L'isola del tesoro/Parte III/XV

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Parte III - XIV Parte IV

Dal fianco della montagna ch’era qui scoscesa e rocciosa, si staccò una ruina di ghiaia e precipitò strepitando e rimbalzando tra gli alberi. Istintivamente volsi gli occhi da quella parte, e scorsi un’ombra veloce balzare dietro il tronco d’un pino. Cosa fosse: se una scimmia, un orso o un uomo, non avrei saputo dire. Nera mi parve, e pelosa: altro non colsi. Ma lo spavento della nuova apparizione mi legò i piedi.

Ed eccomi la via sbarrata da ogni lato. Dietro a me, gli assassini; davanti, quel coso imboscato. Che fare? Non esitai a preferire agli ignoti i pericoli noti. Silver in persona mi sembrò meno terribile al paragone di quella creatura dei boschi, sicché voltai la schiena, e pur gettando indietro sospettose occhiate di sopra le spalle, ritornai sui miei passi nella direzione dei canotti.

Tosto l’ombra riapparve, e facendo un largo giro accennava a tagliarmi la strada. Io ero stanco, sì certo; ma fossi pur stato fresco come appena alzato, avrei ugualmente compreso che non era il caso di voler gareggiare di velocità con un tale avversario. La creatura schizzava da un albero all’altro simile a un daino, muovendosi su due gambe come noi; ma, cosa che mai a uomo vidi fare, correva quasi piegata in due. E nondimeno era un uomo; ormai non potevo più dubitarne.

Mi tornarono a mente cose udite dei cannibali, e fui a un pelo dal gridare al soccorso. Ma il semplice fatto che si trattasse d’un uomo, sia pure selvaggio, mi rassicurava un poco; mentre la paura di Silver si ravvivava in proporzione. E perciò mi fermai, e stavo cercando una via di scampo, quando mi balenò il ricordo della mia pistola. Non ero dunque privo di mezzi di difesa. A questo pensiero ripresi animo, volsi risoluto la fronte all’uomo dell’isola, e gli mossi arditamente incontro.

Egli s’era in quel momento nascosto dietro il tronco d’un altro albero, ma doveva spiarmi attentamente, perché, vistomi avanzare nella sua direzione, riapparve e fece un passo verso di me; poi esitò, indietreggiò, si spinse di nuovo innanzi, e finalmente, con mio grande stupore e confusione si buttò in ginocchio e tese le mani giunte come a supplicare.

Io di nuovo mi fermai.

«Chi siete?», gli chiesi.

«Ben Gunn», rispose con una voce chioccia simile a una serratura arrugginita, «sono il povero Ben Gunn, e da tre anni non ho parlato a un cristiano.»

Mi accorsi allora ch’egli era un bianco al pari di me, e piacenti erano le sue fattezze. La sua pelle appariva bruciata dal sole, e le labbra annerite; e due begli occhi azzurri splendevano sorprendenti in quella faccia scura. Nessun pezzente avevo io mai visto o immaginato lacero e cencioso quanto codesto che dei pezzenti era il principe. Brandelli di vecchie vele di bastimento e di vecchi incerati marinareschi lo ricoprivano, e il complicato lavoro di rattoppatura era tenuto insieme da un sistema di legature le più strambe e diverse, come bottoni metallici, pezzi di giunco, e occhielli di cordicella catramata. Intorno alla vita portava un cinturino di cuoio stretto da una fibbia di rame: l’unico oggetto solido in tutto il suo vestiario.

«Tre anni!», esclamai. «Naufragato?»

«No, ragazzo mio, marooned1

Quel termine non mi giungeva nuovo: sapevo che si applica a quella orribile forma di castigo abbastanza in uso presso i pirati, consistente nel deporre il colpevole con un po’ di polvere e qualche palla, sopra un’isola deserta e lontana.

«Marooned tre anni fa», riprese, «e da allora ho vissuto di carne di capra, di bacche e d’ostriche. Un uomo in qualunque luogo si trovi può ben bastare a se stesso. Ma, amico mio, il mio cuore sospira un cibo cristiano. Non avresti per caso un pezzo di cacio? No? Ah quante notti ho sognato del cacio — soprattutto abbrustolito — e poi mi svegliavo, ed ecco, ero lì!»

«Se mai potrò ritornare a bordo», gli dissi, «avrete cacio a bizzeffe.»

Durante tutto questo tempo egli aveva seguitato a palpar la stoffa della mia giacca, ad accarezzar le mie mani, a osservare i miei stivali; e, mentre mi ascoltava, a manifestare una gioia infantile per trovarsi in presenza d’un suo simile. Udendo però le mie ultime parole rizzò il capo con una sorta di sospettoso stupore.

«Se mai potrai ritornare a bordo, tu dici? O perché? E chi te lo impedirebbe?»

«Oh, non voi, lo so bene», risposi.

«No davvero», scattò. «Ma dimmi, ragazzo mio, come ti chiami?

«Jim.»

«Jim, Jim», ripeteva con evidente compiacimento. «Ebbene, Jim, devi sapere che ho vissuto una vita talmente brutta che arrossiresti a sentirla raccontare. Adesso, per esempio, crederesti, a guardarmi, che io abbia avuto una buona e tenera madre?»

«No, non precisamente.»

«Vedi?», replicò. «Eppure io l’ebbi, e molto pia. E io ero un gentile ed educato ragazzo, ed ero capace di snocciolarti il catechismo così spedito che non staccavi una parola dall’altra. Ed ecco dove siamo arrivati, Jim, e s’era cominciato con giocare alle fossette sulle benedette lastre sepolcrali! Così s’era incominciato, ma si andò ben più lontano; e mia madre m’aveva detto e predetto tutto quanto, la mia santa donna. Ma è stata la Provvidenza che m’ha condotto qui. Ho riflettuto a fondo su tutto ciò in quest’isola solitaria, e son ritornato alla religione. Non mi ci lascerò più prendere a bere tanto rum: ma un goccino appena per la buona fortuna, naturalmente, alla prima occasione che avrò. Mi sono ripromesso d’esser buono, e so come fare. E poi, Jim...»

Dette un’occhiata in giro, e abbassando il tono, bisbigliò:

«Io sono ricco.»

Non ci voleva meno di tanto per convincermi che al poveraccio chiuso nel suo lungo isolamento aveva dato di volta il cervello, ed egli dovette leggermi in viso quel pensiero perché rincalzò con ardore:

«Ricco, ti dico, ricco! E perché tu lo sappia, di te, Jim, voglio fare un uomo. Ah, Jim, benedici pure la tua stella, che sei stato il primo a incontrarmi.»

A queste parole un’ombra improvvisa gli calò sulla faccia. Strinse la mia mano come in una tenaglia, e alzò davanti ai miei occhi un indice minaccioso.

«Jim, dimmi la verità: non è la nave di Flint, quella?»

A questo punto io ebbi una felice ispirazione. Cominciai a credere d’aver trovato un alleato, e subito risposi:

«No, non è la nave di Flint. Flint è morto, ma io vi dirò la verità come desiderate: ci sono alcuni marinai di Flint a bordo, ed è tanto peggio per noi altri.»

«Per caso un uomo... con una gamba sola?», ansimò.

«Silver?»

«Sì, Silver, così si chiamava.»

«È il nostro cuoco, e anche il caporione.»

Egli seguitava a tenermi per il polso, e udendo ciò me lo torse.

«Se è Long John che ti manda, io sono fritto, lo so. Ma voi, lo sapete in che acque navigate?»

Io presi immediatamente il mio partito, e quasi in forma di risposta gli raccontai l’intera storia del nostro viaggio e la situazione in cui ci trovavamo. Egli mi ascoltò col più vivo interesse, e alla fine mi batté un colpetto sulla nuca.

«Tu sei un buon ragazzo, Jim, ma voi tutti siete in una brutta situazione, non ti pare? Ebbene, mettetevi nelle mani di Ben Gunn: Ben Gunn è l’uomo che ci vuole. Ma dimmi: credi tu che il tuo cavaliere si mostrerebbe generoso, qualora fosse aiutato mentre si trova in questa brutta situazione, come puoi vedere?»

Io l’assicurai che il cavaliere era il più liberale degli uomini.

«Bene! Ma, intendiamoci», riprese Ben Gunn, «io non vorrei che mi ricompensasse dandomi una livrea o roba simile, e mettendomi a fare il guardaportone: non è a questo che io tengo, Jim. Ciò che a me preme di conoscere è se sarebbe disposto a cedere qualche cosa come un migliaio di sterline sul tesoro che ormai è già come suo.»

«Sono sicuro di sì. Stando agli accordi, tutti i marinai avrebbero avuto la loro parte.»

«E il passaggio di ritorno?», aggiunse con l’aria d’uno che la sa lunga.

«Oh! Il cavaliere è un gentiluomo. E del resto, se ci sbarazziamo degli altri, avremo pur bisogno di qualcuno che ci aiuti a manovrare il bastimento.»

«Già», disse lui, «Potrei essere utile.»

E parve rasserenato.

«Ora», continuò, «voglio dirti qualcosa; qualcosa, ma non più di tanto. Io ero imbarcato con Flint quando sotterrò il tesoro: lui con sei altri: sei forti marinai. Essi rimasero a terra circa una settimana, e noi a bordeggiare col vecchio Walrus. Un bel giorno spuntò il segnale, ed ecco Flint arrivare tutto solo in un piccolo canotto con la testa fasciata da una sciarpa blu. Sorgeva il sole, e lui ritto a prua appariva pallido come un morto. Ma intanto c’era, capisci; e gli altri sei, morti tutti, morti e sotterrati. Come avesse fatto, nessuno a bordo se lo seppe spiegare. Battaglia ci fu , in ogni modo, e assassinio, e morte immediata; lui, pensa, contro sei! Billy Bones era il suo primo ufficiale, Long John, quartiermastro. Gli chiesero dov’era il tesoro. “Oh”, disse lui, “potete andare a terra, se così vi aggrada, e rimanerci”, disse; “ma quanto al bastimento ha da salpare per cercar altro, corpo di mille bombe!” Così disse.

Orbene, tre anni appresso io ero sopra un’altra nave quando avvistammo quest’isola. “Ragazzi”, dico, “lì c’è il tesoro di Flint. Vogliamo scendere a cercarlo?” Al capitano la cosa non piacque, ma i miei compagni furono tutti d’un parere; e sbarcammo. Per dodici giorni cercarono, sempre più arrabbiati con me, finché un bel mattino tornarono tutti a bordo. “Quanto a te, Benjamin Gunn, eccoti un moschetto”, mi dissero, “e una vanga e una marra. Puoi restar qui e trovarlo da te, il tesoro di Flint”, mi dissero. E dunque, Jim, tre anni sono stato qui, e in tutto questo tempo senza un boccone da cristiano. Ma ora, guarda, Jim, guardami bene. Ti pare che io abbia l’aria d’un uomo di bassa prua? No, non è vero? Né lo sono assolutamente, dico io.»

E qui strizzò l’occhio, e mi diede un energico pizzicotto.

«Tu riferisci queste parole al tuo cavaliere», aggiunse poi. «Né lo è, assolutamente: son queste le parole. Tre anni rimasto solo in quest’isola, e di giorno e di notte, e con bel tempo e con pioggia, e talvolta (dirai) avrebbe magari voluto pregare (dirai) e talvolta magari pensare alla sua vecchia madre, foss’ella ancora viva! (dirai), ma la più parte del suo tempo (è questo che dovrai dire), la più parte del suo tempo Ben Gunn la spendeva in un’altra faccenda. E qui gli darai un pizzicotto come faccio io.»

E di nuovo mi pizzicò nella maniera più confidenziale.

«Poi», continuò, «tu salterai su, e gli dirai questo: Gunn è un onest’uomo (gli dirai) e ripone di gran lunga più fiducia, di gran lunga più fiducia, tieni a mente, in un gentiluomo di nascita che in questi signori di ventura, essendo stato egli stesso uno di questi.»

«Bene», dissi io. «Non ho capito una sillaba di quel che avete detto. Ma ciò non conta, dal momento che io non so come andare a bordo.»

«Ah», fece lui, «questo è un guaio di sicuro. Ma c’è il mio canotto, fabbricato da me, con le mie brave mani. Lo tengo lì, al riparo della rupe bianca. Al peggio dei peggio potremo servircene a notte fatta. Ih!», proruppe a un tratto. «Che succede?»

Perché proprio in quel punto, mentre il sole era ancora un’ora o due lontano dal tramonto, tutti gli echi dell’isola si svegliarono rispondendo con un lungo mugghio al tuono di un colpo di cannone.

«Hanno incominciato la battaglia», gridai. «Seguitemi.»

E dimenticando tutti i miei terrori mi buttai a correre verso l’ancoraggio, mentre il disgraziato nei suoi cenci caprini trottava agile e leggero al mio fianco.

«A sinistra! A sinistra!», ansava lui. «Tienti a sinistra, compagno Jim! Sotto gli alberi! È lì che ho ucciso la mia prima capra. Esse non osano più calare fin lì: sono accampate sulle montagne per paura di Ben Gunn. Ah! Quello è il citimero (cimitero voleva dire). Vedi i tumuli? Io vengo lì a pregare di tanto in tanto, quando penso che sia press’a poco domenica. Non è precisamente una cappella, ma ha un aspetto più serio che altrove; e poi, senti, Ben Gunn era mal povveduto: niente cappellano, e nemmeno una bibbia e una bandiera, senti.»

In tal modo continuava a parlare mentre io correvo, senz’aspettare né ricevere risposta.

Il colpo di cannone fu seguito dopo una lunga pausa da una scarica di moschetteria.

Un’altra pausa, e poi, a meno di un quarto di miglio davanti a me, io potei contemplare, sventolante al disopra delle cime degli alberi, la bandiera britannica.

  1. Non esiste il corrispondente vocabolo italiano (N.d.T.).