L'isola del tesoro/Parte V/XXVII
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Traduzione dall'inglese di Angiolo Silvio Novaro (1932)
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Stante l’inclinazione della nave, gli alberi pendevano per un buon tratto sull’acqua, e dalla mia gruccia del pennone di gabbia io non avevo sotto di me che la superficie della baia. Hands, che non era salito tanto, stava perciò più vicino al bastimento, ed era caduto fra me e il bastingaggio. Egli tornò a galla una volta in un cerchio di spuma e sangue, dopodiché affondò per davvero. Rifattesi calme le acque lo vidi giacere raggomitolato sulla nitida sabbia lucente, nell’ombra dei fianchi della nave. Uno o due pesci guizzarono lungo il suo corpo. A volte nel tremolio dell’acqua sembrava muoversi un po’, quasi tentasse di alzarsi. Ma, colpito da un paio di palle, e per giunta annegato, egli era ben morto, ed era carne per i pesci in quel preciso luogo dove egli aveva progettato di scannarmi.
M’ero appena convinto di ciò, che cominciai a sentirmi venir meno di spossatezza e di paura. Il sangue caldo mi scorreva sul petto e lungo la schiena. Il pugnale nel punto dove m’aveva inchiodato la spalla all’albero, bruciava come un ferro arroventato: nondimeno ciò che mi torturava non era tanto questa sofferenza fisica che avrei sopportata senza un lamento, quanto il timore di piombar giù dal pennone in quelle cheete acque verdi accanto al cadavere del quartiermastro.
Mi aggrappai con tutte e due le mani sino a farmi dolere le unghie, e chiusi gli occhi come a nascondermi la vista del pericolo. Pian piano recuperai la calma, il mio polso rallentò i suoi battiti e io ripresi possesso del mio equilibrio.
Il mio primo pensiero fu di trar via il pugnale; ma, o che penetrasse troppo addentro, o che i miei nervi non resistessero, ci rinunziai con un violento brivido. Cosa strana, quel brivido fu provvidenziale. Difatti per poco il colpo non era fallito; la lama mi tratteneva appena per una linguetta di pelle, e quel sussulto la lacerò. Il sangue corse naturalmente più spedito, ma io mi ritrovai padrone dei miei movimenti rimanendo attaccato all’albero soltanto con la giubba e la camicia.
Con un energico strattone distaccai l’uno e l’altra e per le sartie di tribordo riguadagnai la coperta. Per nulla al mondo, agitato come ero, mi sarei una seconda volta arrischiato sulle sartie strapiombanti di bordo da dove Israel era or ora precipitato.
Scesi abbasso e fasciai come meglio potei la mia ferita. Essa mi pungeva assai e sanguinava abbondantemente, ma non era né profonda né pericolosa, né m’infastidiva granché mentre adoperavo il braccio. Mi guardai attorno, e poiché la nave adesso era in un certo senso mia proprietà, mi detti a pensare al modo di liberarla del suo ultimo passeggero, il morto O’Brien.
Come dissi, egli era stato sbattuto contro il bastingaggio dove giaceva simile a una specie di osceno e goffo pupazzo; di grandezza naturale, sì, ma quanto diverso dai colori e dalla grazia della vita! Data la sua postura ci riuscii facilmente; e poiché le tragiche avventure alle quali ero abituato mi avevano reso quasi insensibile all’orrore della morte, lo presi per la cintola come fosse un sacco di crusca, e con una poderosa spinta lo mandai fuori bordo. Egli affondò con un sonoro tonfo, perdendo il berretto rosso che rimase a galleggiare sulla superficie; e appena le acque si ricomposero vidi lui e Israel coricati l’uno accanto all’altro, che tutti e due ondeggianti per il leggero increspamento dell’acqua. O’Brien, sebbene ancora giovane, era molto calvo. E ora stava là con quel suo cranio pelato contro le ginocchia dell’uomo che l’aveva ucciso, e i pesci passeggiavano alacri sopra l’uno e l’altro.
Ero ormai solo sul bastimento. La marea cominciava a scendere. Il sole distava così poco dal tramonto che già l’ombra dei pini della riva ovest si allungava dentro l’ancoraggio stampandosi in ritagli di figure sul ponte. La brezza della sera erasi svegliata, e per quanto la baia fosse ben riparata dalla montagna dei due picchi situata a Est, il cordame cominciava a zufolare una sua piccola dolce canzone e le vele oziose chiacchieravano sbattendo qua e là.
Mi accorsi del pericolo che la nave correva. Abbassai prontamente i flocchi raccogliendoli in un mucchio sul ponte, ma quanto alla gran vela fu un affar serio. Al momento dello sbandamento della nave la verga s’era naturalmente abbattuta fuori bordo e il capo d’essa con un piede o due della vela pescavano dentro l’acqua. Ciò aumentava il pericolo: ma la tensione era così forte che io esitavo a metter le mani nella faccenda. Finalmente presi il coltello e tagliai le drizze. Il picco cadde, la vela con una gran pancia si accasciò sull’acqua, ma io ebbi poi un bel tirare: non potei rimuovere l’ala bassa. Questo fu tutto ciò che le mie forze mi permisero di fare: per il resto l’Hispaniola doveva al pari di me fidar nella sua buona stella.
Frattanto l’ombra aveva occupato l’intero ancoraggio, e gli ultimi raggi di sole, ricordo, folgorando attraverso un’apertura del bosco mettevano splendori di gioielleria sul mantello fiorito della nave naufragata. L’aria cominciava a mordere; le acque fluivano rapide verso l’alto mare, e la goletta si coricava sempre più sul suo fianco.
M’arrampicai a prua e guardai giù. L’acqua pareva poco profonda; e per maggior sicurezza tenendomi con tutt’e due le mani al provese tagliato, mi lasciai dolcemente scivolar fuori bordo. L’acqua mi arrivava appena alla cintola; la rena era salda e attraversata da rughe, e io lietamente raggiunsi la riva lasciando l’Hispaniola inclinata a quel modo, con la gran vela appollaiata sulla superficie della baia. E il sole scomparve del tutto e la brezza sibilò nel crepuscolo fra le ondeggianti ombrelle dei pini.
Ero almeno, e finalmente, fuori del mare, e non me ne tornavo a mani vuote. La goletta, libera ormai dei filibustieri e pronta a imbarcare i nostri uomini e a prendere il largo, era là. Io non desideravo se non rientrare nello steccato e farmi vanto delle mie prodezze. Rischiavo forse d’essere un po’ biasimato per la mia audacia, ma la ripresa dell’Hispaniola costituiva uno stringente argomento, e io speravo che lo stesso capitano Smollett avrebbe riconosciuto che io non avevo sciupato il mio tempo.
Da tali pensieri inebriato mi disposi a ritornare al fortino e ai miei compagni. Rammentandomi che il più orientale dei fiumi che sfociavano nell’Ancoraggio del Capitano Kidd discendeva dalla montagna dei due picchi posta sulla mia sinistra, piegai i miei passi da quella banda per poter traversare il corso d’acqua all’origine. La selva non era troppo intricata, e camminando lungo gli sproni inferiori del monte riuscii presto ad aggirarlo e poco dopo, con l’acqua ai polpacci, guadai il fiumicello.
Ciò mi condusse vicino al luogo dove avevo incontrato Ben Gunn, e perciò m’inoltravo con maggior precauzione, tenendo gli occhi ben spalancati. L’oscurità era quasi completa, e quando sbucai dalla valle che divideva i due picchi, scorsi laggiù contro il cielo un vacillante riverbero, e pensai che l’uomo dell’isola stesse cuocendo la sua cena davanti a un gagliardo fuoco. E però stupivo dentro di me di tanta imprudenza, poiché se scorgevo io quella radiazione, non poteva essa ferire altrettanto gli occhi dello stesso Silver accampato sulla riva pantanosa?
La notte incupiva sempre di più: era tutto quanto potevo fare per guidarmi approssimativamente verso la mia destinazione: la doppia montagna dietro di me e il Cannocchiale alla mia destra si disegnavano nelle tenebre sempre più smorti; poche e pallide le stelle; e andando per l’inclinato terreno continuamente incespicavo nei cespugli e cadevo nelle buche della sabbia.
D’improvviso un tenue bagliore si diffuse intorno a me. Alzai gli occhi: la cima del Cannocchiale appariva debolmente illuminata; poco dopo un che di argenteo luccicò laggiù dietro gli alberi: la luna s’era levata.
Con quest’aiuto compii lestamente il resto del mio tragitto; e talora camminando talora correndo m’andavo impazientemente avvicinando alla palizzata. Nondimeno, addentrandomi nella boscaglia che la fronteggiava, non fui così spensierato da non rallentare il passo e procedere con un poco più di cautela. Misera in verità sarebbe stata la conclusione delle mie avventure se per sbaglio mi fossi presa una palla dai miei stessi compagni.
La luna saliva sempre più su: la sua luce cadeva qua e là a chiazze nelle più rade zone del bosco, e giusto dinanzii a me un lume di diverso colore filtrava attraverso gli alberi. Era di un rosso ardente che di tanto in tanto si velava un po’ come provenisse dalle braci di un falò agonizzante.
Per quanto aguzzassi gli occhi non riuscivo a capire di che si trattasse.
Giunsi alfine al limite della radura. L’estremità ovest era già bagnata dal plenilunio; il resto e lo stesso fortino rimaneva tuttora immerso in una nera oscurità solcata da lunghe strisce di luce argentata. Dall’altro lato della casa era arso un enorme fuoco, le cui braci spargevano attorno un robusto riverbero purpureo nettamente contrastante col molle pallore della luna. Non un’anima che si movesse, non un suono, eccetto i bisbigli della brezza tra gli alberi.
Mi arrestai molto sorpreso in cuor mio e forse anche un po’ spaventato. Noi non usavamo accendere grandi fuochi; seguendo gli ordini del capitano eravamo infatti molto guardinghi circa il bruciar legna; talché io cominciai a dubitare che le cose in mia assenza avessero preso una cattiva piega.
Quatto quatto feci il giro dell’estremità est, tenendomi stretto all’ombra, e trovato il punto propizio dove il buio era più fitto, scavalcai lo steccato.
Per maggior sicurezza mi buttai a terra carponi e strisciai silenzioso verso l’angolo della casa. Avvicinandomi mi entrò in cuore un improvviso sollievo. Non è un grato rumore in sé, e io l’ho spesso, altre volte, maledetto; ma quella notte fu come una musica al mio orecchio il russare concorde e fragoroso dei miei amici nel loro placido sonno. Il grido marino della sentinella, quel «Tutto bene!» mai mi diede un così beato senso di sicurezza.
Intanto una cosa era certa: essi facevano una pessima guardia. Fosse stato Silver, coi suoi, ora al mio posto, non un’anima avrebbe visto l’aurora. Ecco cosa voleva dire — pensavo — avere il capitano ferito; e di nuovo aspramente mi rimproverai d’averli lasciati in quel pericolo e con sì scarsa guardia.
Giunto intanto alla porta, mi rizzai. Buio pesto, là dentro; i miei occhi non discernevano nulla. Quanto a rumori, udivo il continuo ronzio di calabrone dei dormenti, e, a intervalli, un timido suono, quasi uno svolazzare e beccare, di cui non riuscivo a rendermi conto.
Tendendo le braccia in avanti mi inoltrai. Mi sarei coricato al mio posto (con una tacita risatina pensavo) e goduto le loro facce sorprese quando mi avrebbero scoperto al mattino.
Il mio piede urtò in qualcosa di molle: le gambe di un dormente; il quale si voltò grugnendo, ma senza svegliarsi.
Tutt’a un tratto una voce stridula lacerò le tenebre.
«Pezzi da otto! Pezzi da otto! Pezzi da otto! Pezzi da otto! Pezzi da otto!», e così via senza posa né mutamento, come lo strepito di un piccolo mulino.
Il pappagallo verde di Silver, capitano Flint! Era lui che avevo sentito picchiar col becco su un pezzo di corteccia; era lui che, vigilando meglio di qualsiasi essere umano, annunciava del mio arrivo col suo tedioso ritornello.
Mi mancò il tempo di riavermi. Agli acuti strilli del pappagallo gli uomini si destarono e saltarono in piedi, e con una infernale imprecazione la voce di Silver tuonò:
«Chi va là?».
Voltandomi per fuggire, battei violentemente contro uno, indietreggiai, e caddi nelle braccia di un altro che mi strinse e tenne saldo.
«Porta una torcia, Dick», comandò Silver non appena la mia cattura fu assicurata.
E uno di loro lasciò la casa per rientrare subito dopo con un tizzone acceso.