L'isola del tesoro/Parte III/XIII
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Traduzione dall'inglese di Angiolo Silvio Novaro (1932)
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L’aspetto dell’isola, quando io venni sul ponte l’indomani mattina, era completamente cambiato. Quantunque la brezza fosse del tutto caduta, avevamo fatto un bel tratto di cammino durante la notte, e stavamo ora imprigionati dalla bonaccia a circa mezzo miglio a Sud-est della piatta costa orientale. Boscaglie grigiastre vestivano gran parte della sua superficie. Questa tinta uniforme era interrotta nella zona più bassa da strisce di sabbia gialla e da una quantità d’alberi elevati, della famiglia dei pini, che sormontavano gli altri: alcuni isolati, altri a gruppi; ma la colorazione generale permaneva monotona e triste. I monti drizzavano su questa vegetazione i loro picchi di nuda roccia. Tutti erano di forma bizzarra, e il Cannocchiale, di tre o quattrocento piedi il più alto dell’isola, presentava il più strano profilo, balzando su erto e scabro da ogni lato, per rimanere in cima improvvisamente mozzo come un piedistallo da collocarvi sopra una statua.
L’Hispaniola rullava sulle onde gonfie. Le verghe squassavano i bozzelli, la barra del timone sbatteva di qua e di là, e l’intera nave scricchiolava gemeva s’impennava e abbatteva come una creatura torturata. Io mi tenevo attaccato ai patterazzi, e ogni cosa mi girava vertiginosamente intorno; poiché se ero abbastanza buon marinaio mentre la nave filava, cotesto rimaner lì piantato e sballottato come una bottiglia era cosa che non sopportavo senza nausea, e soprattutto a digiuno.
Forse anche l’aspetto melanconico dell’isola con le sue cineree foreste e i suoi rocciosi e selvaggi picchi, e lo spumeggiare e tuonare dei frangenti contro l’irta riva acuivano il mio malessere; fatto sta che malgrado il sole smagliante e infuocato, e l’allegrezza degli uccelli marini che si tuffavano e gridavano intorno a noi, e la prospettiva così grata sempre a chi approda dopo una lunga navigazione, io mi sentivo il cuore oppresso, e fin da quella prima occhiata imparai a odiare l’isola del tesoro.
Avevamo davanti una mattinata di fastidioso lavoro, giacché non v’era indizio di vento; e bisognava mettere in mare i canotti e tirare il bastimento a rimorchio per tre o quattro miglia, ché tanto era il cammino per doppiare la punta dell’isola, passare lo stretto canale, e raggiungere il porto dietro l’isolotto dello Scheletro. Io presi posto in una imbarcazione, dove, peraltro, non avevo nulla da fare. Il calore era soffocante, e gli uomini curvi sulla loro fatica brontolavano rabbiosamente. Anderson, che governava il mio canotto, anziché richiamare l’equipaggiò all’ordine, protestava peggio degli altri.
«Ma», rincalzò alfine con una bestemmia, «non andrà sempre così.»
Queste parole mi parvero un pessimo segno. Fino a quel giorno gli uomini avevano compiuto il loro lavoro di buona voglia e con slancio; ma la semplice vista dell’isola era bastata ad allentare i vincoli della disciplina.
Durante tutto il tragitto Long John stette presso al timoniere a pilotar la nave. Egli conosceva lo stretto come la palma della sua mano, e quantunque lo scandaglio indicasse più acqua che non risultasse dalla carta, John non ebbe mai un momento di esitazione.
«C’è una spinta violenta, qui, col riflusso», disse, «ed è come se questo canale fosse stato scavato con una vanga.»
Gettammo l’àncora nel preciso punto segnato sulla carta, a circa un terzo di miglio da ciascuna riva: la terra da un lato, e l’isolotto dello Scheletro dall’altro. Il fondo era pura sabbia. Il tuffo della nostra ancora sollevò una nuvola d’uccelli che gridando ruotarono sopra i boschi: ma in meno di un minuto s’erano di nuovo posati, e tutto era ridivenuto quieto e silenzioso.
La rada era completamente riparata dalla costa e contornata da boschi i cui alberi discendevano fino quasi a lambire il mare; le rive erano in gran parte piatte; e le cime dei monti disposte a cerchio formavano una specie di lontano anfiteatro. Due fiumiciattoli o meglio due paludosi rivi si scaricavano in questo che chiamerei stagno; e la vegetazione su quella parte della costa ostentava una sorta di malvagio splendore. Da bordo nulla potevamo scorgere né del fortino né della palizzata completamente affondata nella verdura; e se non fosse stato per la carta spiegata sotto i nostri occhi, avremmo potuto illuderci d’essere i primi ad ancorarci lì da quando l’isola era emersa dalle acque.
Non c’era un alito di vento né si udiva alcun rumore tranne il tuonar della risacca mezzo miglio lontano lungo la spiaggia e contro le scogliere di fuori. Caratteristiche esalazioni di foglie imputridite e tronchi d’alberi marciti stagnavano sull’ancoraggio. Io vidi il dottore arricciare il naso più volte, come si fa quando si annusa un uovo guasto.
«Non so nulla del tesoro», diss’egli, «ma scommetterei la mia parrucca che qui c’è la malaria.»
Se il contegno degli uomini era stato inquietante nel canotto, diventò addirittura minaccioso non appena ritornati a bordo. Si raggruppavano sul ponte a mormorare tra loro. Il più semplice comando veniva accolto con aria cattiva ed eseguito di mala voglia e trascuratamente. Persino ai marinai onesti doveva essersi appiccato il contagio, poiché non v’era un uomo a bordo che riprendesse un altro. La rivolta — era chiaro — ci pendeva sul capo come una nuvola carica di tempesta.
Né eravamo noi soli della cabina ad avvertire il pericolo. Long John si dava molto da fare, correndo di gruppo in gruppo e prodigandosi in consigli di calma. Nessuno avrebbe potuto offrire un miglior esempio. Egli superava se stesso in buon volere e cortesia; e a tutti dispensava sorrisi. Appena udiva un comando, eccolo sulla gruccia col più gioviale «sì, sì signore»; e quando non v’era altro da fare, intonava una canzone dietro l’altra, come per coprire il malcontento dei compagni.
Fra tutti i tratti oscuri di quel bieco pomeriggio, l’evidente ansietà di Long John appariva il più malauguroso.
Noi tenemmo consiglio in cabina.
«Signore», disse il capitano rivolgendosi al cavaliere, «se io arrischio un altro ordine, l’intero equipaggio si ribellerà come un sol uomo. Sì, signore, siamo a questo punto. Mettiamo che mi si risponda male. Se io ribatto, eccoci ai ferri corti; se taccio, Silver capisce che c’è sotto qualche cosa, e la partita è perduta. Per il momento, noi non abbiamo che un uomo su cui poter contare.»
«E sarebbe?», domandò il cavaliere.
«Silver, signore. Egli desidera non meno ardentemente di noi d’assestar la cosa. Questa non è che una bizza. Silver la farebbe loro presto passare se ne avesse il destro, e ciò che io vi propongo è di fornirgli questo destro. Concediamo agli uomini il permesso di scendere a terra un pomeriggio. Se vanno tutti, la nave è nostra. Se nessuno si muove, noi teniamo la cabina e Dio proteggerà il nostro buon diritto. Se solo alcuni vanno, Silver, credete a me, li riporterà a bordo dolci come agnelli.»
Così fu deciso. Pistole cariche vennero distribuite a tutti gli uomini sicuri; Hunter, Joyce, e Redruth furono messi a giorno della situazione, e ricevettero le nostre confidenze con minor sorpresa e maggior animo di quanto non avessimo immaginato; dopo di che il capitano salì sul ponte, e arringò l’equipaggio.
«Ragazzi», disse, «la giornata è stata calda, e siamo tutti stanchi e non di buon umore. Un giro a terra non farà male a nessuno; i canotti stanno ancora in acqua: potete prenderli, e chi ne ha voglia può rimanere a terra tutto il pomeriggio. Farò tirare un colpo di cannone mezz’ora prima del calar del sole.»
Quegli sciocchi pensavano certo d’avere a inciampar nel tesoro appena sbarcati, perché in un lampo il loro malumore si dissipò, e mandarono un evviva che risvegliò l’eco d’un monte lontano, e spinse in aria un altro stormo d’uccelli che stridendo volteggiarono sopra l’ancoraggio.
Il capitano era uomo troppo accorto per rimanere in mezzo a loro. Egli si dileguò subito lasciando a Silver la cura di regolar la spedizione, il che credo fu un ottimo consiglio. Si fosse trattenuto sul ponte, non avrebbe potuto più a lungo fingere d’ignorare la reale situazione. Era chiaro come il sole. Silver era il vero capitano e disponeva d’un equipaggio in rivolta. Gli onesti — e io potei presto assodare che ne rimanevano a bordo — erano indubbiamente della gente assai stupida. O meglio, la verità era questa, che l’esempio dei caporioni aveva, chi più chi meno, demoralizzato tutti quanti: e alcuni pochi, bravi ragazzi in fondo, non si sarebbero lasciati menare o spingere un passo più in là. Difatti, altra cosa è essere poltrone e infingardo, altra cosa è impadronirsi d’una nave e trucidare una schiera di innocenti.
La spedizione fu finalmente allestita. Sei rimanevano a bordo, e i tredici altri, compreso Silver, cominciarono a calarsi nei canotti.
Fu allora che mi balenò in mente la prima di quelle idee pazze che tanto contribuirono a salvarci la vita. Restando a bordo sei uomini, era chiaro che i nostri non potevano pensare a impadronirsi della nave; ma poiché le forze delle due parti si bilanciavano, altrettanto chiaro era che, per il momento, la cabina non necessitava del mio aiuto. Mi prese a un tratto la voglia di scendere a terra. Con la lestezza di un gatto scivolai giù dal bordo e mi acquattai a prua del canotto più vicino, che quasi subito si mosse.
Nessuno si accorse di me, tranne il rematore di prua, che mi disse:
«Sei tu, Jim? Abbassa la testa». Ma Silver dall’altro canotto si voltò a guardare, e gettò una voce per sapere se ero io; e da quel momento io cominciai a pentirmi di ciò che avevo fatto.
Gli equipaggi gareggiarono di velocità per guadagnare la riva; ma il canotto che mi portava, avendo qualche vantaggio iniziale, ed essendo insieme più leggero e meglio governato, sorpassò di molto il suo concorrente. La prua del nostro aveva già urtato contro il groviglio degli alberi della riva, e io, afferrato un ramo, m’ero lanciato fuori piombando nel più vicino cespuglio, quando Silver e gli altri arrancavano ancora cinquanta metri indietro.
«Jim! Jim!», udii gridare alle mie spalle.
Ma io non diedi retta: saltando, curvandomi, spezzando rami per aprirmi un passaggio, corsi e corsi dritto davanti a me fin tanto che le forze non mi abbandonarono.