gote scottavano e il cuore mi martellava affannosamente dentro il petto.

«Devo dunque rispondere?», chiesi con un filo di voce.

«Nessuno ti sta alle costole, ragazzo mio. Rileva la tua posizione. Nessuno vuole farti premura; il tempo, come vedi, scorre così piacevolmente in tua compagnia.»

«Ebbene», dissi io prendendo un po’ d’animo, «se devo scegliere, dichiaro che ho diritto di sapere che cosa è successo, e perché voi siete qui, e dove si trovano i miei amici.»

«Che cosa è successo?», echeggiò uno dei filibustieri con un sordo grugnito. «Fortunato chi lo sa!»

«Sarebbe meglio che tenessi chiusi i tuoi boccaporti fin tanto che non ti si rivolge la parola, amico mio», avventò Silver truce. E rivolgendosi a me con l’amabile tono di prima, rispose: «Ieri mattina, durante il piccolo quarto, si presenta il dottor Livesey con bandiera bianca. “Capitano Silver”, mi dice, “siete tradito. Il bastimento non c’è più.” Ebbene, può darsi che nella notte avessimo bevuto un bicchiere di più, e cantato magari per farla passare. Non dico di no. Comunque, nessuno di noi aveva messo il muso fuori. Guardammo, e, corpo di mille bombe, la vecchia goletta non c’era più. Io non ho mai visto una banda di minchioni restar lì con un’aria più istupidita. “Ebbene”, dice il dottore, “vogliamo trattare?” Trattammo, lui e io, e il risultato eccolo qui: provviggioni, acquavite, fortino, legna da ardere che voi aveste la previdenza di tagliare e accatastare; e, per così dire, tutta quella benedetta nave, dalle crocette alla chiglia, nelle nostre mani. Quanto a loro, son filati via, né so dove si trovino.»

Tirò placidamente un’altra boccata di fumo, e proseguì:

«E perché tu non ti metta in testa che sei compreso nel patto, ecco l’ultime parole pronunciate: “Quanti siete, dico io, ad andarvene?”. “Quattro”, dice lui, “quattro, uno dei quali ferito. Quanto a quel ragazzo, ignoro dov’è, che il diavolo se lo porti”, dice lui, non me ne importa affatto. Ne siamo stufi.” Codeste furono le sue parole.»

«È tutto qui?»

«Sì, è tutto quanto hai da sapere, figliolo mio.»

«E ora mi tocca scegliere?»

«Ora ti tocca scegliere, sicuro.»

«Ebbene», dissi, «io non sono così sciocco da non sapere che cosa mi aspetta. Ma accada quel che accada, non me ne importa. Ne ho visti morire abbastanza dacché vi ho incontrato. Ci sono però una o due cose che mi preme dirvi», e mentre così parlavo ero assai eccitato, «e la prima è questa: voi siete in cattive acque: nave perduta, tesoro perduto, uomini perduti: tutta la vostra impresa naufragata; e se desiderate sapere chi ne è stato la causa — io sono stato. Io stavo acquattato nel barile delle mele la sera che avvistammo l’isola, e intesi voi, John, e voi, Dick Johnson, e Hands che dorme ora in fondo al mare, e immediatamente riferii sillaba per sillaba ciò che avevate detto. E quanto alla goletta, sono stato io a tagliare il cavo, io a uccidere gli uomini ch’erano a bordo, io a menarla dove né voi né nessuno dei vostri uomini la rivedrà mai. E son io che posso ridere; il filo della matassa era in mano mia, e voi non mi fate paura più di una mosca. Ammazzatemi o risparmiatemi come meglio vi aggrada. Ma una sola cosa dirò ancora: se voi mi risparmiate, dimenticherò il passato, e quando comparirete davanti alla corte sotto l’accusa di pirateria, vi difenderò con tutte le mie forze. Tocca a voi scegliere. O sopprimermi senza cavarne il minimo utile, o risparmiarmi assicurandovi un testimonio che vi salverà dalla forca.»

M’interruppi perché proprio mi mancava il respiro. Con mia gran meraviglia nessuno di loro si mosse; rimasero tutti a guardarmi mogi come tante pecore. E mentre così mi guardavano, ripresi:

«E ora, mastro Silver, poiché voi siete il migliore di tutti, se le cose andassero alla peggio usatemi la cortesia di far conoscere al dottore in che modo mi sono comportato.»

«Me lo ricorderò», disse Silver con un accento così curioso che io non avrei potuto, anche a prezzo della mia vita, decidere se si burlasse della mia richiesta o fosse simpaticamente commosso dalla mia prova di coraggio.

«Aggiungerò io qualche cosa», gridò il vecchio marinaio dalla faccia color di mogano, detto Morgan, che avevo visto nella taverna di Silver sulla banchina di Bristol, «è stato lui a riconoscere Can-Nero.»

«E sentite me», intervenne il mastro cuoco, «che ve ne dico un’altra, corpo d’una saetta: è stato questo ragazzo a sgraffignar la carta a Billy Bones. Dal principio alla fine, Jim Hawkins è stato il nostro scoglio!»

«E allora, ecco per lui», proferì Morgan accompagnandovi una bestemmia.

E balzò in piedi tirando fuori il coltello con selvaggia irruenza.

«Alto là!», gridò Silver. «Chi sei tu, Tom Morgan? Ti credi forse d’essere il capitano? Se così è, per mille diavoli, ti mostrerò che t’inganni. Prova a mettermiti contro, e andrai dove tanti cristiani da trent’anni a questa parte sono andati prima di te, dal primo all’ultimo: qualcuno dalla punta del pennone, che Dio mi fulmini, qualcuno da fuori bordo, e tutti quanti a pascere i pesci. Non c’è mai stato nessuno che m’abbia guardato nel bianco dell’occhio e abbia poi visto un giorno felice, Tom Morgan, te l’assicuro io.»

Morgan tacque; ma tra gli altri sorse un roco mormorio.

«Tom ha ragione», disse una voce.

«Io sono stato seccato abbastanza da un capitano», aggiunse un altro. «M’impicchino se mi lascio romper le scatole da voi, John Silver.»

«C’è qualcuno di voi, miei signori, che voglia venire a spiegarsi di fuori con me?», urlò Silver sporgendosi da sopra il caratello con in pugno la sua pipa accesa. «Coraggio, su: parlate: non siete mica muti? Chi lo desidera sarà servito. Avrò dunque vissuto tanti anni per vedermi provocare dal figlio di un ubriaco? Voi conoscete le regole: siete gentiluomini di fortuna, a quanto dite. Ebbene, eccomi pronto. Prenda un coltellaccio chi ha fegato, e io vi prometto che vedrò il colore delle sue budella malgrado la mia gruccia e tutto, prima che questa pipata sia finita.»

Nessuno si mosse, nessuno rispose.

«Così siete voi, no?», aggiunse riportando la pipa alla bocca. «Ah, bellissimi da vedere, non c’è dubbio. Ma non troppo bravi sul terreno, no davvero. Ma se vi parlo nell’inglese di Re Giorgio credo che mi capirete. Orbene: io sono vostro capitano per elezione. Io sono il capitano qui perché sono migliore di tutti d’un buon miglio marino. Voi ricusate di battervi come dovrebbero dei gentiluomini di fortuna. Allora, corpo d’una saetta, obbedirete, state pur certi. Ora, io voglio bene a questo ragazzo: non ho mai visto un ragazzo meglio di lui. Vale più lui d’un qualsiasi paio di vigliacchi che siete qui dentro; ed ecco cosa vi dico: vorrò vedere chi oserà mettergli le mani addosso, ecco che cosa vi dico, e potete star sicuri.»

Seguì un lungo silenzio. Io stavo ritto con le spalle al muro, e il cuore che seguitava a battere come il martello d’un fabbro; ma un raggio di speranza ora mi spuntava dentro. Silver si appoggiò contro il muro, le braccia incrociate, la pipa all’angolo della bocca, immoto come fosse in chiesa; ma gettava attorno sguardi furtivi, e con la coda dell’occhio spiava i suoi irrequieti compagni. I quali s’andavano gradatamente raccogliendo all’estremità del fortino, e il loro sommesso bisbigliare suonava continuo al mio orecchio come un ruscello. L’un dopo l’altro alzavano gli occhi, e la luce rossastra della fiaccola batteva per un istante sulle loro torbide facce: ma non era su me, era su Silver che cadevano i loro sguardi.

«Sembra che ne abbiate delle cose da dire», osservò Silver lanciando lontano uno sputo. «Cantatemela, che la possa sentire, o se no, mettetevi alla cappa.»

«Chiedo perdono, capitano», replicò uno degli uomini, «voi prendete un po’ troppo alla leggera qualcuna delle nostre regole. Questo equipaggio è scontento; questo equipaggio non ama le intimazioni più dei colpi di agucchione; quest’equipaggio ha i suoi diritti non meno degli altri; mi permetto di dirlo; e a norma delle stesse vostre regole sostengo che noi possiamo discorrere insieme. Chiedo perdono, vi riconosco come capitano in questo momento, ma reclamo il mio diritto, ed esco per tener consiglio.»

E con un diligente saluto marittimo, quest’individuo, un uomo di trentacinque anni, alto, dall’aspetto malaticcio e dagli occhi gialli, si diresse freddamente verso la porta e disparve. I rimanenti, uno dopo l’altro, seguirono il suo esempio; ciascuno facendo il proprio saluto, mentre passava, e accompagnandovi qualche scusa. «Conforme alle regole», disse uno. «Consiglio di prua», disse Morgan. E così, con una o altra frase, sfilarono tutti lasciando Silver e me soli al lume della torcia.

Il mastro cuoco si levò la pipa dalla bocca.

«Ora stai attento, Jim Hawkins», disse con voce ferma, ma così sommessa che appena mi arrivava all’orecchio. «Tu sei a due passi dalla morte, e, ciò che è ben peggio, dalla tortura. Essi stanno per disfarsi di me. Ma io t’assicuro che qualunque cosa accada, sarò con te. In verità non era questa la mia precisa intenzione prima di averti udito, no. Ero quasi disperato di perdere questa grossa focaccia e rischiare d’essere impiccato per giunta. Ma ho visto che tu sei di buona razza. E mi son detto: “sostieni Hawkins, John, e Hawkins sosterrà te”. Tu sei l’ultima sua carta, e, corpo di mille bombe, John è la tua. Spalla a spalla, dico io. Tu salvi il tuo testimone, e lui salverà la tua testa.»

Cominciavo più o meno a capire.

«Intendete dire che tutto è perduto?»

«Ma sì, perdio, sì! Partita la nave, partirà la mia testa: una cosa tira l’altra. Quando guardai la baia, Jim Hawkins, e non vidi più la goletta, ebbene, duro come sono, mi diedi per vinto. Per ciò che riguarda quella combriccola e il loro consiglio, credi a me, non sono che degli stupidi e dei vigliacchi sputati. Io ti salverò, se mi riesce, dalle loro grinfie. Ma, attenzione, Jim: tu in compenso salverai Long John dalla forca.»

Io ero sgomento: mi pareva una cosa così disperata ciò ch’egli mi chiedeva, lui, il vecchio pirata, il caporione della banda.

«Ciò che potrò lo farò» dissi.

«Affare concluso!», gridò Long John. «Tu parli da ragazzo coraggioso, e, corpo d’una bomba, io non sono ancora perduto.»

Arrancò fino alla torcia infissa nel mucchio della legna, e riaccese la pipa.

«Ascoltami bene, Jim», seguitò ritornando. «Io ho la testa sul collo. Io sono dalla parte del cavaliere, ormai. So che tu hai condotto l’Hispaniola in salvo, e non importa dove. Come tu abbia fatto, lo ignoro; ma in salvo c’è. Immagino che Hands e O’Brien siano rimbecilliti. In verità non ho mai nutrito eccessiva fiducia in nessuno dei due. Ora, bada a ciò che ti dico. Io non faccio domande né desidero che altri me ne faccia. Quando una partita è perduta io lo riconosco, io. E riconosco quando un ragazzo è bravo. Ah, tu che sei giovane, quante belle cose avremmo potuto combinare insieme, tu e io!»

Spillò dal caratello un po’ d’acquavite.

«Vuoi assaggiare, camerata?»

E avuto il mio rifiuto:

«Bene, ne prenderò un sorso io, Jim. Ho bisogno di calafatarmi, io, perché c’è del torbido in vista. E a proposito di torbido, Jim, mi sai dire perché mai quel dottore mi ha dato la carta?»

Il mio viso espresse un così ingenuo stupore ch’egli giudicò inutile pormi altre domande.

«Comunque sia, me l’ha data. E là sotto c’è qualche cosa, senza dubbio, qualche cosa sicuramente, là sotto, Jim, di cattivo o di buono.»

E ingollò un altro sorso d’acquavite, scuotendo il grosso capo bionda con l’aria d’uno che non presagisce niente di allegro.