L'isola del tesoro/Parte I/VI

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Parte I - V Parte II

Cavalcammo speditamente lungo tutto il cammino, finché ci arrestammo alla porta del dottor Livesey.

La facciata della casa era completamente buia.

Il signor Dance mi ordinò di saltare a terra e picchiare, e Dogger mi prestò la staffa per discendere. Subito la porta si aprì, e alla mia domanda se il dottore fosse in casa, la cameriera rispose ch’era rientrato nel pomeriggio ma poi era di nuovo uscito per recarsi a pranzare al castello e passar la serata col cavaliere.

«Ebbene, andiamo là, ragazzi», disse il signor Dance.

Questa volta siccome il tragitto era breve non montai a cavallo, ma corsi dietro a Dogger tenendomi alla coreggia della sua staffa fino al cancello, e poi su per il lungo viale dagli alberi spogli, illuminato dalla luna, in fondo al quale la bianca mole del castello si ergeva dominando per ogni lato i vasti e antichi parchi.

Costì il signor Dance smontò, e presomi con sé, detta una parola, venne introdotto.

Il servo ci condusse lungo un corridoio tappezzato di stuoie, facendoci alfine entrare in una spaziosa biblioteca tutta foderata di scansie sormontate da busti, dove il cavaliere e il dottor Livesey con la pipa in mano stavano seduti ai lati di un allegro fuoco.

Io non avevo mai visto il cavaliere così da vicino. Era un pezzo d’uomo alto più di sei piedi, quadrato, dalla faccia aperta e fiera, che i lunghi viaggi di mare avevano arrossata e tagliuzzata di rughe; le sue sopracciglia nerissime si muovevano frequenti, e ciò gli dava un’aria non cattiva, direi, ma piuttosto vivace e altera.

«Venga, signor Dance», egli disse con un fare affabile e dignitoso.

«Buona sera, Dance», disse il dottore, con un cenno del capo. «E buona sera a te, amico Jim. Che buon vento vi porta qui?»

Dritto in piedi e rigido, il sovrintendente prese a narrare il fatto speditamente come recitasse una lezione, ed era curioso vedere come gli ascoltatori pendevano dalle sue labbra e tratto tratto si scambiavano occhiate dimenticando, nella meraviglia e commozione, di fumare. Udendo poi la prova di coraggio di mia madre, il dottor Livesey si dette una pacca sulla coscia, e il cavaliere gridò «Brava» con un gesto che gli fece spezzare contro il camino la sua lunga pipa. Molto prima che il racconto fosse terminato, il signor Trelawney (era questo, come il lettore ricorderà, il nome del cavaliere) era scattato in piedi, e andava misurando a lunghi passi la sala; e il dottore si era tolta, come per udire meglio, la parrucca incipriata, scoprendo la testa dai capelli neri completamente rasi, il che gli dava uno stranissimo aspetto.

«Signor Dance», disse il cavaliere appena il sovrintendente ebbe finito, «lei è una degnissima persona. Quanto all’aver schiacciato quel mostro di atrocità, io lo considero come un atto meritorio, come schiacciare un serpente. Questo ragazzo poi, è un coraggioso, a quanto so. Hawkins, vuoi suonare quel campanello? Il signor Dance berrà un bicchiere di birra.»

«Sicché, Jim», disse il dottore, «tu hai ciò che loro cercavano, no?»

«Eccolo qui», risposi io porgendo il pacchetto di tela cerata.

Il dottore l’esaminò voltandolo e rivoltandolo per ogni lato, come se le dita gli pizzicassero dalla voglia di aprirlo, ma poi finì per metterselo tranquillamente in tasca.

«Cavaliere», diss’egli, «quando Dance avrà bevuta la sua birra gli toccherà naturalmente tornare al servizio Sua Maestà; ma io penso di trattenere qui Jim Hawkins: egli dormirà a casa mia; e frattanto, col vostro permesso, non si potrebbe fargli avere un po’ di pasticcio freddo?»

«Come volete, Livesey», disse il cavaliere, «Hawkins s’è guadagnato assai più che un pasticcio freddo.»

E così un abbondante pasticcio di piccione mi fu servito a una piccola tavola, e io cenai di gusto, giacché avevo una fame da lupo; mentre il signor Dance, ricolmato di complimenti, si era congedato.

«E ora, cavaliere...», disse il dottore.

«E ora, Livesey...», disse a un tempo il cavaliere.

«Uno alla volta! Uno alla volta!», rise il dottore. «Credo che avrete inteso parlare di questo Flint, nevvero?»

«Di Flint!», esclamò il cavaliere. «Se ho inteso parlare di Flint, mi dite! Il più tremendo dei pirati che mai tenessero il mare, era lui. Barbablu, al paragone, era un bambino. Gli spagnoli ne avevano una così smisurata paura che, vi assicuro, signore, io qualche volta ero persino fiero di saperlo inglese. Con questi occhi ho veduto i suoi velacci al largo di Trinidad; ebbene: quel vigliacco di figlio d’un ubriacone col quale navigavo, se la svignò: sissignore, se la svignò, e si rifugiò nel Porto di Spagna.»

«Ebbene, io pure ho sentito parlar di lui in Inghilterra», riprese il dottore. «Ma l’importante è sapere: aveva o no del denaro?»

«Del denaro?», saltò su il cavaliere. «Non avete dunque inteso la storia? E che cosa cercavano quei furfanti, se non denaro? Di che cosa mai s’interessano, se non di denaro? Per che cosa rischierebbero la loro maledetta pelle, se non per il denaro?»

«È ciò che sapremo presto», replicò il dottore. «Ma voi vi riscaldate, e m’imbrogliate talmente con le vostre esclamazioni, che io non riesco ad aprir bocca. Ciò ch’io vorrei sapere, è questo: supponendo che io abbia qui nella mia tasca il filo capace di condurmi dove Flint ha seppellito il suo tesoro, credete che quel tesoro possa essere importante?»

«Importante? Per darvene un’idea, se noi possediamo il filo di cui mi parlate, io armo un bastimento nel porto di Bristol, prendo con me Hawkins e voi, e trovo il tesoro, dovessi impiegare un anno a cercarlo!»

«Ottimamente! E allora, se a Jim non dispiace, apriremo il pacchetto», disse il dottore.

E lo posò sulla tavola.

Ma siccome il pacchetto era cucito, fu costretto a prendere nella sua borsa le forbici chirurgiche per tagliare i punti, dopo di che venne fuori il contenuto: un quaderno, e una carta suggellata.

«Prima di tutto vediamo il quaderno», disse il dottore.

Gentilmente egli mi aveva invitato a partecipare al piacere delle ricerche; e io, levatomi dalla mia tavola, mi sporgevo ora di sopra delle sue spalle, insieme col cavaliere, a guardare il quaderno aperto. Sulla prima pagina apparivano soltanto alcuni brani di scritto, come quelli che un uomo con una penna in mano potrebbe tracciare per oziosaggine o per esercizio. Uno di essi riportava il testo del tatuaggio «Billy Bones se ne infischia». E poi c’era «Mr. W. Bones pilota» «Non più rum» «L’ha avuto al largo di Palm Key» e alcuni altri scarabocchi: vocaboli isolati, per lo più, e incomprensibili. Io non potei fare a meno di domandarmi chi era che «l’aveva avuto» e che cosa «aveva avuto». Una coltellata nella schiena, forse.

«Poco ci si ricava, qui», disse il dottor Livesey, seguitando a sfogliare.

Le ulteriori dieci o dodici pagine erano riempite di curiose annotazioni. C’era una data, a un capo della riga, e all’altro capo una somma, come negli ordinari libri di commercio; con in mezzo, invece di un testo esplicativo, un certo numero di crocette. Al 12 giugno 1745, per esempio, una somma di settanta sterline risultava chiaramente accreditata a qualcuno, e in luogo del motivo non si vedevano che sei crocette. In alcuni punti era stato evidentemente aggiunto il nome della località, come «Al largo di Caracas», oppure una semplice indicazione di latitudine e longitudine, come 62° 17’ 20’’, 19° 2’ 40’’.

Le registrazioni abbracciavano un periodo di circa vent’anni; gli importi crescevano a ogni piè di pagina, e in ultimo, dopo cinque o sei tentativi di addizione sbagliati, un gran totale era stato fatto con aggiunte le parole «Bones, il suo gruzzolo».

«Non ci capisco un’acca», disse il dottor Livesey.

«È chiaro come la luce del sole», ribatté il cavaliere, «codesto è il libro di conti di quella canaglia. Le crocette rappresentano navigli affondati o città saccheggiate. Le somme indicano la parte toccata al miserabile; e dov’egli temeva un equivoco, aggiungeva, come vedete, qualcosa di più preciso. Guardate: “Al largo di Caracas”. Qui si tratta di qualche disgraziato naviglio assalito al largo di quella costa. Dio assista l’anima dei poveretti ch’erano a bordo; da tanto tempo saranno diventati corallo.»

«Giusto!», osservò il dottore. «Ecco che cosa significa aver navigato. Giusto! E si vede che le somme aumentano di mano in mano che egli sale di grado.»

Null’altro v’era nel quaderno all’infuori delle posizioni di alcuni luoghi registrate negli ultimi fogli bianchi; e una tavola di equivalenze per le monete francesi, inglesi e spagnole.

«Uomo avveduto!», esclamò il dottore. «E tale da non lasciarsi facilmente imbrogliare.»

«E ora», riprese il cavaliere, «passiamo all’altro.»

La carta era stata suggellata in parecchi punti adoperando come sigillo un ditale: lo stesso ditale forse che io avevo rinvenuto nella tasca del capitano. Il dottore ruppe con molta precauzione i sigilli, e ne uscì la pianta d’un’isola con i dati di latitudine e longitudine, fondali, nomi di alture, baie e imboccature, e ogni altra indicazione necessaria a poter portare un bastimento presso la costa in un sicuro ancoraggio. Misurava quest’isola circa nove miglia in lungo e cinque in largo, simile nella forma a un grosso drago rampante, e aveva due porti assai ben riparati, e nel centro una collina denominata «Il Cannocchiale». Vi erano alcune aggiunte di data posteriore; e, particolarmente visibili, tre croci in inchiostro rosso: due nella parte nord dell’isola, una a Sud-ovest; inoltre, accanto a quest’ultima, nel medesimo inchiostro rosso, in una minuta e linda scrittura ben diversa dai tremolanti caratteri del capitano, queste parole: «Qui il grosso del tesoro».

Sul rovescio del foglio, la stessa mano aveva tracciato i seguenti ulteriori ragguagli:


Grande albero, contrafforte del Cannocchiale, punto in direzione N.-N.-E., quarta a N.

Isola dello Scheletro E.-S.-E., quarta a E.

Dieci piedi.

La barra d’argento è nel nascondiglio nord; trovasi nella linea del poggio est, dieci braccia a Sud della prospiciente rupe nera.

Le armi saranno presto trovate, nella collina di sabbia, all’estremità N. del capo della Baia Nord, direzione E., e una quarta N.

J. F.


Null’altro: ma, pur nella sua brevità, e per quanto a me incomprensibile, il documento colmò di gioia il cavaliere e il dottore.

«Livesey», proruppe il cavaliere, «voi lascerete immediatamente codesta vostra misera clientela. Io domani filo a Bristol. Tempo tre settimane — tre settimane! — due settimane — dieci giorni forse, avrò a mia disposizione il miglior bastimento d’Inghilterra, e la schiuma degli equipaggi. Hawkins ci accompagnerà come mozzo. Tu, Hawkins, sarai un mozzo eccellente. Voi, Livesey, sarete il medico di bordo; io l’ammiraglio. Prenderemo con noi Redruth, Joyce e Hunter. Avremo venti favorevoli, una rapida traversata, e troveremo il sito senza la minima difficoltà, e denaro a palate e a mucchi, da rotolarcisi dentro e affogarci fino alla fine dei nostri giorni.»

«Trewlaney», disse il dottore, «io verrò con voi, e vi garantisco che Jim farà altrettanto e si farà onore. Non v’è che una persona, che mi preoccupi...»

«E chi è costui?», esclamò il cavaliere. «Ditemi il nome di questo poco di buono.»

«Voi», rispose il dottore, «perché non siete capace di star zitto. Noi non siamo i soli a conoscere questo documento. Quei messeri che stanotte assalirono l’albergo — diavoli scatenati e disperati se mai ve ne furono — come pure gli altri della combriccola rimasti a bordo del trabaccolo, e altri ancora io credo non molto lontani di qui, son decisi come un sol uomo a tutto pur di entrare in possesso di quel denaro. Nessuno di noi deve andar solo finché non saremo imbarcati. Jim e io frattanto non ci staccheremo l’uno dall’altro; voi andando a Bristol vi farete accompagnare da Joyce e da Hunter; e nessun di noi dovrà lasciarsi sfuggire una sillaba a proposito della nostra scoperta.»

«Livesey», replicò il cavaliere, «voi avete sempre ragione. Io sarò muto come una tomba.»