L'isola del tesoro/Parte IV/XVI
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Traduzione dall'inglese di Angiolo Silvio Novaro (1932)
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Era circa un’ora e mezza (tre tocchi, in linguaggio marinaresco) quando i due canotti dell’Hispaniola si recarono a terra. Il capitano, il cavaliere e io stavamo in cabina discorrendo della situazione. Ci fosse stato un alito di vento, saremmo piombati sui rivoltosi rimasti con noi a bordo, avremmo salpato l’ancora e preso il largo. Ma il vento mancava, e per colmo di sfortuna Hunter discese con la notizia che Jim Hawkins era sgusciato in un canotto e filato a terra con gli altri.
Nessun di noi avrebbe mai pensato a dubitare di Jim Hawkins: ma eravamo preoccupati per la sua vita. Con uomini di quello stampo ci pareva quasi un miracolo poter rivedere quel ragazzo. Corremmo sul ponte. La pece bolliva fra le connessure. Il puzzo nauseabondo ch’era nell’aria mi rivoltava lo stomaco; se mai si respirò febbre e dissenteria, fu in quell’abominevole ancoraggio. I sei miserabili stavano raccolti sul castello di prua borbottando al riparo d’una vela. Potevamo vedere le imbarcazioni, con un uomo in ciascuna, affrettarsi verso terra toccando già quasi la foce del fiume. Uno d’essi fischiettava «Lillibullero».
L’attesa ci opprimeva. Si decise che Hunter e io saremmo scesi a terra col piccolo canotto in cerca di notizie.
Le imbarcazioni avevano poggiato a destra; ma Hunter e io puntammo in direzione del fortino segnato sulla carta. I due uomini rimasti a guardia delle yole parvero fortemente turbati dalla nostra apparizione. «Lillibullero» tacque; e io vidi quei due discutere sul da farsi. Fossero andati a informare Silver, le cose avrebbero forse preso tutt’altra piega; ma essi avevano le loro istruzioni, penso, e decisero di rimaner tranquillamente là dov’erano, e da capo echeggiò «Lillibullero».
La costa presentava una leggera sporgenza; e io governavo in modo da frapporla tra noi e loro; sicché, anche prima di approdare, già eravamo fuori della vista delle imbarcazioni. Io saltai a terra, e, con un fazzolettone di seta sotto il cappello per ripararmi dal caldo, e un paio di pistole cariche per mia difesa, m’incamminai con la maggior lestezza consentitami dalla prudenza.
Non avevo ancora percorso cento metri che arrivai al fortino.
Ecco in che cosa esso consisteva. Una sorgente di limpidissima acqua scaturiva quasi alla cima d’un poggio. Su quel poggio, includendovi la sorgente, era stata costruita con tronchi d’albero una robusta ridotta capace di contenere una quarantina d’uomini. Su ciascun lato si aprivano feritoie per il fuoco di moschetteria. Tutt’intorno si apriva un largo spazio disboscato, e il sistema difensivo era completato da una palizzata di sei piedi d’altezza interamente chiusa, troppo solida per poter esser abbattuta senza lunghi e laboriosi sforzi, e troppo aperta per poter coprire gli assalitori. Questi rimanevano alla mercé degli uomini del forte; i quali standosene tranquilli nei propri ripari potevano sparar loro addosso come a tante pernici. Buona guardia e viveri: d’altro non abbisognavano i difensori, che, a parte il caso d’una completa sorpresa, erano in grado di presidiare il luogo contro un reggimento.
Ciò che particolarmente mi seduceva era la sorgente. Poiché se nella cabina dell’Hispaniola custodivamo armi e munizioni in abbondanza e viveri e squisiti vini, una cosa però era stata trascurata: mancavamo d’acqua. Stavo appunto pensando a ciò, quando il grido d’un uomo in fin di vita risuonò sull’isola. Io non ero novizio in fatto di morte violenta: ho servito Sua Altezza Reale il Duca di Cumberland e sono stato io stesso ferito a Fontenoy: malgrado ciò il mio cuore si mise a battere precipitosa mente. «Jim Hawkins è finito!», fu questo il mio primo pensiero.
Essere un vecchio soldato è qualche cosa: ma essere stato medico è qualcosa di più. Agio da ciondolarsi, nella nostra professione non v’è. Sicché io subito presi le mie decisioni e senza perder tempo ritornai sulla spiaggia e saltai nel piccolo canotto.
Per fortuna Hunter era un buon rematore. Volavamo sul pelo dell’acqua, e il canotto fu presto attraccato e io a bordo della goletta.
Trovai i miei compagni profondamente scossi, com’era da aspettarsi. Il cavaliere era seduto, pallido come un cencio, pensando forse in quale sciagurato passo ci aveva condotti, povera anima! E uno dei sei uomini di prua aveva l’aria di star poco meglio.
«Ecco un uomo nuovo a queste faccende», disse il capitano Smollett puntando l’indice verso di lui. «Poco è mancato che non svenisse, dottore, quando intese il grido. Ancora un colpo di barra, e quest’uomo è nostro.»
Io esposi il mio piano al capitano, e d’accordo stabilimmo i particolari della sua esecuzione.
Collocammo il vecchio Redruth nel passavanti tra la cabina e il castello di prua, con tre o quattro moschetti carichi e un materasso per ripararsi. Hunter portò il canotto sotto la finestra di poppa, e Joyce e io ci affrettammo a caricarlo di cassette di polvere, moschetti, scatole di biscotti, barili di lardo, un caratello di cognac, e la mia preziosa cassetta di medicinali.
Frattanto il cavaliere e il capitano rimasero sul ponte, e quest’ultimo chiamò il quartiermastro ch’era il principale marinaio a bordo.
«Signor Hands», disse, «come vedete siamo in due con un paio di pistole ciascuno. Se uno di voi fa il più piccolo segnale, è un uomo morto.»
Essi apparvero abbastanza sconcertati, e dopo essersi brevemente consultati s’immersero l’un dopo l’altro nel boccaporto di prua, credendo senza dubbio di poterci cogliere alle spalle. Ma quando videro Redruth che sbarrava loro il passo nel corridoio, fecero dietro front, e di nuovo una testa emerse sul ponte.
«Giù, cane!», intimò il capitano.
La testa di nuovo disparve e per un tratto non sentimmo altro di quei sei vigliacchi.
Frattanto buttando giù la roba come ci veniva alle mani, avevamo caricato il canotto quanto più potessimo osare. Joyce e io vi ci calammo per la finestra di poppa, e vogando a gran forza di nuovo ci dirigemmo a terra.
Questo secondo viaggio stuzzicò non poco l’attenzione dei guardiani lungo la costa. «Lillibullero» fu da capo interrotto, e noi stavamo per perderli di vista dietro il piccolo promontorio, quando uno d’essi saltò a terra e si eclissò. Ebbi una mezza idea di modificare il mio piano e distruggere le loro imbarcazioni: ma Silver e gli altri potevano essere lì, e non volli espormi al rischio di perdere tutto per voler troppo acciuffare.
Prendemmo terra nello stesso punto di prima e ci accingemmo ad approvvigionare la ridotta. Pesantemente caricati tutti e tre, facemmo il primo viaggio e lanciammo le nostre provvigioni al di là dello steccato. Poi, lasciato Joyce a guardarle — un sol uomo a dire il vero, ma munito d’una mezza dozzina di moschetti — Hunter e io ritornammo al piccolo canotto e nuovamente caricammo le nostre spalle. E così seguitammo senza riprender fiato finché l’intero carico non fu allogato: allora i due servitori si installarono nel fortino, e io, remando a tutta forza, riguadagnai l’Hispaniola.
Il fatto che noi ci fossimo arrischiati a caricare una seconda volta il canotto può sembrare più audace di quanto in realtà non fosse. Perché se essi avevano su di noi il vantaggio del numero, a noi rimaneva quello delle armi. Nessuno degli uomini a terra disponeva di un moschetto, e prima ch’essi potessero raggiungerci con le loro pistole, noi ci lusingavamo di riuscire a dar loro un buon acconto freddandone almeno una mezza dozzina.
Il cavaliere, pienamente rimessosi dal suo abbattimento, mi aspettava alla finestra di poppa. Egli afferrò la gomena assicurandola, e noi ci demmo a riempire in furia il canotto. Lardo, polvere e biscotti formarono il carico, con un solo moschetto, e un coltellaccio a testa, per il cavaliere, per me, Redruth e il capitano. Il resto delle armi e delle munizioni lo buttammo in mare, e poiché non v’erano più di due braccia e mezza d’acqua, potemmo vedere sotto di noi l’acciaio scintillare al sole sul nitido fondo sabbioso.
In quel momento la marea cominciava a calare, e il bastimento dondolando si portava sull’ancora. Si udivano voci, affievolite dalla lontananza, chiamarsi fra le due imbarcazioni, e questa circostanza, pur rassicurandoci riguardo a Joyce e Hunter spostati molto più a Est, ci consigliò di affrettare la nostra partenza.
Redruth, abbandonato il suo posto nel corridoio, saltò nel canotto che noi guidammo verso la parte posteriore del ponte per comodità del capitano Smollett.
«Marinai», gridò questi, «mi sentite?»
Nessuna risposta dal castello di prua.
«È a te, Abraham Gray, è a te che io parlo.»
Ancora nessuna risposta.
«Gray», riprese il capitano alzando un poco la voce, «io lascio il bastimento e ti ordino di seguire il tuo capitano. So che in fondo sei un buon ragazzo, non credo poi che alcuno della tua banda sia così cattivo come vorrebbe apparire. Ho l’orologio in mano: ti do trenta secondi per raggiungermi.»
Seguì un altro silenzio.
«Su, amico mio, vieni», continuò il capitano, «non star lì a tentennare. Ogni secondo, mette in pericolo la mia esistenza e quella di questi signori...»
S’intese un improvviso tafferuglio, un rumore di rissa, e Abraham Gray scattò fuori con una coltellata alla guancia, e giunse correndo presso il capitano come un cane al fischio del padrone.
«Sono con lei, signore», ansimò.
E subito dopo, lui e il capitano, si lanciarono nel canotto e noi prendemmo il largo.
Eravamo fuori della nave, ma non ancora a terra, nella nostra ridotta.