Piero Gobetti

1925 Autobiografie Letteratura L'editore ideale Intestazione 16 aprile 2017 25% Autobiografie

L'infanzia1

La mia educazione di bambino fu alquanto sommaria, affidata, come succede, a me stesso.

Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio. Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante. Nel presente invece godevo della mia libertà, correvo per i campi e lungo le rive del fiume. Da questa vita di campagna non nacque in me nessuna tendenza idillica. Il sentimento piú profondo che la natura mi ispirò fu allora di mistero e mi valse come un richiamo alle mie meditazioni. In genere prevaleva in me il senso dell'avventura umana. Per adattare un linguaggio estetico a un tempo in cui io letteralmente non sapevo cosa fosse la poesia direi che io mi trovavo nel mondo dell'epica e della drammatica; della lirica capivo soltanto la forma gnomica.

* * *


In casa non potevo non sentire due preoccupazioni che a mio padre e a mia madre toglievano il sonno. L'impegno del loro lavoro era di arricchire e arricchire non soltanto per trovare la vita piú facile ma per tener alta la testa, permettersi e permettermi una vita dignitosa. In quanto a me essi pensavano di dovermi dare un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere. In tutte le imprese di mio padre l'audacia e la bellezza dei suoi progetti [...]

Racconto interrotto2

Non ho mai scritto direttamente di impressioni totali di vita. Il mio metodo di lavoro in questo tentativo è perciò rudimentale. Ho la certezza di cose importanti da rilevare. Non ho un'idea della disposizione delle parti. Perciò mi affido al racconto con la fretta di sapere come me la caverò nel metter insieme piú cose che sarà possibile. Appena avrò visto la materia del mio primo getto non dubito che saprò scriverla; per ora si tratta solo di provare le mie capacità di ricordo.

I

La vista del ginnasio a chi venisse da via del Palazzo restava coperta fino a che non ci si era giunti: un gigantesco palazzo con torri chiudeva la strada e gli dava il nome. Al ginnasio – di costruzione recente, bianco, umile, uguale ad ogni altra casa, col solo contrassegno di uno stemma e di un'asta, con due alberi piú alti dell'ultimo piano, piantati nella palestra stretta e povera – si arrivava girando intorno al Palazzo da destra o da sinistra. Tra il Palazzo e il ginnasio restava un grosso tratto di piazza, un ideale campo di battaglia per scolari umanisti in erba cui i ruderi romani presenti evocavano tradizioni eroiche, svogliatamente apprese dal maestro di storia. Un ricordo piccante e superbo, sebbene per l'audacia epica di un fanciullo anche un paesaggio francescano possa risvegliare istinti di lotta con ingenuo impeto.

L'uscita di uno stuolo di ragazzi da una scuola di studi secondari è un tema classico nella letteratura dei maestri e dei padri di famiglia. De Amicis ne ha lasciato un modello con tutti i particolari. A voler seguire con fedeltà gli esempi classici, ogni descrizione dovrebbe finire con dolci considerazioni sentimentali: c'è della mestizia nascosta nella loquace festosità, la vista dei fanciulli fa pensare anche gli ottimisti alla malvagità dei grandi.

Noi non ci sentiamo di toccare corde cosí profonde né di levare le nostre considerazioni tanto in alto al disopra nel mondo metafisico dei sentimenti propri non piú di un uomo, ma dell'umanità. Il lettore resti avvertito che tutte le volte nei momenti piú topici noi gli mancheremo tragicamente quando egli ci chiederà una scena di pathos tragico. Ci riesce difficile andare oltre alla narrazione di ordinati ricordi.

Nel tempo in cui il nostro racconto si svolge un osservatore spregiudicato avrebbe dovuto notare che l'uscita di scuola era stranamente simile all'entrata. Il motivo della fuga di cento indemoniati da un luogo odiatissimo è vero anche nel caso nostro solo com'è vero che in tutti i tempi tutte le scuole non vogliono essere se non un sistema di costrizione in cui si misura in fruttuosa gara la pazienza degli scolari e dei maestri. Era successo per questi anni di nostro ricordo che la pazienza degli scolari si fosse unita a qualche arroganza e giocando d'astuzia sul rimbambimento dei professori e sulla pazzia dei tempi riusciva, almeno ai piú abili, di continuare in scuola la vita della strada. Cosí non ne uscivano piú come da un carcere, ma pacatamente, e le partite incominciate di soppiatto si finivano all'aria libera.

Scuola e strada erano diventate, in quei giorni accesi, un solo campo di battaglia. I partiti si combattevano con tutte le armi, fuorché nei riguardi scolastici, dove eran legati contro il nemico comune, contro il mondo dei grandi. Dare le soluzioni del tema, suggerire le lezioni: era una regola di diritto internazionale al disopra delle parti.

Invece ogni cortesia che riguardasse il costume era esclusa: i rapporti interni di vita si regolavano con le leggi della violenza. La sorveglianza dei professori era superata con l'astuzia che la pratica di guerra suggerisce. Fuori l'intensità del conflitto si accentuava. Ciascuno trovava le armi che gli erano proprie, le discussioni si facevano interminabili : chi aveva vinto sul terreno delle idee non rifiutava all'avversario la rivincita nel piú radicale corpo a corpo. La morale libera e scatenata dell'inesperienza e della franchezza voleva cosí: s'impegnava tutto per tutto. Appena scoppiata la guerra europea era successo che tra gli italiani il maggior numero fossero per la causa dell'Intesa: cosí tra i ragazzi che pur non erano in nessun caso democratici e anzi per esser in maggioranza si dedicavano volentieri alla pratica della violenza nazionalista. Per coerenza neanche i tedescofili potevano negare l'appello alle fisiche risorse, se pur si trovassero in pochi, destinati a combattere solo per far onore alle premesse.

II

Quella mattina non c'era aria di battaglia. Interventisti e neutralisti conservavano le loro diffidenze, ma ognuno s'avviava a casa sua.

Andrea e Michele si mossero insieme per discutere i loro problemi di tattica e di politica. Si conoscevano da tre anni ma solo da sei mesi si erano legati in un'amicizia di ferro. Tutti e due per educazione o per proposito poco sentimentali avevano avuto bisogno di coincidenza d'idee e di convergenza di posizioni per diventare amici.

Ma la loro era un'amicizia di due cervelli, fredda, senza espansioni. Abituati alla solitudine, tutti e due intellettualmente forti, capaci già di agire dignitosamente di fronte al mondo, nascondendo le preoccupazioni piú gelose, s'erano trovati bene insieme proprio perché non avevano bisogno di confidenze. Un'amicizia maschia: non corse mai tra loro un discorso che non fosse obbiettivo, che non riguardasse dei problemi. Non sapevano nulla di pettegolezzi personali, ignoravano i particolari della vita domestica.

Due figli di poveri, di piccoli borghesi in fatica. Michele era stato abituato a una morale austera e persino un po' gesuitica, un po' ipocrita. Il padre di Michele aveva lottato con la vita senza transigere: s'era sposato una donna rozza e fedele della montagna; sui tre figli aveva stabilito una morale famigliare d'imperio, una disciplina rigida e crudele. Con uno stipendio di maestro, arrotondato di lezioni serali, non avrebbe potuto senza crudeltà chiudere in pareggio il bilancio domestico. Tre figli a scuola, tutti e tre maschi, destinati tutti e tre all'università. Una casa sana ma stretta; la madre doveva pensare a tutto da sola. Con le regole dell'affetto [assetto?], la vita di cinque in tre camere sarebbe diventata insopportabile bisognava disporre le cose in modo che ognuno potesse lavorare senza impedire il lavoro all'altro. S'era ottenuto in quella casa un silenzio di cenobiti, una remissività, un senso dell'economia e del minimo mezzo insuperabili. Una confidenza fraterna, con una certa lontananza. Il dominio del padre esercitato su tutti e su ciascuno. Avevano imparato che i sacrifici non si misurano; che con lo stipendio annuo di 1200 possono mangiare 2 bocche, ma poi anche tre, quattro, cinque: basta misurare meglio le parti. Come i vestiti possono servire a turno per quattro persone combinando la durata con la diversità degli anni di ciascuno.

La forza di Michele era da questa austerità e da questo allenamento a contare illimitatamente sul sacrificio e sull'adattabilità dell'uomo. Ma nessun povero riuscirà mai a salvarsi dal peso di un'umiliazione che si legge anche nel suo modo di portar l'abito usato. In Michele l'umiliazione non cosciente si manifestava in una certa falsità fatta di paura. Aveva tremato troppe volte di fronte al padre per non essere pronto a transigere per evitare una scena. Non si sarebbe umiliato di fronte a nessuno: ma parlava qualche volta con troppa accettazione dei suoi parenti preti, dell'ospitalità estiva che gli era da loro offerta. La sua solidità intellettuale era minata dalla sua aridità: generoso di idee, i suoi sentimenti, i suoi impulsi non avevano un corso continuo e normale. Si veniva formando una filosofia ribelle; ma gli bastava tenersela per sé: in modo che suo zio prete non ne sospettasse. Non sarebbe mai stato un ribelle. Le sue doti di sopportazione non lo avevano mai allenato ad altra forma di resistenza, che la passiva.

Il segreto del carattere di Andrea invece era tutto nei suoi istinti di ribelle. La sua intelligenza sarebbe rimasta mediocre senza un bisogno assoluto di affermarsi col contraddire. Era vissuto in un ambiente piú aperto, di una relativa libertà, ma aveva avuto bisogno di foggiarsi anche nella vita domestica degli ostacoli da combattere e da superare. Aveva solo quattr'anni e vedeva il mondo come un ambiente in cui ognuno è solo e non è detto che col linguaggio ci si intenda. Nella sua fanciullezza a contatto coi campi e coi boschi, con la possibilità di fingere sempre nuove imprese avventurose, in confidenza col fiume piú che con i ragazzi del borgo, aveva esaurito tutti i suoi interessi poetici.

Trasferito in città, era vissuto di un libro solo, una vecchia enciclopedia: aveva visto i commerci di suo padre, indeciso sempre tra pratica e teoria, tra studi e mercati, ed era finito al ginnasio solo perché s'erano accorti ch'egli aveva un'intelligenza piú solida del comune. Franco sino all'arroganza, c'era in lui un certo dominio degli avvenimenti. In tutto il suo mondo c'erano degli squilibri profondi. Gli pesava un'amarezza, uno sconforto che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Certe febbri di dubbio completamente metafisico lo straziavano. Tutto questo fermentava in lui senza che altri mai ne sospettasse. Un'adolescenza che s'ispirava a motivi cosí integrali doveva dargli una tragica forza; sospesa miracolosamente a un solo filo di rigida volontà eppure inesorabile di fronte agli altri.

La sua posizione sociale gli risultava non bella. Con superbia se ne vergognava. Sognava altri ritmi di vita famigliare. Non riusciva a concordare con la realtà di ogni giorno la realtà che leggeva nei libri [...].

Intenzioni3

29 ottobre, ore 12


Un programma di vita per uno spirito non romantico non può essere che una confessione. Anche scrivendo per se stessi è difficile non avvertire i pericoli di misura che si nascondono nel confessarsi. Si perde il senso delle proporzioni; l'autobiografia come problema non è la piú pacifica delle conquiste. Osservare i giusti rapporti tra la valutazione di sé e la valutazione delle cose sembra meno agevole che l'inserirsi con la mera azione in un processo storico.

Credo di poter riconoscere le mie qualità più innate in una fondamentale aridezza, e in una inesorabile volontà.

L'aridezza rappresenta insieme la mia passività e la mia misura, la serenità e l'ironia. Tutto ciò che di tragico vi può essere nella mia vita si riferisce invece alla mia volontà.

Se ripenso agli anni primi, quando gli impulsi sono piú netti e precisi, quando la barbarie si compromette senza cautele, ritrovo me stesso nudo, non maturo, potenziale, con una ingiustificata fiducia e una avvertita debolezza.

Sono dotato dalla natura come un primitivo. Sono ricco per istinto, per un impulso originario alla vita; povero, solo, per tutto il resto. Ho l'anima e l'inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un cinico; la storia non mi ha dato eredità di sorta; l'ambiente in cui son vissuto non mi ha offerto comunicazioni, non ha alimentato i miei problemi; non devo nulla a nessuno. Se ho voluto la storia me la son dovuta creare io; se ho voluto capire ho dovuto vivere; il mio gusto si è formato per un duro proposito. Ho peccato per amore quasi infantile per la cultura, per la filosofia: bisognava bene che amassi qualcosa, con tutta l'oscura violenza nascosta della mia originaria volontà di vivere; e a ciò che hai creato artificialmente bisogna che t'attacchi in un certo momento con piú passione. Dovevo anche fare in fretta; se mi guardo ora vedo proprio il desiderio gretto e feroce del povero che vuol arricchire.

Cinico perché arido, forte perché solo e spregiudicato.

Io ignoro le qualità che i romantici hanno attribuito ai primitivi. Anche bambino non ho conosciuto l'idillio. Ho soffocato la gioia e la confidenza nella precocità della riflessione.

Vivevo a quattro anni in campagna con la mentalità di un cittadino spostato e prepotente. Questo mi viene dalla famiglia (figlio di contadini – emigrati – diventati piccoli borghesi per gretto arrivismo di avventura). (Invece dell'arrivismo trovate in me dell'incertezza – mi sento spostato). Se cancello i ricordi che corrispondono soltanto all'ideale pedagogico proposto attraverso l'esempio dei genitori, mi restano pochi segni decisivi del mio spirito d'allora.

Inizio di un diario4

23. VIII. 1919


Eccomi a cominciare degli appunti in cui dovrò andar concretando le mie esperienze, la mia vita vissuta. Un diario, come lo chiamano. La vita moderna è cosí esteriormente rapida, invadente, c'è tanto bisogno di leggere, di discutere che di rado si posson fare i conti con se medesimo. Voglio vedere se sono capace a fissare un po' i miei sentimenti e i miei pensieri, voglio sorprendere le mie contraddizioni, che anche ora sorprendo e spesso, ma solo per un attimo e senza conservarne l'esperienza. Io ho delle debolezze, ma le mie debolezze, i miei sconforti cedono sempre di fronte a un momento di attività, non esistono piú quando vedo l'attuarsi di qualche cosa di vivo, di grande, di spirituale. Credo che in questa storia di me stesso fatta ora per ora, nell'intensità del superamento del mio pensiero, nel culmine dell'attività e anche nel momento della stanchezza, della passività, saprò vedere quando mi parrà d'essere inutile il valore della vita.

mezzogiorno


Che cosa ho fatto stamattina? Non ho perso tempo. Ma ahimè che disordine. Ho letto Paradossi educativi di Prezzolini, ho tradotto una pagina di russo, ho letto un altro capitolo di Gentile, La filosofia di Marx, poi ho dovuto scrivere a editori, a amici. Mio Dio ! Non riesco a studiare sempre allo stesso argomento. Ho bisogno di riposarmi mutando. Poi lo riprendo. Mi par di acquistare piú lena. Ma faccio davvero bene o non mi disorganizzo sempre piú? Com'è vasta la cultura che devo conquistare! E non basta conquistare il vecchio. Bisogna anche produrre, creare quel po' che si può creare. Perciò faccio la rivista. Voglio impormi del lavoro. Trovarmi sempre di fronte a un compito piú grave che devo superare. Ma non farei meglio a raccogliermi in me e fare gli studi che mi garba con tutto il mio tempo? Forse. Ma mi parrebbe d'essere più piccolo. Voglio essere migliore che nei momenti in cui penso cosí. Dicono di me che lavoro che scarabocchio sulla rivista mia, che sono ambizioso arrivista, egoista. Chi sa? Mi parrebbe di essere piú egoista lavorando da solo senza badare a nessuno su [?] tutti gli altri. A questo modo son sicuro che farei molto e bene. Ma per la mia fama. E che me ne importa? Non è meglio prodigarsi oltre che per sé per gli amici, per gli altri, per la cultura di questa nostra povera patria. Non credo di esser altruista a questo modo. Quistioni di parole sciocche. Ma sono piú sublime egoista. Voglio aver dinanzi sempre concreta, viva, l'attività dello spirito, voglio veder me negli altri.

sera


Arriverà tra poco la mia dievocka meravigliosa. Io non sono mai stato cosí olimpicamente calmo, cosí fortemente sereno. Provo della gioia forse, ma piú che gioia quel senso di umanità perfetta che si sente solo nei momenti piú belli della vita nostra quando creiamo la verità. Sí ormai il mio affetto non è piú turbamento interno, non è piú tormentoso aspirare alla comprensione di un'anima o pretenzioso sentimento di esser utile a lei. Sento finalmente l'amore come verità, come serenità. E il mio sentimento non è piú qualcosa che figuri come un episodio, come un momento di me. È tutta la mia vita, e lo sforzo del passato, e la base per lo sforzo del futuro. Ahimè! noi pensiamo ancora l'amore come una cosa troppo esteriore, quando non è addirittura volgare. Noi di questo sentimento non riesciamo neanche a parlare come non sappiamo parlare senza arrossire o scherzare di tutte le nostre cose nobili. Mi pare di essere ormai a una visione piú vera e piú alta. Tanto che con tutta la profondità del mio sentimento son riuscito a vivere lontano da lei senza fremere o imprecare studiando, quasi tranquillo e solo con un senso limpido di estasi che mi trasportava quasi insensibilmente a lei e me la faceva trovar dinanzi ogni momento a [?] e ogni momento in colloquio col mio spirito. È perché qui l'identità delle anime si è realizzata davvero attraverso un processo lungo e instancabile di reciproca formazione che anche se era cosciente in me solo (lei nella purezza del suo affetto che è anche dedizione non voleva neanche pensare di avere dell'influenza, della capacità educativa) non era però meno vero reciprocamente. Il mio ideale l'ho incarnato in lei, l'avevo incarnato in lei già senza conoscerla, nella gentilezza del suo viso che parlava la voce del vero. Io sono stato tanto tempo un egoista. Un'educazione famigliare poco forte moralmente mi aveva tenuto sempre in uno stato di incoscienza morale. Da piccolo son stato sempre perverso con crudo senso di compiacimento, perché questo almeno ho avuto sempre indomabile – e pure ho cercato tante volte di domarlo, di soffocarlo – un senso invincibile di sincerità.

Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei glie ne sarò grato sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. Ho avuto davvero della fede, un senso di mistica religiosità per lei; mi pareva che il guardarla mi dovesse elevare sempre e poiché la mia volontà non crolla sinché non raggiunge l'ideale mi son elevato sempre davvero in una conquista di verità instancabile. Ora che mi son rinnovato davvero, che si è rinnovata anche lei mi pare di vederla come la mia bella sorella d'elezione, come un angelo che mi guida e che insieme io devo aiutare a concretarsi nella realtà dalla dolcezza eterea in cui vive. Sono scolaro e maestro insieme e solo a questo patto posso amare. Se fossi costretto a pensare per un momento la differenza di sesso come differenza di capacità spirituale non so qual senso pauroso di desolazione proverei; forse il mio cuore sarebbe infranto. Come se mi togliessero il mio spirito, la mia esperienza storica. Questo amore è una mia conquista. Per perderlo dovrei impazzire. Se lo perdessi impazzirei. Ma non lo posso perdere. C'è in me la sicurezza dell'eternità. Il palpito, l'ardore delle grandi cose che può salire, ma non discendere! Vita, vita mia, tu arrivi in questo momento in città: presto ti potrò salutare e sentir camminare vicino a me, ma quando sei arrivata al mio spirito? Quando ne sei partita! Credo di aver conquistata la felicità, il senso di sicurezza della vita solo nell'amore. Da quel tempo, da quando mi son creato un dio e poi l'ho trovato nella vita, spirito attivo, sono meno tormentosi i miei dubbi, meno angosciosi i miei sconforti. Mi son rivelato da allora a me stesso!

24. VIII. 1919


Voglio cominciare una buona volta uno studio serio e non smetterlo piú. Regolerò ciò che faccio con le esigenze pratiche.

Da una parte mi metterò a studiare politica generale per intensificare la formazione della mia coscienza politica. Leggerò Treitschke, Aristotele, Ferrari, Machiavelli, Pareto e poi gli altri. Avvierò lo studio sul Marxismo: per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola ecc.). D'altra parte studio il bolscevismo, minutamente.

Conto di finire presto gli studi che avevo intrapreso: sulla scuola per es., di leggere solo piú le novità librarie di questo mese. Poi affiderò questo lavoro ad altri ed io terrò solo piú la parte politica.

Ma intanto bisognerebbe che continuassi la filosofia. Prima di dicembre leggerò Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce e guarderò qualche altro libro. Poi prenderò una storia della filosofia e farò uno studio organico.

I bolscevichi conto di finirli in febbraio dell'anno che viene – e di pubblicare il lavoro. Poi prenderò gli economisti liberali. Nel frattempo continuo i socialisti.

La politica generale la condurrò abbastanza avanti nell'inverno e mi metterò allora agli ambasciatori veneziani.

25. VIII sera mezzanotte


Ho lavorato molto in questi giorni. Sono contento – direi quasi – di ciò che ho fatto. Appena due capitoli di Treitschke, ma pensati, postillati, risolti [rifatti?]. E pensieri, intanto su Machiavelli, su Missiroli, su Gentile. Per l'arte, letto Stuparich. Ho plasmato anche il mio io sottoponendolo alla pratica. Ed ho elaborato intensamente un programma di rinnovamento della rivista che pensavo da tempo. Adesso vengo dal Rigoletto. E voglio raccogliere le mie impressioni perché per me questa serata è stata importante assai. È la prima volta che mi pare di veder nettamente il valore della musica e di distinguerla dal disvalore.

Nel Rigoletto mi pare di vedere un insieme di elementi non ben fusi. L'accento piú profondo dell'opera dovrebbe essere la vendetta. Ed è infatti cosí. La maledizione di Monterone è come la voce del destino che si ripercuote nel cuore di tutti e risuona tremenda nell'anima del protagonista a dominare la piena dei suoi affetti. Dalla maledizione nasce la vendetta. Ma l'origine comune è un'altra; l'origine di questa profondità di passione è nel riso del buffone che dovrebbe avere quindi (ma io non l'ho visto) l'eco confusa, quasi triste colore, di ciò che sarà. La contraddizione e la debolezza del dramma sta in questo, che quest'eco non si ritrova che di rado (bellissima, per esempio, appunto per ciò, è l'invocazione al pianto che poi torna ad accompagnare i singhiozzi di Rigoletto). Singhiozzi, risa, pianti, beffe non sono legati dall'umanità profonda e dolorante, che sola li poteva stringere armonicamente in un vero contenuto.

L'altra nota potente è l'amore, ma non si può dire che vinca sulla vendetta. Sono due voci diverse. Il finale dell'atto II (o III se si vuole) che li vuole far nascere insieme nell'animo dei personaggi mi è parso debolissimo. Si resta presi dal turbine di suoni; ma sotto si sente l'artificio, non puoi tremare, e neanche sentire pietà.

Una certa tristezza bella c'è nell'amore di Gilda dove senti a volta a volta il palpito della purezza, dell'innocenza, della passione che non ha fine, della pietà bella ed amorosa, ma tutto questo ha appena un valore di impressione laterale. Come l'amarezza di Rigoletto si soffoca nella beffa della corte (ma ne sorge – non si può negare – una piú viva tragicità) cosí l'amore di Gilda muore nella leggerezza di chi la circonda. La profondità del suo affetto s'incontra con l'esteriorità e superficialità del Duca (La donna è mobile), ma il contrasto penoso e d'effetto talvolta finisce per portare uno squilibrio troppo spesso. Tanto che il Verdi per unificare tutte queste corde deve ricorrere all'artificio del terzo atto dove amore, destino, vendetta, pietà si fondono tutte e si ripercuotono nell'animo di chi sente come dolore infinito, su cui si spande il soffio perturbatore della tremenda tempesta scatenata.

Cosí la ricchezza profonda degli elementi che l'autore aveva profusi nella tragedia, e che era anche riuscito talvolta a fondere sviluppandoli nell'anima dei protagonisti finisce in un rombo di esteriorità, che colpisce l'animo dello spettatore come paurosa esteriorità, ma non piú. Per questo l'opera sarà applaudita sempre da ogni pubblico che sente qua e là ciò che s'aspetta.

E tuttavia oltre a quelli che io ho notato sono ancora visibilissimi altri squilibri, e mancati sviluppi: le passioni si manifestano saltuariamente, non c'è passaggio sentimentale da una gradazione all'altra.

Questo è quanto credo di aver trovato nel R. Queste le mie impressioni di inesperto. Ma una gran fiducia mi pervade che io sia nel vero. Avrò esagerato certe tinte, e tralasciate molte cose. Ma la gioia che provo è di aver conquistato alfine il valore nuovo, sospirato. Stassera io ho sentito palpitare in me ogni accento dell'orchestra. Per forza di volontà non piú. Per intimo affetto. Ai concerti di quest'inverno mi sforzavo di sentire. Oggi ho sentito. E se anche ho sbagliato questo m'importa: che per tre ore mi son immerso nella musicalità di quel teatro: ho dimenticato il tempo e ho pensato solo agli accordi che afferravo. E questo per me, lontano dalla musica, che credevo di non poterla sentire, è già qualcosa. Forse c'è l'influenza della mia fanciulla. Per questo prima di andare a letto voglio pensare a lei. L'ho vista oggi, l'ho sentita in me, mi son sentito nella sua ardente purezza. Che gioia! È tutto un senso di profondo idealismo che mi pervade!

26-VIII


È vero. C'è tanta instabilità, tanta mobilità di situazioni e di azioni, che la vita appare talvolta come pauroso enigma, come tremendo destino che ti perseguita e non ti lascia fermo. Nella vita non c'è posto per i deboli. O si è vinti, e allora bisogna scomparire, e si scompare lentamente, passivamente, anche se non si muore. O si è piú che uomini e allora si vince. Ma per esser piú che uomini bisogna sapersi plasmare mirabilmente l'anima senza pietà e senza paura, bisogna saper essere uomo ad ogni istante e cioè saper essere un uomo sempre diverso, sempre presente a se stesso, sempre domatore, che non s'arresta di fronte a nulla, perché sa riconoscersi ad ogni momento e non ha altro scopo, altra vita che la sua spiritualità. Questo io mi sforzo di raggiungere ad ogni momento, e mi ci sforzo torturandomi, talvolta senza nemmeno avvertire, perché nella tortura c'è anche la vita. Bisogna non lasciarsi dominare da ciò che è esterno, non credere se non a ciò che può diventare nostro palpito e nostro ardore – nostro perché profondamente umano e solo umano. C'è in noi la nostra negazione, il nostro demonio, che noi vinciamo diventando eroi attraverso la vittoria. E questo è bello: saper avvertire come cosa nostra il male, nostra proprio mentre lo cacciamo da noi. Giungere a questa profonda autocoscienza che ci fa distruggere il dolore appena lo sentiamo, perché la nostra onnipresenza è onnipresenza di soggetti, e il dominare dello scoraggiamento, del male deve essere avvertito da me, cioè da un nuovo elemento, che diventando soggetto e attore crea il nuovo bene. E cosí in processi successivi di autocoscienza noi conquistiamo la verità sempre nuova. Questo mi è venuto fatto di pensare dopo una giornata di tormento e di attività: di attività tumultuosa, che mi ha messo a fronte con nuovi uomini, a me sconosciuti, che mi ha fatto vedere altri interessi, altra vita. E accade spesso cosí. Che il nostro centro vitale pare spostato, pare non piú chiaro e vero e nel turbinare dell'azione, che tu piú non comprendi, perché non sai piú a qual io corrisponda, ti viene un desiderio di seppellimento, di apatia, di morte mistica. E ti par dolce assaporare la fine. E se tu superi questo momento, se tu stanco, soffocato, abbattuto, sai vincer ancora, la vita è per te. È una delle piú rare conquiste perché passi insieme dal Nirvana al scintillare ardente dell'azione. E se solo si agisse, se non si raggiungesse anche il cielo e le tenebre con umiltà, non sarebbe piú bella l'azione. Perché sarebbe limite. E il limite lo voglio posto da me istante per istante come voglio, perché voglio. Ma neanche a questa conquista è stata indifferente la mia eterna bimba. Ho sentito nella fredda profondità della superba disillusione il suo ridere e il fremere dei suoi riccioli. Oh viva l'illusione, se è illusione questa! Però oggi sono molto stanco. Potrei continuare a lavorare, ma sarebbe sfoggio di potenza inutile. Non dilaniamo la nostra capacità di trasfigurazione. Nel fervor dell'azione è dolce conquista anche il riposo. Il sonno, il sogno. È problema che mi agita spesso : quando lo risolverò? Bisogna conquistare altra serenità e altra gioia. Un pensiero ancora a Didí. Mi voglio addormentare meditando sulla sacra purezza di Carlo Stuparich. Non dimentichiamo questo nome di bimbo [?]. È l'ardore di un poeta. Qualcuno lo potrebbe dire fallito. Ma che è fallito. Anche lui sentiva ogni giorno il bene nuovo, il rinnovamento che non si arresta. Con meno serenità, con meno calma. Autocritica spietata che non permette l'avanzar di un passo nel progresso individuale e a tutto chiede Perché? Come mai? Che hai fatto? Non è filosofo; non si interessa della verità. S'interessa dei palpiti che ha provato nel vederla. Pensava troppo al passato, troppo al futuro. Come i poeti. E si sforzava invano di sentire il valore dell'azione di ogni momento. Ma io lo amo come un fratello. È triestino, come Slataper, sai, Didí?

28. VIII


Due giorni di tortura, di strazio, di disperazione. Assistevo allo sfarsi dell'anima mia, inerte. Il tormento dell'autocritica. Non riesco piú a dominarmi. Lascio perché analizzarmi non posso. È pericolo da cui potrei non più rialzarmi. Torno all'azione, che ieri mi pareva inutile, sciocca. La sfiducia nell'azione nell'attività si vince solo lavorando.

sera


La Traviata stassera mi ha fatto un'impressione completamente contraria al Rigoletto. Certo c'è un certo progresso rispetto a questo, c'è sopratutto maggior respiro (il preludio e il preludio all'ultimo atto) e una grande forza di elementi musicali condensati in poche frasi (Croce e delizia al cor) e la forza mesta profonda dei frequenti gioia, gioire quasi un transumanarsi.

Ma il dramma non c'è e lo si vede anche negli artifizi messi su per farlo forzatamente, come sulla fine dell'ultimo atto dove la conclusione solenne quasi un'eco non è preparata abbastanza. In Rigoletto avevamo elementi non fusi. Qui elementi troppo poco sviluppati. Non c'è comprensione tra i personaggi. Ognuno recita la sua lirica. Gli stessi elementi tornano all'infinito. Violetta ride sospira, spasima in ansia ad ogni momento: non c'è progresso da stato d'animo a catarsi.

L'ora di un bilancio5

So bene l'arte delle confidenze misurate e il gioco delle mentite confessioni, ho appreso anch'io piú per dovere che per istinto le necessarie poetiche e ogni arte dello scrivere. Voglio dire che ho fatto anch'io le mie battaglie letterarie, benché non abbia alcuna intenzione di presentarvi le ferite o ricordarvi i colpi infranti [per inferti?]. Veramente non ho la rispettabile psicologia del reduce.

Ma senza venir meno al decoro mi pare di poter invocare l'esperienza passata come una giustificazione e una difesa. Sono, non dirò un buon combattente per ragioni di ironia, ma certo un degno soldato e il mio spirito rude non ha mai avuto bisogno di esasperate confessioni; i cimenti estremi coincidevano senz'altro con la psicologia cotidiana.

Ora sono passati venti anni, e mi sembra di aver vissuto due vite. È l'ora di un bilancio, che non sia un arido elenco di risultati intellettuali, ma la scoperta delicata e terribile di una responsabilità.

Le ragioni del pessimismo e dell'ottimismo [...].

L'editore ideale6

Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni piú tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo piú io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella alla [...]; arrivato con 30 soli secondi di ritardo alla stazione dove tra un treno e l'altro devo combinare un contratto con un editore straniero, ricevute 20 telefonate, 10 facce nuove che vengono con le proposte piú bislacche e bisogna sentire, per vedere l'idea che vi portano, scrutarle, scegliere il giovane da aiutare e il presuntuoso da metter subito alla porta,

[qui il ms. risulterebbe interrotto].


Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l'editore dev'essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale. L'importante è ch'egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso il commercio.

Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità di circolante. Il mio editore ideale che con una tipografia e un'associazione in una cartiera controlla i prezzi; con quattro librerie modello conosce le oscillazioni quotidiane del mercato, con due riviste si mantiene a contatto coi piú importanti movimenti d'idee, li suscita, li rinvigorisce, non ha bisogno di essere un Rockfeller. La sua forza finanziaria deve esser tutta nella sua capacità di moltiplicare gli affari.

Il mio editore stampa io collezioni, trova i competenti dove sembra che non ci siano, può creare una storia universale, un'enciclopedia...

Basta che egli sia stato logico; non abbia fatto transazioni coi suoi principi di uomo colto, che pubblico e scrittori siano sicuri di lui. Un paese in cui ci fossero tradizioni, che non si debba improvvisare come succede a noi, la potenza di un editore antico è praticamente illimitata. Paravia e Sonzogno in Italia possono fare ciò che vogliono. È un peccato che si siano dedicati soltanto alle edizioni scolastiche e alla divulgazione corrente.

* * *


Il centro della crisi del libro dunque è la crisi dell'editore. In Italia non si crede all'editore. Quasi tutti gli editori sono tipografi o librai...

L'amico Ferrari, uno dei piú intelligenti librai d'Italia, ha sollevato le ire dicendo che non ci sono editori in Italia...

(Alle prime tre pagine manoscritte ne facciamo seguire un'altra distaccata, di un tempo posteriore, nella quale è evidente la ripresa dell'argomento).

Se il discorso si riferisce soltanto all'Italia, l'Italia non ha crisi libraria: voglio dire che la produzione non è diminuita né peggiorata in confronto ad altri periodi della nostra storia intellettuale. La crisi è sempre esistita e continuerà se si paragona la qualità e la quantità della nostra produzione editoriale con quella dei paesi civili, specialmente Germania, Francia, Inghilterra. (In Bulgaria, in Svezia, in Cecoslovacchia, La pace di F. Nitti si è venduta due volte piú che in Italia, dunque proporzionalmente col numero degli abitanti 8, 15, 20 volte piú che in Italia: e bisogna aggiungere che nel 1925 La pace di Nitti è la piú alta tiratura del libro politico raggiunta in Italia).

Il nostro commercio librario, dicono, non è bene organizzato, i dazi doganali sulla carta e sulle macchine tipografiche pesano due volte sul prezzo del libro, non sappiamo esportare nell'America del Sud ecc. ecc. ecco tante ragioni della crisi che è piú vecchia delle tesi del Bonghi e del Martini sull'impopolarità della letteratura e l'inesistenza del teatro italiano. Il libro di cultura in Italia si stampa normalmente in 2.000 copie, in Germania in 5.000; la prima edizione di un nostro romanzo importante è di 5.000 copie, in Francia di 20.000; l'edizione italiana della Storia di Cristo ha toccato 100.000 copie, le edizioni americane quasi 1.000.000 di copie.

La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l'Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico.

Appunti per la tragedia cosmica della modernità7

Felice

– Una grande aspirazione infranta – Il bisogno dell'indipendente ironia e il tragico fluire degli istinti accascianti – Il peso di un programma anacronistico.

– L'aridezza dominante di un compito che mi spezza – L'eseguire delle somme non potrebbe essere il rassegnato cilicio della tua disperazione? – Ma se nella mia disperazione non c'è luce? – Perché ti lasci fallire la vita, perché non credi al tuo lavoro? Liberati da ciò che ti angustia – Se la responsabilità di tua madre e di tua sorella ti sono insopportabili, puoi bene ucciderle nel pensiero perché nel pensiero almeno regni la tua armonia. – Non è questo. Io cerco un punto esterno. – Non confessarti cosí: se tu lasci inesplorato un momento attivo del tuo spirito ne potrai avere il conforto. – Mi è fallito l'amore, mi è fallito il lavoro. Sono un impotente e tu mi chiedi fiducia in me stesso?

Lidia

– Non andremo stassera in baldoria? – Non posso – Tu non sai la gioia dei sensi – È vero io sono eunuco.

– Vuoi essere mia moglie? – Ma non vi siete guardato mai? – Credo di poter abolire gli specchi. – E l'animo, l'animo tuo l'hai abolito del pari? – Pensavo che dieci anni di sacrifizio... – Ma il tuo sacrificio non si appaga di silenzio? – L'ho sperato, ne ho sofferto a lungo, la liberazione non veniva e poi il tuo viso... – Il mio viso è mutevole come il mio spirito. Oseresti tu fermare il mio sorriso? Cosí non fermerai me. Io vivo del mio essere ambiguo. – Ho sperato in te come in uno spirito di pace. Vedi io non riesco alla solitudine gigantesca. Quando leggevo Schop. e Nietz. mi accorsi presto che essi si facevano beffe di me. E la comunicazione con gli altri mi deprime. Non sono ambizioso, non sono vano: ho un amico, gli credo ciecamente, lo amo. Ma tu intendi, parlare con lui vuol dire perdere la coscienza dei miei limiti: mi si strappa alle mie carni e io so che questi folli sogni non avranno appagamento, so che ne uscirò piú disincantato, piú debole. Sii tu il mio incanto. Io sono debole, ma saprò costruire per te. – Mi costruirai un mondo? – Si, un piccolo mondo: una casetta [...] e la pace per un lavoro comune. Ho creduto che fosse un ideale borghese. No, credimi, esso è ancora il piú sano. – Tu hai paura dei castelli in aria? – Mio dio, ho bisogno di pace, abbi pietà. – No, caruccio, io voglio il mio bel palazzo incantato. Nella tua casa la luce viene da piccole finestre. – Tu mi umili, hai ragione. Ma la mia tenerezza e la tua non basterebbero. – Sii piú chiaro : tu mi proponi il suicidio. – Ma se il suicidio fosse come l'igiene del sogno? – Non insistere, preferisco la malattia. Quanto a te, lo sento, è giusto che tu muoia. Io non ti voglio distogliere. Il tuo lavoro non basta per te e non basterà per noi due. Non di un suicidio lento... Tu hai bisogno di nettezza almeno in questo. – In tale abisso mi credi precipitato? – Sii sincero almeno nella liberazione.

Lidia e Monaca

– Tu mi hai comunicata la tua febbre di distruzione. E tu hai ragione. Dove condurrebbe l'umiltà?

– Grazie Lidia della tua asprezza. Io rivivo nella tua vendetta.

– Siamo due aberrazioni.

– E perché di quest'odio noi godiamo? Spiegami, io ti ubbidisco ignorando. Fa' un po' di luce. Io sono debole spesso.

– Consolarti è consolarmi. Cinque anni fa io ero piú sola. Tu non mi potevi comprendere. Allora io ho perduto ogni pensiero di redenzione. Il mio segreto è cosí chiuso.

Paolo e Monaca

– Ho costruito il tuo incanto, non mi sfuggirai. I miei capelli sono rossi, anche i tuoi saranno rossi quando li brucerò. E anche quelli di Amalia.

– Non vedi nella mia sicurezza il mio dominio.

– Arte per arte, la mia doppiezza vale la tua quiete.

Monaca e Lidia

– Io non avrò pace.

– Ma la tua sorella?

– Tu sei disonorata con me.

– Ma è l'intenzione, tu capisci ! Egli ha domata la mia ironia. La mia aridezza si sveglia. Io non sono fedele neanche alla mia rinuncia. Io lo amo ed egli ha riso.

– Bisogna che io muoia con te.

Commento alla scena in spettri [?].

Felice

Perché non ha voluto ella morire a poco a poco con me. Mi disprezza e mi chiama – Ombre di dannazione – Fragilità mia!

Una scena in biblioteca

Fare la tragedia di Monaca e di Lidia; della loro aspirazione malsana alla cui base sta una femminilità esasperata, desiderosa di infinito, incapace di amore vero; o se mai di amore in cui resta della vanità, mai di dedizione.

Lidia uccide Paolo. Monaca è stroncata nella sua vanità, vinta da quello che credeva il suo ideale. Allora tutte due devono morire. La passione di Monaca è quella stessa di Lidia: l'una è omicida, l'altra è suicida. Ma il delitto è lo stesso in tutte due.

Commiato8

L'ultima visione di Torino: attraverso la botte di vetro traballante che va nella neve: dominante l'enorme mantello del vetturino (che è l'ultima sua poesia). Saluto nordico al mio cuore di nordico.

Ma sono io nordico? e queste parole hanno un senso? Valgono per la polemica queste antitesi dottrinali, e anche di gusti, di costumi, di ideali. Mi sentirò piú vicino a un francese intelligente che a un italiano zotico, ma quando mi proporrò delle esperienze intellettuali, quando li guarderò per la mia cultura. Ho sentito in Saffron Hill come io sia ancora attaccato alle cose umili, alla vita della razza. Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà : sono stati incatenati a questa terra che maledirono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati.

Tilgher dice che è meglio un paese civile. Ossia pensa che potrà fare meglio i suoi articoli. Egli ha rinunciato a ogni altra risonanza. Io sento che la mia azione altrove non avrà il sapore che ebbe qui: che le sfumature non saranno intese; che non ritroverò gli stessi amici che mi capivano.

Il cinismo era una difesa contro il sentimentalismo che ripugna al mio ideale virile. Ma io sarei desolato se la mia vita si riducesse a una rigorosa esecuzione d'un piano e se non avvertissi in me, difficile a dominare, nei momenti piú difficili, il tumulto della vita interiore e l'ansia degli affetti.

Il senso del fato – non come punto di partenza, ma come indifferenza alle vicende – quando si è sicuri di sé. Non m'importano i risultati perché li accetto come misura della mia azione, di me (un'altra misurazione della volontà sarebbe complicata e impossibile). Il segno: essere se stessi dappertutto. Naturalmente non bisogna [essere] isterici e si può essere tranquilli solo se non si cercano delle conferme. La concezione della vita come serie di esami è stupida: tutto si riduce invece all'aver credito, al non aver bisogno di esami perché si è qualcosa (si intende sempre socialmente).

Indice delle tavole

I Prima fotografia di Gobetti

II All'età di 6 anni (1907)

III Gobetti (primo a sinistra della seconda fila in piedi) tra i compagni del ginnasio Cesare Balbo

IV Gobetti a Laigueglia nel 1917 (secondo a sinistra) accanto al padre (vestito di bianco)

V Dalla tessera universitaria del 1918

VI Gobetti (il secondo da sinistra, in piedi) con i suoi compagni del corso allievi ufficiali a Torino (1921)

VII Prima pagina manoscritta della commemorazione di Dante che Gobetti tenne ai compagni del servizio militare (1921)

VIII Una copertina di Energie Nove, la rivista che Gobetti fondò appena diciassettenne nel 1918

IX Gobetti con la moglie Ada Prospero

X Il primo numero di La Rivoluzione liberale del 12 febbraio 1922

XI Gobetti a 23 anni

XII Il numero del Baretti dedicato alla memoria del suo fondatore

XIII Gobetti nel 1924

XIV Copertina della monografia su Matteotti

XV Ritratto di Gobetti eseguito a Roma da Bragaglia nel 1924

XVI L'ultima lettera alla moglie da Parigi

XVII Gobetti nella fototessera per il passaporto

Note

  1. Pagina manoscritta, senza data: il testo è incompiuto. Titolo redazionale.
  2. Undici pagine manoscritte numerate, senza data. Il titolo è redazionale della rivista Il Ponte, che pubblicò il testo nel numero di marzo del 1956.
  3. Tre pagine manoscritte, senza data. Il titolo è dell'Autore. Le pubblicò Il Contemporaneo, anno III, n. 7, 18 febbraio 1956.
  4. Sedici pagine dattiloscritte. Il titolo è redazionale.
  5. Una pagina manoscritta interrotta, senza data, su foglio di carta intestata Energie Nuove. Titolo redazionale.
  6. Quattro pagine manoscritte, senza data (ma 1925). Titolo redazionale.
  7. Cinque pagine manoscritte, senza data. Il titolo è dell'Autore.
  8. Tre paginette manoscritte di un taccuino senza data (ma 1926), numerate da 47 a 49. Il resto, fino all'ultima pagina 197, è bianco. Il titolo di Commiato fu posto da Il Baretti (anno III, n. 3, 16 marzo 1926) che pubblicò il testo con la seguente nota: «Questa pagina non fu scritta per essere pubblicata. Fu trovata in un taccuino, che Gobetti portò con sé a Parigi: è, si vede, una confessione, affidata a rapidi appunti delle impressioni provate lasciando l'Italia. È perciò una delle ultime cose scritte da lui: e rivela quell'intimità dell'animo suo, che gli amici conoscevano o indovinavano, ma che egli amava celare sotto il serrato gioco della dialettica o sotto la polemica implacabile». Col titolo L'ultima visione di Torino questo «commiato» apparve trent'anni dopo, nell'edizione piemontese de L'Unità (16 febbraio 1956).