L'innamorata/Parte seconda/I

Parte seconda - I

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Parte seconda Parte seconda - II


I saloni del banchiere israelita von Moos fiammeggiavano di lumi e si popolavano a mano a mano di dame, di deputati, di giornalisti, di finanzieri, di signori accorsi al primo ricevimento della stagione.

Sotto la luce chiara delle migliaia di candele che ardevano nei lampadari, era uno scintillio vivo di ori, di gemme, di diamanti, di perle; un fruscio largo e non interrotto di rasi, di broccati, di trine, di velluti; un lampeggiar caldo di pupille nere, grige, verdi, cerulee, di chiome nere, rosse, bionde, cineree, color di rame; di braccia bianche e fiorenti, di seni colmi, di spalle lunate. Di quando in quando le marsine nere dei gentiluomini rompevano severamente la folla varia e gioconda di quelle forme e di quei colori abbaglianti; delle coppie passavano, si incontravano, si fiancheggiavano, si fermavano, si dividevano, si mescolavano, lentamente e continuamente: i cavalieri, con il gibus sotto un braccio e l’altro inarcato a sostenere il braccio inguantato delle dame, si chinavano ad ascoltare o a rispondere, discretamente, sbirciando ogni tanto istintivamente lo strascico della loro compagna, per paura di mettervi un piede sopra. Passavano signore giovani e signore attempate; vecchi funzionari dall’aspetto grave e austero; giovani snelli che davano il braccio a signorine; signore sole, rialzando con una mano leggermente lo strascico; ufficiali in gran tenuta. E gli specchi alti riflettevano e moltiplicavano, da una parte e dall’altra, quell’avvicendarsi vertiginoso di invitati, i lumi dei lampadari, i gruppi e le coppie, gli agitamenti dei ventagli, gli inchini dei gentiluomini e i sorrisi delle dame.

La signora von Moos, moglie del banchiere, grassa, dai grandi occhi bovini, in un abito verde pallido, sparso di azalee, faceva mirabilmente gli onori di casa. Donna Ortensia d’Agrippa, che era divenuta più fresca e più bella dopo l’abbandono del conte Cappello, vestiva di broccato giallo a bottoni d’oro, e andava qua e là al braccio dell’ambasciatore turco, cercando la sua piccola amica, Margherita von Moos, la nipote del banchiere. La trovò che ballava una quadriglia, nella sala di mezzo, al braccio di Giorgio Ozanil raggiante di rumorosa allegria nella sua gran barba nera che destava l’invidia di tutti gli amici. Le più grandi dame dell’aristocrazia e dell’alta borghesia passavano di quando in quando: la contessa Santacroce si rizzava semplice e fiera nell’abito bianco ricamato d’argento; la duchessa di Monleone, in broccato bianco sparso di grandi mazzi di fiori, ballava con il primo segretario dell’ambasciata di Spagna; la principessa di Chiusi portava fra i capelli neri una perla enorme contornata di diamanti, come una costellazione ardente; la signorina Broga, in tulle verde lago, una collana di perle alla gola, ballava con il duca di Canne; la signora Ormatoff, una russa, appoggiata alla mensola di uno specchio, pareva sorvegliare la quadriglia e ogni tanto ammiccava verso la porta, come per scoprire qualcuno: un diadema di brillanti sfavillava sulla sua voluminosa capigliatura di un colore d’oro caldo. E la musica dell’orchestra copriva il rumore delle voci e delle risa, si mescolava all’animazione di tutte le sale, rilevava i brani di conversazione, gli atti delle dame, le maldicenze sommesse dei gentiluomini. Ogni tanto, qualche signorina, qualche signora giovane attraversava i gruppi degli invitati, e correva da una parte: delle signore si alzavano, delle altre si mettevano a sedere, stanche e rosse dal ballo: un effluvio di essenze, di cipria, di fiori, di carni femminili riempiva l’aria già calda, accrescendo lo stordimento prodotto dai lumi, dal continuo avvicendarsi della gente, dal rumore del ballo e dell’orchestra, dall’ebbrezza tumultuosa della serata.

Nel vano di una finestra il Sant’Elmo, sempre con quel suo sogghigno di scetticismo annoiato sulle labbra, diceva a Giorgio Ozanil che aveva finalmente lasciata la signorina Moos:

- Hai finito, ragazzaccio? Adesso, o vieni via, o vado via solo; perché non intendo mancare alla cena della Perla di Granata.

- Vengo subito disse l’altro - ma lasciami almeno riposare un momento, seccatore che sei!

- Bisogna essere un gran bambinone, come te, per divertirsi ancora a fare dei salti - continuava il Sant’Elmo, scrollando la testa calva.

In quel momento la signora von Moos passava al braccio di Paolo Cappello, dicendo:

- Eh via, chi crede oramai a tutte le vostre dichiarazioni?

- Sembra che Paolo si consoli - disse il Sant’Elmo con il suo risolino stridente.

- Perbacco! ma Leona si è consolata da un pezzo - rispose l’Ozanil che seguitava ad asciugarsi la fronte.

- Sai se Paolo sia stato invitato anche lui?

- Dove?

- Alla cena di Leona.

- Sicuro!

- Si vede che quel Caligaris ha dello spirito. Io, per me, ho sempre avuto più paura dei rivali passati che di quelli a venire.

- Oh sai bene che Caligaris è un filosofo! Lui lascia fare a Leona tutto quello che le pare e piace; e scommetto che se Leona vorrà procurarsi degli altri amanti...

- Mi iscrivo!... - gridò Sant’Elmo con un leggera risata.

- Eh, per ora non c’è pericolo - riprese l’Ozanil con accento di malinconia. - A Nizza il principe di Cusa le fece una corte spietata, e non riuscì a ottenere neanche una stretta di mano.

- Che sia sempre innamorata di Paolo, quella bizzarra spagnola?...

- Chi lo sa? A buon conto Paolo, a quel che vedo, fila il sentimento con quella vecchia pazza della Moos...

- ...per sposare i milioni della nipote - soggiunse il Sant’Elmo.

Ma come, in quel momento, Paolo Cappello veniva alla volta dei due amici, essi tacquero.

- Ebbene - domandò Paolo con quel suo tono di tranquilla indifferenza - si va dalla Leona?

- È un’ora che lo dico, io! - esclamò il Sant’Elmo - se non vado via, mi addormento in piedi.

- Andiamo! - concluse Giorgio Ozanil.

E attraversando la folla delle signore che sedevano o passeggiavano, e dei cavalieri che si affollavano sulle porte, tutti e tre uscirono.

Paolo Cappello non andava alla cena di Leona senza una certa trepidazione, a cui si mesceva un’acuta curiosità di sapere che effetto la sua presenza avrebbe fatto alla donna. Quando ella lo aveva lasciato, a Napoli, egli aveva tratto un sospiro d’interna soddisfazione, quasi che si fosse liberato da un peso che gli stava sullo stomaco; si era rappattumato con la madre, aveva pagato i suoi debiti e se ne era andato in Svizzera, durante l’estate, senza più pensare a Leona.

Tornato a Roma sui primi di novembre, aveva saputo che Leona, divenuta l’amante di Gabriele Caligaris, stava a Nizza, e si divertiva: i giornali francesi, nei loro echi mondani, la citavano spesso, descrivevano le sue acconciature, vantavano la sua bellezza e il suo brio. A quelle notizie, Paolo aveva provato una fitta al cuore: non che amasse più Leona, ma gli rincresceva che ella potesse fare a meno di lui. Davanti agli amici posava a uomo che ne avesse avuto abbastanza di lei; ma gli amici scrollavano la testa, con aria incredula: si accordavano tutti a sospettare che Leona fosse stata lei invece che lo avesse piantato; e ciò gli dava una noia, un dispetto anche maggiore di quello che egli avrebbe provato se la cosa fosse andata veramente così. Ma come Leona era lontana, le occasioni di ricordarla non capitavano troppo spesso: Paolo seguitava a far vita allegra, e ora si era messo attorno alla signora Moos, una donna di quarant’anni che si conservava abbastanza fresca da poter essere desiderata.

Il villino abitato da Leona si trovava in via Varese, solitario tra i fabbricati recenti di quella parte di Roma. I tre amici vi giunsero in legno chiuso, discesero e suonarono il campanello elettrico del cancello chiuso: un portiere alto, in livrea, tutto raso, venne ad aprire.

Salirono per una larga scala di marmo coperta di un lungo tappeto di Smirne e fiancheggiata di statue, di arazzi, di vasi di fiori; e sulla porta trovarono due camerieri che li liberarono delle pellicce e dei bastoni, mentre il maggiordomo andava ad annunciarli.

Il salone di Leona era già pieno di gente. Le più famose cortigiane di Roma vi facevano mostra della loro bellezza. Teodora Wolf, la superba creatura bionda che aveva sulla coscienza la rovina di un avvocato principe, il quale per lei si era messo perfino a truffare i propri clienti, portava un abito di damasco verde Nilo: il tulle sboffante che le circondava, come una nuvola, il seno, era imprigionato in un corsaletto di velluto colore di scarabeo, orlato d’oro. La veste aderente era guarnita di trina di Venezia fermata da nodi di velluto colore di scarabeo. In testa ella aveva un arco di luna in brillanti, e sorrideva freddamente alle galanterie che le diceva un bel giovane bruno, primo segretario dell’Ambasciata di Francia. Paula, la famosa Paula, a cui un arciduca d’Austria era corso dietro per tutta l’Europa, era vestita di un abito color di rosa a rabeschi d’argento, e come era molto scollata, il suo seno bianco pareva sbocciare, quasi fiore meraviglioso, di tra una fila di grosse perle che scintillavano ai lumi. Cera anche Nadina Krasoff, la selvatica russa mantenuta dal principe Spada; e la sua alta figura un po’ teatrale si drappeggiava stupendamente in un vestito di crespo della Cina di un celeste pallido guarnito di un vaporoso merletto di Fiandra ingiallito dal tempo: dotta conoscitrice dell’arte di amare e di farsi amare, ella non aveva alcun ornamento né al collo, né agli orecchi, né sulle braccia; così le sue carni ignude, di una bianchezza di latte, si rivelavano intere: solo una stella di diamanti tremolava e scintillava fra i suoi capelli di un colore luminoso di rame. Si sapeva che un giovane duca, appartenente all’aristocrazia nera di Roma, si struggeva da un pezzo per lei, e infatti aveva sollecitato un invito da Leona; ma Nadina aveva posto per condizione alla propria venuta che quel "figliuolo di prete", come lei lo chiamava, non le capitasse davanti: Leona, sorridendo, aveva promesso che il duca non sarebbe stato invitato. Altre donne, in eleganti acconciature, sedevano qua e là per il salone, ridendo, chiacchierando, agitando i ventagli; dei gentiluomini e degli ufficiali, in piedi o seduti vicino alle donne, si inchinavano ogni tanto con sorrisi discreti, stretti nella marsina come in una maglia di acciaio, facendosi vento con il gibus, pronti ad accorrere a un appello che veniva spesso dal lato opposto della stanza, corretti come se si trovassero a Corte.

Ma bella fra tutte le belle era Leona, la padrona di casa. Portava un abito di raso color bottone d’oro, tempestato sul davanti di perle; a strascico di moerro sopra colore riccamente guarnito di Malines; i fermagli del vestito e la collana che le avvolgeva la gola erano formati di rubini e brillanti grossi come nocciole; in testa, sull’onda tenebrosa della magnifica capigliatura, ella, con un senso di squisita civetteria, non aveva fuorché una rosa naturale, una stupenda rosa thea, dietro l’orecchio. Pareva leggermente ingrassata; il suo aspetto, sempre vivace, non aveva più l’aria fanciullescamente spensierata di un tempo: a volte, ella interrompeva improvvisamente una di quelle sue fresche e rumorose risate, come ricondotta improvvisamente a un pensiero molesto. Ma era l’affare di un istante; subito dopo, la naturale franchezza dell’indole ripigliava il sopravvento, e la gentile creatura non badava più che a divertirsi e a far divertire.

Il conte Paolo Cappello entrò nel salone ammiccando in giro per riconoscere qualcuno; poi si avviò alla volta di Leona e le fece un inchino cerimonioso e profondo sino all’affettazione. Si aspettava, da parte di Leona, un’accoglienza fredda; lei, al contrario, fece un vivo atto di piacere, vedendolo; gli stese la mano, la bella mano bianca coperta di anelli e gli disse:

- Oh, caro Paolo! Cuanto me gusta di vedervi dopo tanto tempo che non ho avute vostre notizie! Che ve ne siete fatto della vostra vita? Sedete un po’ qui: raccontatemi!

Tutto questo era detto con tanta sincerità, con tanta disinvoltura, che il conte rimase un po’ imbarazzato. Sedette vicino a Leona, e le raccontò come aveva passato l’estate in Svizzera, a Saint-Moritz, dove era freddo quasi come l’inverno; le descrisse le escursioni fatte sulle montagne, le persone che aveva veduto, i guadagni che aveva fatto al giuoco, perché - caso straordinario! - quell’anno aveva avuto fortuna...

- E a Napoli ci siete più stato? - interruppe semplicemente Leona.

- Oh no!... mi farebbe troppo male - rispose Paolo tentando di pigliare un accento sentimentale.

Leona diede in una sonora risata; e, come un’amica le si accostava per domandarle qualcosa, ella piantò Paolo e andò con l’amica dall’altra parte del salone.

Paolo guardava attorno a sé tutta quella folla varia e rumorosa, e provava un’uggia indefinibile. Si aspettava, entrando in quella casa, di suscitare almeno la curiosità; e si era dovuto accorgere che nessuno gli aveva badato, né quando egli era entrato, né quando aveva salutato la sua antica amante, né quando lei l’aveva lasciato lì per andare a dare qualche ordine nella sala da pranzo. I vicini stessi, coloro che circondavano Leona, l’avevano guardato alquanto con aria di indifferenza; poi avevano seguitato a ragionare tra di loro. Perfino i suoi stessi amici, quelli che l’avevano accompagnato, l’Ozanil e il Sant’Elmo, dopo avere salutato Leona, si erano dispersi tra la folla; e ora, cercandoli con gli occhi, egli vide che assediavano entrambi Teodora Wolf, ridendo e celiando, come per obbligarla a raccontare qualcosa che ella non voleva dire. Ma dai loro gesti, dall’ardore della conversazione, si capiva che tutto quel tempo non avevano neanche avuto l’idea di guardare quel che facesse Paolo; il quale, con suo sommo dispetto, si trovava a non aver preso importanza nella vita di Leona, né agli occhi di lei, né agli occhi della società dove più avrebbe desiderato che quella avventura si fosse risaputa.

Poco dopo, infatti, egli ebbe l’amara riprova della poca traccia che aveva lasciato il colpo di testa di Leona per lui. Si era fatto presentare a una certa Giuliana Gioia, una della vecchia guardia, che da un pezzo aveva lasciato gli affari e viveva di rendita. Giuliana conosceva tutti i pettegolezzi e tutti gli scandali del mondo galante di Roma; possedeva un occhio infallibile per giudicare quel che una donna di piacere poteva costare al suo protettore, e nessuno sorprendeva con maggior penetrazione di lei gli intrighi che si annodavano e si scioglievano in quell’ambiente superficiale e giocondo.

Parlarono di Leona.

La Gioia raccontò che il Caligaris era davvero un gentiluomo, che non molestava per nulla la sua amante; che persino le domandava il permesso di andarla a vedere, e che pagava per lei più di cinquantamila lire l’anno.

- Del resto - concluse - ha ragione: Leona è una buona creatura, e poi non ha avuto altri amanti prima di lui.

Paolo abbozzò un sorriso di ironia consapevole, e disse:

- Qualcuno credo che ne abbia avuto.

- Dove? - strillò Giuliana, ferita nel suo amor proprio di testimone infallibile della moderna galanteria.

- A Napoli - rispose Paolo.

- Ah, so, so - concluse Giuliana, calmandosi - un ragazzo, nevvero? uno del Circo, mi pare; ma già, quello non conta: si comincia sempre così. Il mio primo amante, immaginatevi, fu il mio maestro di ballo.

In quel momento fu dato il segnale della cena. I signori offrirono il braccio alle donne; a poco a poco il salone si spopolò, e tutti passarono nella sala da pranzo.

Paolo, molto seccato, vi entrò dietro gli altri, dando il braccio a Giuliana Gioia, grassa, tozza, burrosa e coperta di brillanti e di raso.

Gli invitati sedettero, e la conversazione ricominciò più animata di prima. Leona si trovava al posto d’onore, e aveva a destra un capitano di cavalleria, a sinistra Giorgio Ozanil, che non smetteva mai di ridere e di rumoreggiare, da quel fanciullone che era. Il conte Paolo rimase, con la sua dama, in fondo alla tavola, e quasi di rimpetto a lui vide Gabriele Caligaris che serviva le ostriche a Nadina Krasoff, guardando ogni tanto dalla parte di Leona con un sorriso ambiguo e indulgente. La tappezzeria della camera, tutta rossa, di stile araldico, a grandi leoni rampanti, che scintillavano nella luce degli alti candelabri di bronzo, metteva quasi nei convitati una maggiore allegria: due enormi mazzi di fiori, ai due lati della lunga tavola, esalavano una fragranza acuta.

- A proposito - disse un giovane biondo che sedeva dirimpetto a Leona - voi che venite da Nizza! ma è poi vera la storia del duello fra Luigia Satin e Maria Landi?

- Diavolo! - disse il capitano di cavalleria, scrollando una spalla - ne parlava anche oggi il Gil Blas.

- Vero, vero, verissimo! - esclamò, col suo dolce accento castigliano Leona, interrompendo una conversazione con Giorgio Ozanil, i cui occhi sfavillavano d’ilarità, come al solito.

- E com’è andata? - riprese il giovane biondo.

- È andata così. Luigia Satin era l’amante del marchese di Morales, un americano, brutto, ma brutto!... una scimmia. Maria Landi glielo portò via. Luigia Satin, non sapendo come sfogare la sua rabbia, perché il marchese le dava quanti denari voleva, una sera, a teatro, mentre Maria al braccio del duca attraversava il vestibolo, le diede di "stracciona di un’italiana". Maria si voltò, e le ruppe il ventaglio sul muso. Le separarono; ma il giorno dopo Luigia Satin mandò a sfidare la rivale. Muy bien, non e vero?

- E come andò a finire?

- Scesero sul terreno. Ma siccome le donne non si intendevano di duelli, invitarono a dirigere il combattimento il capitano Fallardi: voi lo conoscete, Mineo? - soggiunse Leona, guardando l’ufficiale di cavalleria.

Questi accennò di sì con la testa. Leona riprese:

- Dunque, andarono sul terreno. Il duello era alla spada. Luigia Satin era assistita da Emma Dickens e Cora Coral; Maria, da Adele Gloria e da Virginia Nardones. Ma prima di farle mettere in guardia il capitano Fallardi ordinò che le combattenti si spogliassero nude fino alla cintola.

- Brigante di un Fallardi! - esclamò il capitano Mineo, tra le risa dei commensali.

- E così? - insistette il giovane biondo, vivamente interessato da quel racconto.

- Ebbene, si spogliarono. Ma quando il capitano se le vide davanti in quel costume... No, no, no se puede... no se puede... - esclamò improvvisamente la narratrice, rovesciandosi indietro sulla spalliera della seggiola e ridendo fino alle lacrime.

- Avanti! avanti! - gridavano tutti, da ogni parte della tavola.

I vini ardenti e i cibi squisiti avevano alquanto esaltato i cervelli: dappertutto erano risa, richiami, celie, conversazioni, un baccano che cominciava a passare i limiti del convenevole.

Teodora Wolf, gli occhi lustri e imbambolati, stava ad ascoltare, con la guancia appoggiata a una mano, le barzellette un po’ troppo crude del Sant’Elmo; Paula vuotava coppe di vino di Sciampagna, giurando che avrebbe scommesso una discrezione con chiunque avesse voluto tenerle testa nel bere; Nadina Krasoff canticchiava delle canzoni russe a Gabriele Caligaris che la guardava attraverso il fumo di una sigaretta, socchiudendo gli occhi cauti e enimmatici; Giuliana Gioia era divenuta idillica, e dichiarava al conte Cappello di voler andare a passare il resto della sua vita in una casetta bianca, sulla riva del mare, con uno che l’amasse di amore puro e sincero.

Ma Paolo aveva altro per la testa. Lontano da Leona, attorno a cui cresceva ogni momento la rumorosa allegria dei giovani più noti per le loro abitudini di lusso e di galanteria, egli si sentiva solo, dimenticato; e provava un’invidia segreta per coloro che si trovavano nelle grazie della sua amante dell’anno avanti, un sentimento angoscioso di averla lasciata partire, di averla quasi buttata nelle braccia di un altro. La guardava spesso, senza riuscire mai a incontrare gli occhi di lei; e alla vista di quella bellezza così fresca, così fiorente, così originale, non sapeva capacitarsi come avesse potuto stancarsene. Anche l’umiliava alquanto il pensiero di non averle potuto mai procurare il lusso in cui ella adesso viveva; e dava a se stesso la colpa di averle fatto conoscere questo nuovo genere di vita, al cui confronto non poteva certo guadagnarci quello, assai più modesto, che egli le aveva potuto offrire e permettere. Ma quello che gli pareva più strano, era che egli non sentiva di desiderarla: avrebbe voluto soltanto che ella dimostrasse per lui almeno tanta premura quanta ne dimostrava per il capitano Mineo, per Ozanil, per Sant’Elmo, per tutti quegli altri che ora, a pranzo finito, le si affollavano dattorno.

Un momento pensò di alzarsi egli pure come gli altri, e di andare vicino a lei. Ma che cosa le avrebbe detto? Tutta la leggerezza del suo spirito lo aveva abbandonato, e non si sentiva di sciorinarle delle celie un po’ libere, come facevano gli altri; avrebbe voluto parlarle a lungo seriamente e intimamente, e ciò non si poteva in quel luogo, davanti a quella gente, senza diventare supremamente ridicolo. Rimase al suo posto, soffrendo come non aveva sofferto mai nella sua vita.

Improvvisamente una voce, quella di Nadina Krasoff, rispose:

- Andiamo nel salone a fare quattro salti.

- Brava, andiamo a ballare - approvò Leona, battendo le mani con gioia infantile.

- E chi suona? - disse Paula.

- Suona Sant’Elmo.

- Ah no, mia cara! - riprese questi - scusatemi tanto, ma io intendo di fare la mia digestione in pace.

- Que feo! - esclamò Leona imbronciata.

- Non importa, suono io - dichiarò Gabriele Caligaris che, fino allora, si era tenuto, con molto buon gusto, nell’ombra.

Tutte le donne batterono le mani, e precedute da Gabriele, tornarono in tumulto nel salone. Gabriele sedette al piano, e attaccò un valzer di Strauss; già cinque o sei coppie erano formate e si slanciarono in danza.

Paolo era tornato nel salone con gli altri, macchinalmente. Girò gli occhi dattorno, e vide Leona che ballava con il capitano Mineo: egli le mormorava qualcosa all’orecchio, ella, rossa e vibrante, rideva. Allora Paolo provò, per la prima volta, una punta acuta di gelosia. Aspettò che i due gli passassero accanto per vedere se gli riusciva di sorprendere qualche parola: non gli riuscì, perché prima di arrivare fino a lui, la coppia si fermò.

Tre o quattro signori corsero verso Leona, reclamando ciascuno il suo turno. Toccava al giovane biondo, che fece egli pure tre o quattro giri con la padrona di casa. Poi fu la volta di Ozanil, poi di un altro, poi del segretario dell’Ambasciata di Francia. Alla fine, Leona stanca, anelante, rossa in viso, si lasciò cadere sopra un divano per riposarsi. Un istante, rimase sola.

Allora Paolo le si accostò, e le sedette vicino. Aveva un aspetto così stralunato, che lei gli domandò subito:

- Che avete? vi sentite male?

- Soffro, soffro molto - rispose Paolo con voce piena di lacrime. L’accento di quelle parole era così sincero, che Leona, la quale aveva cominciato ad abbozzare un sorriso di interno trionfo, non ebbe cuore di mostrarsi crudele; lo guardò in faccia, gli vide gli occhi umidi, e presa improvvisamente come da un’onda di tenerezza:

- Que chico! - mormorò sorridendo. E soggiunse: - Si suona una mazurka, sentite? Volete fare un giro con me?

- Oh sì! - rispose lui, sorridendo riconfortato, come un bambino a cui si perdoni, dopo una partaccia, qualche gran malefatta.

Così stretto a lei, stringendole forte la mano e circondandole con un braccio la vita, egli le disse con voce rotta, come poteva nei giri del ballo, tutto ciò che aveva patito quella sera; le protestò che l’amava, che l’amava ancora, perdutamente; le domandò perdono dei torti che aveva avuto verso di lei; le ricordò i baci, le carezze, le dolci sere di Napoli. Parlava, parlava, ebbro di dolore, ebbro di musica, cercando di persuadere, di esaltare, di commuovere, dimenticando il luogo ove si trovavano, con la sensazione di volare come in una nuvola calda e profumata, in alto, in alto, per aria. La musica, improvvisamente, cessò; e si fermarono. Leona non aveva profferita una parola. Egli si guardò attorno, come istupidito; i lumi della sala gli abbacinavano gli occhi; tutta quella gente, attraverso la polvere sollevata dai ballerini, gli pareva quasi una visione di sogno. La voce di Leona lo riscosse:

- Venite a trovarmi oggi, alle cinque.

Il capitano Mineo, in quel momento, s’inchinava davanti alla donna, e le diceva:

- Se credete, la quadriglia incomincia.