L'isola del tesoro/Parte V/XXV
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Traduzione dall'inglese di Angiolo Silvio Novaro (1932)
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M’ero appena installato sul bompresso, che il flocco volante si riscosse e si riempì di vento cambiando mura, col rumore d’una schioppettata. Sotto l’urto la goletta tremò fino alla chiglia, ma di lì a poco, seguitando l’altre vele a portare, il flocco tornò a svolazzare, e poi ricadde ozioso.
Poco mancò che lo scossone non mi gettasse in mare. Senza perder tempo strisciai lungo il bompresso e piombai, testa in avanti, sul ponte.
Ero sottovento al cassero di prua, e la randa maestra che ancora sempre portava, mi nascondeva una parte della coperta di poppa. Non si vedeva un’anima. Il tavolato, non più scopato dopo la rivolta, portava l’impronta di molte pedate; e una bottiglia vuota dal collo rotto rotolava di qua e di là per gli ombrinali come cosa viva.
D’un tratto l’Hispaniola prese il vento in pieno. I flocchi alle mie spalle strepitarono forte, la barra del timone si abbatté, l’intera nave ebbe un doloroso sussulto; nel medesimo istante la verga di randa rientrò dentro il bordo, e la vela stridendo nei bozzelli mi permise di vedere la parte della coperta di poppa.
Le due guardie erano là: Berretto Rosso supino, rigido come una stanga, con le braccia spalancate come quelle d’un crocifisso, le labbra semichiuse che scoprivano i denti; Israel Hands appoggiato contro il bastingaggio, il mento sul petto, le palme delle mani aperte davanti a sé, e la faccia, sotto la tinta bronzea, scialba come una candela di sego.
Per un momento la nave si contorse andando sghemba come un cavallo vizioso, mentre le vele prendevano il vento ora da un bordo ora dall’altro, e la verga di randa balzando di qua e di là faceva, sotto lo sforzo, lamentare l’albero. Di tanto in tanto una nuvola di spruzzi saltava al disopra del bastingaggio e la prua cozzava violentemente contro un maroso; il grande e bene attrezzato veliero navigava assai peggio della rustica e bistorta piroga ormai seppellita in fondo al mare.
A ogni sobbalzo della goletta Berretto Rosso scivolava da una banda all’altra: ma, cosa oscena a vedere, né il suo atteggiamento, né la smorfia che gli metteva in luce i denti, erano modificati da codesti brutali spostamenti. A ogni sobbalzo pure Hands lo si vedeva ripiegarsi su se stesso e afflosciarsi sulla coperta come un sacco vuoto; i suoi piedi sdrucciolavano sempre più lontani, e tutto il corpo s’inclinava verso poppa, talché il suo viso a poco a poco mi fu nascosto, e alla fine non emerse più che un orecchio e la punta di un mustacchio.
Nello stesso istante notai intorno a loro di macchie di sangue annerito sul tavolato, il che mi fece pensare che nel furore dell’ubriachezza i due si fossero massacrati.
Stavo così guardando e meravigliandomi, quando, in un momento di calma che il bastimento cessò di rullare, Israel Hands si volse verso di me a metà, e torcendosi con un fioco gemito riprese la posa nella quale lo avevo dinanzi sorpreso. Quel gemito che tradiva una pena e una debolezza mortali, e il modo come quella mascella aperta pendeva, mi andarono diritti al cuore. Ma rammentandomi il discorso che avevo udito dal barile di mele, ogni pietà mi cadde.
Avanzai verso poppa fino all’albero di maestra.
«Venite a bordo, signor Hands», dissi ironicamente.
Egli girò a stento gli occhi: ma era troppo abbrutito per esprimere sorpresa. Tutto quanto poté fare fu di proferire una parola:
«Acquavite.»
Io riflettei che non c’era tempo da perdere, e scansando la verga di randa che di nuovo dondolava di traverso alla coperta, scappai a poppa e per la scala del cassero discesi nella cabina.
Era una scena di disordine difficilmente immaginabile. Tutti i cassetti chiusi a chiave erano stati scassinati per cercare la carta. Sul pavimento, due dita di mota, dove i banditi s’erano sdraiati a trincare e consultarsi dopo essersi impantanati nello stagno che contornava il loro campo. Le paratie, tutte dipinte in bianco-argento e fregiate torno torno di dorature, recavano impronte di mani sporche. Dozzine di bottiglie vuote tintinnavano insieme urtandosi negli angoli al rullio della nave. Uno dei libri di medicina del dottore stava aperto sulla tavola con metà delle pagine strappate, probabilmente per accendere la pipa. In mezzo a tutto ciò la lucerna spandeva ancora una luce fumosa e rossastra come terra d’ombra.
Passai nella cantina. Le botti erano sparite e la maggior parte delle bottiglie erano state bevute e buttate via. Dall’inizio dell’ammutinamento nessun di loro certamente aveva smesso di bere e di ubriacarsi.
Rovistando qua e là rinvenni una bottiglia con un resto d’acquavite per Hands; e per me arraffai alcuni biscotti, un po’ di frutta in conserva, un grosso grappolo d’uva, e un pezzo di cacio. Con questa roba risalii in coperta; deposi la mia provvista dietro la testa del timone, e tenendomi a doverosa distanza dal quartiermastro, raggiunsi a prua la cassa d’acqua, dove con una buona interminabile sorsata spensi la mia sete; e allora, ma solamente allora, porsi a Hands l’acquavite.
Credo ne bevesse un quarto di litro prima di decidersi a staccar la bottiglia dal muso.
«Ah», disse, «un po’ di questa ci voleva, per mille diavoli!»
Io seduto nel mio cantuccio avevo già cominciato a mangiare.
«Molto ferito?», gli chiesi.
Egli grugnì, o piuttosto latrò:
«Se quel dottore fosse a bordo, un paio di volte che mi visitasse mi rimetterebbe in piedi, ma non ho fortuna io, vedi, ed è questo che mi secca. Quanto a quella ramazza, è bell’e andata», aggiunse indicando l’uomo dal berretto rosso. «Non è mai stato un marinaio, del resto. Ma da dove sei saltato fuori, tu?»
«Sono venuto a bordo per prendere possesso di questa nave, signor Hands; e fino a nuovo ordine siete pregato di considerarmi come vostro capitano.»
Mi guardò stizzito, ma non articolò sillaba. Sulle sue guance era tornato un po’ di colore, benché apparisse ancora molto sfinito e continuasse a scivolare e ricadere a secondo delle scosse del bastimento.
«A proposito», continuai, «io non posso battere questa bandiera, signor Hands, e con vostra licenza l’abbasserò. Meglio nessuna che questa.»
E, scansando un’altra volta la verga di randa, corsi alla drizza della bandiera, ammainai quella maledetta insegna, e la scagliai in mare.
«Dio salvi il Re!», esclamai agitando il mio berretto. «È finita col capitano Silver!»
Egli mi osservava acuto e furtivo senza levare il mento dal petto.
«Io suppongo», disse alfine, «io suppongo, capitano Hawkins, che tu avrai voglia di approdare, ora. Vogliamo discorrere?»
«Ma sì, con tutto il cuore, signor Hands. Dite pure.»
E mi rimisi a mangiare di buon appetito.
«Quest’uomo», cominciò egli con un debole cenno del capo verso il cadavere — O’Brien si chiamava — un bestione d’irlandese, quest’uomo e io avevamo messo alla vela con l’intenzione di ricondurre il bastimento all’ancoraggio. Ebbene, adesso lui è morto, morto come la sentina, e io non vedo chi sarà capace di manovrar questo bastimento, non vedo. Se non ti do qualche consiglio non te la cavi, questo è quanto io posso dire. Ora, ascoltami: tu mi darai da bere e da mangiare, e una vecchia sciarpa per fasciarmi la ferita, mi darai; e io ti dirò come manovrare. Mi sembra che la proposta quadri, no?»
«Dovete sapere una cosa», dissi io, «ed è che io non intendo ritornare all’Ancoraggio del Capitano Kidd. Io conto di andare nella Baia del Nord e arenarmi là tranquillamente.»
«Me l’aspettavo», gridò lui. «E dunque tu vedi che non sono poi un così perfetto idiota, dopo tutto. Le cose le conosco anch’io, no? Ho tentato il mio colpo, ho tentato; e ho perduto, e sei tu adesso che hai il sopravvento su me. La Baia del Nord? E sia. Non ho possibilità di scelta, io. Vorrei piuttosto aiutarti a menarci alla Riva delle Forche, questo sì, per Satanasso!»
La proposta mi parve abbastanza sensata. Fermammo senz’altro il patto. Tre minuti dopo, l’Hispaniola filava spedita col vento in poppa lungo la costa dell’isola del tesoro, con buona speranza di doppiare prima di mezzogiorno l’estrema punta settentrionale ed entrare nella baia avanti l’alta marea, per poter arenare in salvo e attendere che le scemate acque ci permettessero di sbarcare.
Legai allora la barra del timone e scesi abbasso a prendere nel mio baule uno dei fazzoletti di seta fina donatimi di mia madre. Col quale, e col mio aiuto, Hands poté bendare la larga sanguinante ferita della pugnalata ricevuta sulla coscia; e dopo ch’ebbe mangiato e tracannato ancora uno o due sorsi di acquavite cominciò a riaversi visibilmente, si resse meglio dritto, parlò più forte e più chiaro, e parve del tutto un altr’uomo.
La brezza ci favoriva magnificamente. Scorrevamo dinanzi a lei con la leggerezza d’un uccello. La costa fuggiva come il lampo, e la scena cambiava ogni momento. Presto oltrepassammo i luoghi montuosi, volammo lungo una regione piatta e sabbiosa sparsamente picchiettata di pini nani, e superata anche quella girammo lo sprone della collina rocciosa che termina l’isola a Nord.
Io ero grandemente fiero del mio nuovo posto di comando, e mi godevo il chiaro e luminoso tempo, e i vari aspetti della costa. Possedevo acqua in abbondanza, e buone cose da mangiare, e la mia coscienza, che già mi aveva duramente rimorso per la mia diserzione, s’acquietava ora nella grande conquista che m’era riuscito di fare. Nulla mi sarebbe più rimasto da desiderare se non fossero stati gli occhi del quartiermastro che mi seguivano beffardi per tutto il ponte, e il sinistro sorriso che di continuo affiorava sulle sue labbra. Era un sorriso fatto di sofferenza e debolezza insieme, un sorriso di vecchio disfatto: ma v’era pure, oltre a ciò, una punta di scherno, un’ombra di perfidia, nella sua espressione, mentre egli scaltramente mi spiava e spiava e spiava tenendo dietro al mio lavoro.